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mercoledì 22 febbraio 2023

And the Oscar goes to: The Fabelmans | Gli spiriti dell'isola | Aftersun | Tár

Un ragazzino di provincia scopriva un'epifania chiamata cinema: si chiamava Fabietto ed era il protagonista dell'ultimo Sorrentino. La stessa fiaba è vissuta un anno dopo da un altro sognatore: Spielberg e il suo alter-ego, Sam. Memore delle lacrime versate per E' stata la mano di Dio, temevo e speravo di struggermi: immerso in un'irresistibile atmosfera da sit-com anni Cinquanta, invece, mi sono divertito tantissimo. Spielberg racconta gli alti e bassi di una famiglia in crisi, ma rinuncia al conflitto; omaggia i classici della settima arte, ma non appare manieristico; mette in scena sé stesso, ma rende omaggio a tutti i felici a modo loro. Sbadatamente, avevo dimenticato di trovarmi al cospetto del più grande regista di film per famiglie di tutti i tempi. E i Fabelman, che hanno le storie perfino nel nome, sono proprio indimenticabili. A capotavola siedono Paul Dano, ingegnere gentile e dolcissimo; Michelle Williams, mamma sull'orlo di una crisi d'identità, che insegue tornadi e balla alla luce dei fari. A guardarli è un adolescente dall'occhio già critico: il cinema aiuterà lui e gli altri personaggi a percepire lo scollamento tra realtà e aspettative. Sincero, personale, tenerissimo, il film minaccia di dilaniarci in un braccio di ferro tra vocazione e famiglia. L'autore che ha allevato generazioni di cinefili, invece, concilia gli opposti e sa ricreare l'intimità domestica perfino in questo eclatante esempio di grande cinema da godere sullo schermo più grande possibile. Era genetico, era destino. La casa della famiglia ebrea in fondo al viale, l'unica buia nel bel mezzo dello sfavillio del Natale, brillava di luce propria e del fascio del proiettore. L'importante, nel ritrarla, è ricordarsi di controllare l'altezza dell'orizzonte nell'inquadratura: “Se è in basso è interessante, se è in alto è interessante, ma se è al centro... È una palla mortale”. È stato un suggerimento di John Ford. È stata la mano di Spielberg. (8)

Siamo in un'isola bellissima, a largo dell'Irlanda. Sulla terraferma impazzano i combattimenti, ma a Inisherin non giungono che i boati lontani. Lì, tra i pub fumosi e le scogliere a picco, si consuma un'altra insensata guerra civile: quella fra due uomini, un tempo migliori amici, che improvvisamente non si vanno più a genio. Il pastore Colin Farrell, tenero e fragilissimo lontano dai ruoli di bel tenebroso che l'hanno reso noto in gioventù, elemosina una seconda opportunità e nel frattempo si strugge. Il violinista Brendan Gleeson, annoiato dalle moine dell'altro, minaccia di tagliarsi le dita a colpi di cesoie se importunato di nuovo. Non staranno forse esagerando? Perché non si limitano ad affrontare le solitudine e la depressione alla maniera degli altri isolani, si domandano la sorella volitiva Kerry Condon e lo scemo del villaggio Barry Keoghan? Brontoloni, imprevedibili e adorabili, gli eccellenti protagonisti animano una sceneggiatura beckettiana fatta di paradossi: la stupidità umana viene raccontata con la solita intelligenza del regista; i dialoghi, al solito fitti, nascondono non detti fino alla fine. Ma da Martin McDonagh mi aspettavo qualcosa di più, dopo i fasti di Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Piccolo e indipendente, questa volta se ne torna alle origini e con il suo microcosmo agrodolce (ho pensato a un Chocolat con la rabbia canina) conquista qualche nomination agli Oscar di troppo. Vincerà la statuetta alla sceneggiatura: brillante, al solito, ma per me inutilmente triste e amara. Su quest'isola ci sono le streghe, le canzoni folkloristiche tramandano la leggenda delle banshee, ma non c'è la magia sperata. (7)

È il film di cui tutti parlano. Un piccolo miracolo dal cuore grande, che a sorpresa è uscito dal circuito indipendente per imporsi anche nella stagione dei premi. Trama, toni e atmosfere sono quelli del Sundance: due personaggi, uno scenario esotico, tanti dialoghi, troppi non detti. Ma questa volta i protagonisti sono un padre e una figlia, e il film (autobiografico) è la storia del loro primo e ultimo viaggio insieme. Lui ha un braccio ingessato e improvvisi sbalzi d'umore; lei ha undici anni, ma la sa già lunga. Tenero e idilliaco all'apparenza, il loro rapporto nasconde ombre indecifrabili. E la sceneggiatura, sospesa, carica di tensione quell'epilogo già cult sulle note dei Queen. È possibile mettere insieme i frammenti sparsi di un genitore mai compreso? Ci prova Charlotte Wells, che affida le memorie di un'estate a Paul Mescal: ancore una volta, il gigante buono di Normal People commuove unendo la sua fisicità da adone a una delicatezza quasi femminea. Sophie lo considera vecchissimo e gli domanda cosa farà per il suo centotrentunesimo compleanno. L'uomo abbozza, vago. E i suoi misteri, a distanza di un ventennio, vengono scandagliati attraverso i video ricordo. Ma né la memoria né l'elaborazione sono lineari; non lo è il perdono. I ricordi della regista, così, diventano flash tra le luci di una discoteca. Spettri da scacciare, miraggi da acciuffare: il tutto, invano. Certe mani grandi non possono essere riafferrate per un nuovo giro in pista. Ma resta la memoria tattile del loro tocco, quando ci spalmavano il doposole nei punti in cui non arrivavamo. Aftersun è la bruciatura. Aftersun è la crema lenitiva. (9)

Da dietro il suo leggio, Lydia Tár, direttrice d'orchestra (anzi, “direttore”), muove le mani come se potesse domare il mondo intero. O annientarlo. Omosessuale, anticonformista, ambiziosissima, è misogina e conservatrice come si addice a quel mondo: tiranneggia sulla giovane e illusa assistente, seduce e abbandona le borsiste, esprime dissenso verso il politicamente corretto della generazione Z. Articolato in una serie di lunghi colloqui dal taglio teatrale, il film di Todd Field si muove come un (falso) biopic tra vita pubblica e privata: a distrarre la protagonista sono le prove per la quinta di Mahler, la ricerca di un nuovo vice alla sua altezza, il suadente rumore dei tacchi della violoncellista neoassunta. Questa è la storia, indecisa tra dramma e beffa, della perdita di controllo di Lydia. Il suo crollo (a cui, amaramente, non seguirà una rimonta) viene mostrato, nell'ultima parte, con toni vagamente horrorifici. Annunciato sin da premesse, dopo quasi tre ore fittissime lo si accoglie al suono di sbadigli. Field non è Sorkin. Tár non è Jobs. Il personaggio eponimo affascina, ma non c'è mai una curiosità voyeuristica dietro quelle conversazioni interessanti soprattutto alle orecchie degli addetti ai lavoro. A noialtri restano qualche raro sorriso tirato e la sensazione che la grande pretenziosità del tutto (prendete perfino i titoli di testa, spossanti) guasti il coraggio dello spunto di partenza: raccontare la vicenda di una predatrice sessuale nell'era del #metoo. Quest'orchestra stridente, in mano a un altro, sarebbe stata un capolavoro. Ma il film, premiato a Venezia per la migliore interpretazione femminile e plurinominato agli Oscar, è un anfibio gelido, scontato e prolisso. Come, d'altronde, la bravura da prima della classe di Cate Blanchett: a lungo andare, viene a noia anche quella. (5,5)