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lunedì 23 dicembre 2024

Recensione: L'avversario, di Emmanuel Carrère


| L’avversario, di Emmanuel Carrère. Adelphi, € 17, pp. 169 | 

Ho scoperto la tragedia greca negli anni del liceo classico. Personaggi oscuri, argomenti tabù, epiloghi sanguinosi. Ma, al termine di un'inarrestabile catena di nefandezze, ecco sopraggiungere la catarsi. Ci si può sentire liberati dopo una lunga esposizione alla violenza? Può la sperimentazione del male renderci meno estraneo il prossimo nostro? Emmanuel Carrère, oggi autore che non ha bisogno di presentazioni, al tempo dei fatti era conosciuto soprattutto come critico cinematografico. Fu un caso di cronaca nera a ossessionarlo e consacrarlo, facendone un osservatore più attento e, soprattutto, un narratore più empatico. In una comunità tra la Francia e la Svizzera, nei primi anni Novanta, lo stimatissimo Jean-Claude Romand sterminò i suoi cari. Se il gesto non ci stupisce, tristemente assuefatti come siamo a notizie altrettanto agghiaccianti, a farci rabbrividire è il resto della vicenda: la vita dell'assassino (medico presso l'OMS, padre amorevole, figlio devoto) era, infatti, una menzogna. Non era nemmeno laureato.

Una dolorosa lucidità è preferibile a una pace illusoria.

Narcisista patologico, impostore, mitomane, Romand raccontava bugie da vent'anni. E da vent'anni, invano, aspetta di essere scoperto. Come hanno potuto gli amici, i parenti, l'amante, credergli? In che modo ha pagato la scuola privata ai due figli, le macchine costose, i viaggi all'estero? Cosa faceva tutte le mattine quando non andava a lavorare? Sulle sue orme, Carrère gli scrive lettere; lo studia durante il processo, per poi vederlo diventare un detenuto modello; immagina di seguirlo nei parcheggi desolati, nelle stanze d'albergo, nei vuoti di una routine fantasma. Romand aveva una doppia identità o, a ben vedere, nessuna? Come Capote prima di lui, come Lagioia dopo, Carrère mette una scrittura dalla lucidità giornalistica al servizio della verità - sempre che esista. E, in un reportage che ha il ritmo dei migliori thriller, scandaglia una famiglia all'apparenza divorata dalla putredine e gli abissi di un personaggio pirandelliano.

Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.


Additato dai media come l'incarnazione dell'incubo, il protagonista del romanzo custodiva un silenziatore in una confezione regalo e una ricca collezione di maschere. Chi era in borghese, a nudo? Forse nessuno, ci dice Carrère, in un'opera pubblicata dopo cinque anni di tagli, riscritture e ripensamenti. Ha tentato di dare al carnefice profondità psicologica, redenzione, perdono. Ma forse, amaramente, gli ha assicurato soltanto l'ennesimo ruolo da interpretare; un'altra maschera dietro cui schermarsi. “Sono un essere umano”, scriveva Terenzio, “tutto ciò che è umano mi riguarda”. E il disumano, invece?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Talking Heads - Psycho Killer 

venerdì 13 dicembre 2024

Recensione: La torre d'avorio, di Paola Barbato


| La torre d’avorio, di Paola Barbato. Neri Pozza, € 20, pp. 416 |

Mi dichiaro colpevole. Avevo dimenticato quanto brava fosse Paola Barbato. Autrice tanto talentuosa quanto prolifica, ha scritto tutto e dappertutto: dai fumetti per Bonelli ai romanzi a puntate su Wattpad. Elegante come non mai, entra nella scuderia Neri Pozza per seminare colpi di scena e conferme. Incalzante, adrenalinico, tesissimo, La torre d'avorio è una caccia all'uomo — anzi, alla donna — che non conosce tregua. Ma è, soprattutto, la storia di un gruppo di personaggi femminili dalla psicologia oscura, qui scandagliata senza pregiudizi. I nostri demoni, infatti, sono al sicuro con Barbato. E tra reiette, a sorpresa, può nascere anche un commovente senso di famiglia. Prendete La pazza gioia, il capolavoro di Paolo Virzì, e vestitelo di nero: dategli una macchina con il serbatoio pieno, sicari alle calcagna e un'arma a portata di mano. Il romanzo è la storia della seconda vita di Mara: ormai cinquantenne, vive sotto falso nome in un appartamento stipato di scatoloni e rimorsi. Un decennio prima i notiziari l'hanno dipinta come una spietata femme fatale: affetta dalla sindrome di Münchausen, aveva avvelenato i suoi familiari. Tutto per prendersi cura di loro e mostrarsi, così, la madre modello richiesta dalla società.

È come se avessi dentro una belva addormentata. E finché non sarò sicura che sia morta, farò di tutto perché nessuno si avvicini.

È possibile sfuggire al proprio passato, se qualcuno ci ha intrappolato in un'imprevedibile macchinazione? Accusata di una lunga catena di nuovi avvelenamenti, la protagonista fugge. E ritrova Moira, ex bancaria che investì la dirimpettaia per via di un parcheggio conteso; Fiamma, che sfoga il suo pericoloso sex appeal su Onlyfans; Maria Grazia, che, vessata in casa e al lavoro, sparò al suo capo; Beatrice, splendida ereditiera morbosamente ossessionata dai defunti. Amiche per la vita e per le morte, le protagoniste sono talmente ben caratterizzate che ognuna meriterebbe un romanzo a sé. Strette da un legale indissolubile, costituiscono il pregio maggiore di un romanzo dallo straordinario cast d'insieme destinato a una seconda parte, però, inutilmente rocambolesca e improbabile. Superfluo anche lo strascico finale. All'inizio fortemente claustrofobico, La torre d'avorio diventa poi un tour de force sui misteri insolvibili della mente umana e sulle imperfezioni dell'essere genitori. Mara non è sola. Mara non è guarita. Non ci si riprende mai, infatti, dall'inferno di sé stessi. La bestia che ha dentro non è morta: dorme. Brutalmente oneste, le nostre antieroine hanno nostalgie profonde ma nessuno senso di colpa. Radioattive, recidive, animano uno dei romanzi più vitali dell'anno. Anche se, paradossalmente, lo scoprirete pieno di morti.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Alice Cooper – Poison

mercoledì 4 dicembre 2024

Recensione: Intermezzo, di Sally Rooney


| Intermezzo, di Sally Rooney. Einaudi, € 22, pp. 432 |

Mio nonno è morto il mese scorso. Sono stato io a comunicarlo a mio fratello: raramente risponde alle telefonate di nostra madre. Ci siamo incontrati il mattino successivo a Porta Nuova. Avevo preso i biglietti per entrambi. L'ho rimproverato: vestiva leggero, era in ritardo. Se sono a Torino, in parte, è merito suo. Quando la nostra famiglia è implosa, lui è stato il primo a mettersi al riparo lontano. Siamo diversi. Siamo superstiti.
Sensibile come sempre, adulta come mai, Sally Rooney mi si è intrufolata nel profondo, sotto pelle, con una storia di elaborazione e fratellanza. Il suo ultimo romanzo è una camera ardente. Un lungo intervallo prima di tornare alla vita. È possibile che questo Intermezzo in cui rintanarsi in attesa che il peggio passi ci riservi, a sorpresa, anche il meglio? È auspicabile augurarsi che la quiete della stasi, che la ritrovata libertà dopo mesi di reparti oncologici, durino per sempre?

Lei fa una specie di tremolante risata. Be’, se c’è un Dio, dice, sono sicuro che ti ama molto. Lui abbassa gli occhi. Sì, a volte lo riesco a sentire. Tipo quando sono con te.

Peter, trentenne all'apparenza perfetto, è in cerca del suo centro. Imbottito di antidepressivi, si divide tra due donne: Sylvia, l'indimenticata ex tormentata dai dolori cronici; Naomi, un'universitaria con una pagina Onlyfans e un appartamento occupato abusivamente. Il secondogenito, Ivan, è una promessa degli scacchi mancata: goffo e asociale, si innamora di Margaret, una deliziosa neodivorziata con dieci anni di troppo. Combattuti tra desiderio e pregiudizio, i fratelli Koubek vivranno clandestinamente la bigamia e l'incanto di un colpo di fulmine. Alle prese con l'incompiuto, cercheranno conforto nel calore di un corpo nudo e nel piacere di rivelarsi a un'amante inconsapevole. Pretenderanno di amare ed essere amati: troppo? Galeotta, come sempre, la piovosa Dublino. I cappotti non sembrano mai pesanti a sufficienza e ogni conversazione è destinata a tramutarsi in nuvole di vapore: tanto vale affogare la malinconia nelle sbronze infelici, nel sesso riparatore, anche se, cerebrali al solito, i personaggi inciamperanno nei loro atti mancati al risveglio. Li si spia senza palesarsi. Li si legge senza prender nota. Tra le pagine c'è un'intimità tale che ogni voce improvvisa, qualsiasi fruscio, minaccerebbe di infrangerla. Non sempre, tuttavia, siamo altrettanto delicati con coloro che amiamo. Io e Peter giudichiamo aspramente le scelte dei nostri fratelli - come si vestono, chi frequentano, cosa fanno del loro denaro. Ci arroghiamo il diritto di essere i boia più imparziali. È per ispessire loro la pelle, per rafforzargli le ossa. Per proteggerli dal mondo.

Nessuno è perfetto. A volte hai bisogno che le persone siano perfette e loro non riescono a esserlo e allora le odi per sempre perché non lo sono anche se non è colpa loro, e neanche tua. È solo che avevi bisogno di qualcosa che loro non potevano darti. E poi capita lo stesso a te con altre persone, sei tu quello che non soddisfa le aspettative, che non riesce a far andar meglio le cose, e ti odi così tanto che vorresti essere morto.

Da sempre custode degli equilibri familiari, il primogenito mette al vaglio ogni errore del più piccolo: hanno idee agli antipodi e vivono un lutto che, anziché unirli, minaccia di separarli - parlo di loro, parlo di noi, non lo so più. Chi avrebbe pronunciato l'elogio funebre migliore? Che fine farà il cane, rimasto senza padrone? Dove passeranno il prossimo Natale? L'unico in grado di conciliarli, quel padre dell'est umile e arrendevole, non c'è più. Pensosi, i Koubek litigano per tutto e per niente. Si bloccano su WhatsApp. Vengono alle mani. Ma, con le labbra spaccate e le nocche livide, finiscono per trovare poi scampo nei luoghi in cui sono stati bambini. Quando, al telefono, gli amici di famiglia confondevano le loro voci. Quando, nelle fotoricordo, si somigliavano. Essere simili agli occhi degli altri era la fonte di irritazione e orgoglio più grande. Siamo fratelli. Siamo specchi. Non sappiamo perdonare al sangue del nostro sangue il difetto di essere imperfetto. Non sappiamo perdonarci. Al funerale di mio nonno abbiamo visto cugini che non frequentavamo da un decennio. La notte, poi, abbiamo dormito in due letti appiccicati. Sembrava di essere tornati nei giorni terribili della separazione dei nostri genitori. Segretamente, tra me e me, però, li ricordo anche belli. Non siamo mai stati altrettanto complici come allora.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Calcutta – Tutti