| L’isola di Arturo, di Elsa Morante. Einaudi, € 13, pp. 398 |
Non
sei mai stato sull’Isola di Arturo? Hanno usato questo
verbo, stare, anziché leggere. Come se fosse un luogo
sull’atlante, non un romanzo. Come se a una determinata età rappresentasse semplicemente una
tappa obbligata. Il capolavoro di Elsa Morante è saltato fuori così,
per caso, durante una conversazione in cui si parlava dei mondi
irrinunciabili di Elena Ferrante – sin dal nome in assonanza,
un’allieva spirituale dell’autrice Premio Strega – e di una mia
storia in corso d’opera, che parimenti vorrebbe raccontare i dolori
del crescere e il brontolio del mare. Anche se in ritardo sulla
tabella di marcia, allora, mi sono imbarcato al porto di Napoli. A
venticinque anni, dunque lontano dal tempo dell’adolescenza, e fuori stagione. Il piroscafo è arrivato puntuale. E il
magico diradarsi della foschia, presto, mi ha svelato lo spettacolo
di Procida: un’isola che non c’è contraddistinta da un sapore di
leggenda e arroccata come una fortezza medievale. In cima ecco
svettare il penitenziario, dalle cui celle anguste si ammira a sfregio la libertà delle onde.
Lì non arrivano né le notizie di cronaca nera né i bollettini di
guerra. Senza tempo, l’isola ospita una reggia severamente vietata
alle donne: ex convento già stravolto in passato dagli
ammodernamenti dell’Amalfitano, la struttura è diventata una
fortezza selvaggia di granelli di polvere, ragnatele e bestie. Manca
il tocco femminile, ma Arturo non ne sente la mancanza.
Questa
dunque è la tua casa, e tu ci tornerai sempre, perché, a casa,
sempre ci si ritorna.
Quattordici
anni, eternamente in vacanza, il giovane protagonista è un lettore
raffinatissimo e un brillante autodidatta: innamorato
dell’innamoramento, suo malgrado vive una feroce sindrome
d’abbandono e i postumi della cosiddetta età ingrata. Come
ogni quattordicenne, sta cambiando pelle – e voce, viso, carattere
–, e allo specchio si percepisce brutto e sgraziato. Lo immagino
con una lettera nascosta sotto la maglietta, un orecchino spaiato in
tasca, le ginocchia sbucciate. Lo immagino sul molo, in attesa degli
arrivi dal Continente. Ma non aspetta me – ospite dell’ultima ora
–, bensì suo padre. Gli eroi di cui legge hanno lo stesso volto del genitore. Venerato al pari di una
divinità bionda e onnipotente, Wilhelm Gerace è un uomo
prevaricatore e strafottente, che semina tutt’intorno le vittime
della sua disattenzione: l’ultima è Nunzia, neosposa di appena
sedici anni, che sbarca senza essere stata prima annunciata.
Bellissima e credulona, sottratta a un’esistenza in convento, pensa
che Napoli sia il centro del mondo e patisce il buio, la solitudine,
gli obblighi inevitabili della prima notte di nozze. L’arrivo della
matrigna – le sue forme sinuose intuite sotto la vesticciola, i
sorrisi candidi nel sonno – sconvolge il fragile mènage domestico
e turba il protagonista, finora abituato alla sola presenza della
cagnolina Immacolatella. Nunzia ascolta incantata i pensieri
gloriosi del figliastro, ne ammira a bocca aperta i lazzi
funambolici, asseconda teneramente le sue richieste d’attenzione.
Pian piano tra i due nascerà una complicità destinata a sfociare
spesso in scenate violente, per via del desiderio inespresso di baci
e affetto; e la solitudine, anziché rifuggita, andrà difesa fianco a
fianco. Ma Arturo si porta sempre addosso una zavorra pesante, la
gelosia. Nel profondo la prova per Wilhelm, Nunzia, oppure per il futuro fratellastro?
Mi
mettevo a baciare, per prova, magari la mia barca; o un’arancia che
mangiavo, o il materasso su cui stavo disteso. Baciavo il tronco
degli alberi, l’acqua che affiorava dal mare; baciavo i gatti che
incontravo per la strada! E mi accorgevo di saper dare, senza che
nessuno me lo avesse insegnato, baci dolcissimi, veramente belli. […]
Mi dicevo: anch’io, un giorno o l’altro, bacerò qualche persona
umana. Ma chi sarà? Quando? Chi sceglierò, la prima volta? E mi
mettevo a pensare a diverse donne viste nell’isola, o a mio padre,
o a qualche ideale, futuro amico mio.
Se
fosse un film dei giorni nostri, sarebbe diretto da
Luca Guadagnino: mossa da passioni tanto antiche quanto universali –
tra le righe si parla anche d’incesto e omosessualità, tematiche
scandalose negli anni Cinquanta –, è un storia di formazione dalle
atmosfere teatrali e neorealiste.
La
storia, essenziale, in quattrocento pagine sviscera le
contraddizioni, le pulsioni e i segreti dei protagonisti quel tanto
che basta a farceli scambiare per nostri. A metà tra l’incanto
straordinario della parte introduttiva e la maturità di un epilogo
perfetto, però, c’è stata una parentesi centrale che ho trovato
piuttosto faticosa, dove il protagonista si trincera in fantasie
suicide e voli pindarici per poi redimersi definitivamente nel
momento del congedo. Insieme ai suoi stati d’animo, in parte, finisce per
infittirsi anche lo stile dell’autrice: densissimo, a volte pieno e
altre un po’ pesante, ha però tutta l’intensità di quello
dell’epigona Ferrante. In particolare nelle lungaggini, infatti, ho
trovato gli stessi narratori degni d’amore-odio, mossi da
sentimenti a picco sugli abissi della coscienza, e le stesse immagini
indelebili: chi potrà mai dimenticare l’orologio con la parola
Amicus incisa sul cinturino; l’entrata in scena di Nunzia,
liberata con prepotenza dalla crocchia; il codice Morse fischiato da
Wilhelm alla base della torre carceraria?
Là
disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui,
non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva
territori che non si poteva contare, diversi uno dall’altro, come
centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente
l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e
lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato
assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via
con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la
vita!
L’isola
di Arturo, per il resto, descrive magistralmente la fine
dell’estate della vita – ossia l’infanzia – e dei falsi miti.
È il risveglio agrodolce da un’illusione lunga una fiaba, che ci
mette faccia a faccia con il crepacuore delle promesse infrante, il
piacere fugace del sesso, la fallibilità dei genitori. Ho
capito, sì, perché è tra i preferiti di molti lettori. Ma no, non
sembra scritto ieri come affermano i più. E per fortuna. È un
romanzo di formazione di come non ne esistono più, che ha guadagnato
a pieno diritto il titolo di classico.
Il protagonista ha il nome di una costellazione e punta alle stelle. Sogna di spingersi oltre le Colonne d’Ercole e ritiene di sondare l’insondabile o con la morte, o con l’odissea della navigazione. Ma carissimo Arturo, sbagliavi di grosso: per conquistare il cielo e il mare, al pari di un novello Alessandro Magno, bastava condividere la tua storia. A distanza di sessant’anni non riesco a smettere di pensarti, sai? Sei talmente vero che ti cerco in ogni sconosciuto sul bagnasciuga, negli scintillii notturni e nella spuma delle onde, tra i nuovi arrivi dei piroscafi. Ti ho letto camminando sulla riviera e ogni tanto ho corso apposta il rischio d’inciampare, sapendo che tu mi avresti strattonato per il braccio e salvato. Con la tua ombra accanto, nelle mie passeggiate giornaliere – diecimila passi, sette chilometri, e poi torno a casa –, non ho avuto bisogno neanche della distrazione della musica; non mi sono mai sentito solo.
Il protagonista ha il nome di una costellazione e punta alle stelle. Sogna di spingersi oltre le Colonne d’Ercole e ritiene di sondare l’insondabile o con la morte, o con l’odissea della navigazione. Ma carissimo Arturo, sbagliavi di grosso: per conquistare il cielo e il mare, al pari di un novello Alessandro Magno, bastava condividere la tua storia. A distanza di sessant’anni non riesco a smettere di pensarti, sai? Sei talmente vero che ti cerco in ogni sconosciuto sul bagnasciuga, negli scintillii notturni e nella spuma delle onde, tra i nuovi arrivi dei piroscafi. Ti ho letto camminando sulla riviera e ogni tanto ho corso apposta il rischio d’inciampare, sapendo che tu mi avresti strattonato per il braccio e salvato. Con la tua ombra accanto, nelle mie passeggiate giornaliere – diecimila passi, sette chilometri, e poi torno a casa –, non ho avuto bisogno neanche della distrazione della musica; non mi sono mai sentito solo.
Il
mio voto: ★★★★★
Il
mio consiglio musicale: Levante – Lo stretto necessario