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mercoledì 9 ottobre 2019

Recensione: Kentuki, di Samanta Schweblin

| Kentuki, di Samanta Schweblin. Sur, € 16, pp. 230 |

Sono a forma di animali, come i peluche che preferivi quando eri bambino. Pesano due chili scarsi e sono fatti soprattutto di plastica e piume. Costano un po’, 279 dollari, ma è il prezzo ragionevole delle tecnologie all’avanguardia. Dietro i loro occhi deliziosi – biglie non così inespressive, non così inconsapevoli – i kentuki nascondono microcamere che ci collegano tutti in tempo reale. Nessuna brutta sorpresa: acquistandoli sai già in anticipo che accoglierne uno in casa significa aprire le porte a un perfetto estraneo. Che può spiare la tua routine, e qualche volta intervenire a gamba tesa. Le possibilità sono due: avere un kentuki o esserlo. Preferiresti accogliere uno sconosciuto, infatti, o al contrario essere lo sconosciuto nell’esistenza del prossimo? La scelta è personale, dettata dalla tua generosità o dalla tua perversione, da quanto tu ti senta solo al mondo. Qualcuno cerca di scoprire l’identità dell’utente oltre il visore, che da remoto controlla le ruote del peluche.  Qualcuno si diverte invece a scandalizzarlo con il sesso, le torture, la pubblica umiliazione. 
Il romanzo dell’argentina Samanta Schweblin, oltre all’incentivo di una copertina bellissima, può contare anche su tematiche e atmosfere che fanno tornare in mente il miglior Black Mirror: quello ancora capace di far aprire gli occhi, pungere e denunciare, nello spirito di una fantascienza minimalista interessata non tanto alle invenzioni avveniristiche, quanto alle contraddizioni dell’animo umano. I capitoli, all’inizio, appaiono semplici scene giustapposte. Scorci di esistenze lontane, apparentemente a sé stanti, che pian piano trovano una collocazione precisa. Un paio di nomi cominciano a diventare ricorrenti; i figuranti si impongono pagina dopo pagina come veri mattatori della scena; alcune storie hanno la priorità su altre, destinate invece a iniziare e finire nell’arco di un solo capitolo. 
Spiccano allora le vicende di Emilia, vedova in là con gli anni che tutti i giorni si connette per sbirciare la giovinezza e gli amori dell’affettuosa Eva, studentessa che si sta concedendo al ragazzo sbagliato; la crisi matrimoniale fra Alina e Klaus, ospiti presso una comune di artisti; le difficoltà relazionali di Enzo, papà fresco di divorzio che compra un kentuki affinché tenga compagnia al figlio Luca ma che, infine, si troverà spesso a consultare in prima persona come fosse un vice-genitore; il sogno impossibile del piccolo Marvin, che vorrebbe far evadere il suo pupazzo – intrappolato purtroppo nella vetrina di un negozio d’antiquariato – per scorrazzare sulla neve in libertà. 

Non sapeva nemmeno in quale città si trovasse, né come fosse il suo padrone. Ai suoi amici aveva raccontato della neve, ma la cosa non li aveva colpiti più di tanto. Dopo averlo deriso perché un culo da principessa e un appartamento a Dubai erano meglio della neve, avevano detto che tanto la neve non la si poteva mica toccare. Marvin sapeva che sbagliavano: se riuscivi a trovare la neve, e spingevi abbastanza forte il tuo kentuki contro un cumulo alto e soffice, ci lasciavi il segno. Ed era come toccare con le dita l’altro capo del mondo.

Le modalità sono sterminate e casuali. A scatola chiusa potresti trovarti nell’appartamento di una figlia dei fiori con tendenze nudiste, in una famiglia disfunzionale, perfino in un covo criminale. A spasso fra le noie della routine, i segreti torbidi o le avventure pericolose, meglio non perdere di vista il punto della situazione: quello che sembra un innocuo videogioco di ruolo, in verità, è reale. Troppo tardi per guardare altrove fingendo indifferenza? E per denunciare? I kentuki sono dappertutto. Una moda che impazza, e fa impazzire. In queste storie grottesche che oscillano dalla tenerezza infantile alla cattiveria più disturbante, ci sono novelli animalisti che formano autentiche squadre di liberazione, informatici poveri in canna che fanno la cresta sulle vendite, teppisti dal cuore d’oro che promettono di accessoriare i pupazzi – pensate alle macchine truccate, per farvene un’idea – o di acquistarli non più alla cieca. L’autrice ha dimenticato di darci il libretto delle istruzioni. E nel corso della lettura tendiamo spesso a vedere il bicchiere mezzo pieno, scordandoci che dietro queste adorabili tecnologie ci sono persone in carne e ossa: permalose, umorali, vendicative. A volte oggetto di devozione, altre di perversione.

C’era davvero più gente interessata a guardare che a essere guardata? Non c’era bisogno di sofisticate analisti di marketing, a Grigor bastava un po’ di buon senso per trarre le sue conclusioni. Ma i pro e i contro della scelta tra l’essere padrone o essere kentuki non spiegavano mai in modo esauriente i vantaggi di ciascuna posizione. Pochi erano disposti a esporre la propria intimità agli occhi di uno sconosciuto, mentre a tutti piaceva guardare. Comprare un dispositivo significava portarsi a casa un oggetto tangibile che avrebbe occupato uno spazio reale, quanto di più simile a un robot di compagnia il mercato potesse offrire; comprare un codice di accesso, invece, voleva dire spendere una bella somma in cambio di diciotto misere cifre virtuali, senza contare che alla gente piace da pazzi tirare fuori cose nuove da scatole dal design sofisticato. La parità di prezzo avrebbe mantenuto per un po’ una certa parità nella domanda, ma secondo Grigor presto o tardi il rapporto si sarebbe invertito a favore dei codici di accesso.

Possiamo forse giudicare le loro scelte sbagliate? Chi non ha mai ricercato una valvola di sfogo? Chi non vorrebbe sentirsi Dio per un giorno soltanto? Da adolescenti, quando i peluche avevano già perso la loro attrattiva su di noi, abbiamo preteso prima il Tamagotchi e poi The Sims. Volevamo sentirci responsabili di qualcuno. Volevamo essere onnipotenti.
A morte il Tamagotchi allora: per dispetto, lasciavamo agonizzare quell’animaletto immaginario in preda ai morsi della fame. 
Al via l’anarchia nel mondo dei Sims: murati vivi, spinti all’incesto o alla bulimia, e tutto per vedere comparire il personaggio del Mietitore con falce e mantello; tutto per sapere fin dove fosse possibile spingersi con un semplice click del mouse. Per fortuna avevamo i nostri genitori a distoglierci dai nostri primi intenti omicidi. Da una curiosità di quelle malevole, che al pari delle storie di Samanta Schweblin ci connetteva agli altri e ci disconnetteva da noi stessi. La cena era in tavola, meglio non far arrabbiare la mamma. La crudeltà era soltanto un gioco da ragazzi da sbrigare dopo i compiti, prima dei pasti. Le coscienze: offline.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Depeche Mode – I Feel You 

8 commenti:

  1. La curiosità è uno dei sette peccati capitali, ma con i libri purtroppo non posso farci proprio niente... Smaltiró qualche lettura, e lo leggerò 🤗🤗🤗

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    1. È un'ottima lettura fuori porto. Felice di tentarti.

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  2. Sembra veramente bello e inquietante *^*

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    1. Super inquietante. Ma in maniera sottile, alla Shirley Jackson.

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  3. Mi intriga e mi inquieta questo Kentuky. Questo è un libro che leggerei volentieri!

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    1. Una riflessione attualissima e amara, ogni tanto ci vuole.

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  4. Copertina, sinossi, tua recensione.
    Ok caro Mr. Ink: lo recupero e lo leggo.
    Grazie!!, Marina

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