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lunedì 2 settembre 2019

Recensione: Nemesi, di Philip Roth

Nemesi, di Philip Roth. Einaudi, € 11, pp. 182 |

Era la mafia a uccidere solo d’estate nel film d’esordio di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif. A seguire lo stesso modus operandi, a metà degli anni Quaranta, è un’altra maledizione: la poliomelite. All’inizio assimilabile a una comune influenza – temperatura corporea in aumento, spossatezza, torcicollo –, presto riduceva le sue vittime a gusci vuoti; fantocci inamovibili intrappolati dentro un letto d’ospedale, in un polmone d’acciaio. I più colpiti: i giovanissimi. È una strage fra i minori di quattordici anni. Il morbo implacabile falcia un’intera generazione di bambini mentre gli Stati Uniti, già colpiti fin dentro le ossa, si struggono per i caduti a Pearl Harbour.

Dentro il carro Mr Cantor vide il feretro. Impossibile credere che Alan giacesse in quella disadorna, pallida cassa di pino solo perché si era preso una malattia estiva. La cassa da cui non esiste via di fuga. La cassa in cui un dodicenne resta per sempre un dodicenne. Il resto di noi sopravvive e invecchia, ma lui continua ad avere dodici anni. Trascorrono milioni di anni, e lui ne ha ancora dodici.

A Newark, nello stato del New Jersey, si disputa quindi una doppia guerra mondiale: da un lato abbiamo l’inquietudine per gli allarmi antiaerei; dall’altro, invece, il rumoroso passaggio delle sirene dell’ambulanza. Ma del propagarsi del morbo, a lungo, nessuno parlerà: gli americani se ne rendono conto quando i casi di polio ammontano già a quaranta. Le cause, sconosciute. Colpa degli immigrati italiani, che sputacchiano dappertutto; degli hot dog a buon mercato; dei bagni sporchi; dei cani e dei gatti; degli scemi del villaggio?  Un allarmismo da caccia alle streghe fa abbattere i randagi come fra le strade di Chernobyl, evitare il contatto con il prossimo, scappare dai centri più popolosi puntando diritti alla linea del mare. Qualcuno, appartenente alla schiera dei privilegiati, taglia la corda. Qualcuno, la maggioranza, resta. E continua a chiacchierare sul portico di casa come se nulla fosse, mentre i bambini fanno cose da bambini e sperano in cuor loro che l’estate – perfino quell’estate famigerata, sì – non finisca mai. Se il germe più pericoloso è la paura, come difendersi? Non preoccupatevi, siamo in un altro bellissimo romanzo di Philip Roth. 
La tragedia, lontana dalla cronaca asciutta e senz’anima che poco gradisco, è raccontata dal punto di vista di un uomo comune. Un anti-eroe al centro del contagio – non un soldato di stanza altrove, né un villeggiante baciato dalla fortuna –, con il fisico scattante e gli occhiali troppo spessi. Avrebbe voluto arruolarsi insieme ai migliori amici, ma la miopia l’ha costretto lì:  ad allenare i bambini a softball, con la speranza di fare comunque la differenza.

Doveva trasformare la tragedia in colpa. Doveva trovare una necessità a quanto accaduto. C’è un’epidemia e lui ha bisogno di trovare la ragione. Deve chiedere perché. Perché? Perché? Che si tratti di qualcosa di insensato, contingente, incongruo e tragico non lo soddisfa. Che si tratti del proliferare di un virus non lo soddisfa. Cerca invece disperatamente una causa più profonda, questo martire, questo maniaco del perché, e trova il perché o in Dio oppure in se stesso oppure, misticamente, misteriosamente, nel loro letale fondersi nell’unico distruttore.

Nato in una famiglia d'origini polacche, allevato sano e forte nel retrobottega dei nonni, Bucky Cantor è l’emblema del ventitreenne tutto d’un pezzo. Stoico per natura, disabituato all’ironia, fa i conti con la sindrome del sopravvissuto e con la vergogna dei codardi: nei giorni buoni, però, gli sono di consolazione quei novanta ragazzi di cui prendersi cura e l’amore a distanza per Marcia, che gestisce goffamente al telefono. In che modo alternativo può manifestarsi l’eroismo in mancanza di un’esistenza consacrata all’azione? 
Marcus, indimenticato protagonista di Indignazione, si poneva domande simili nel romanzo di formazione che mi aveva fatto innamorare per la prima volta della penna del mancato premio Nobel. Era l’anticonformismo a parlare; una smania di ribellione che si esprimeva nelle accese invettive contro un decano intransigente. Era un senso di colpa logorante, insito forse nelle radici stesse dell’essere ebrei, che portava il giovane a commettere scelte sbagliate in nome di alti ideali. In principio inarrestabile, quintessenza della mascolinità, come reagirà invece Bucky davanti alla prospettiva di accettare un impiego su un quieto lungolago che ricorda la magia dei campeggi di Nickolas Butler?  A raccontarci le tappe del percorso dell’allenatore, perseguitato dalla tragedia e da dubbi sempre più striscianti, è Arnold: un personaggio che eccezionalmente non condivide mai la scena con Cantor prima della fine; uno dei suoi allievi, che in prima battuta si ammala per non riprendersi mai definitivamente.

Non metterti contro te stesso. Nel mondo c’è già abbastanza crudeltà. Non peggiorare le cose facendo di te un capro espiatorio.

Il popolo di Facebook, in questo periodo, si divide fra vax e no vax
I miei genitori, nati sul finire degli anni Sessanta, sull’avambraccio hanno la cicatrice del vaccino antivaiolo. 
Gli stendardi di Bucky, le sue ferite, sono invisibili e profondissime, di quelle condivise soltanto dai personaggi letterari dotati di una simile intensità. Se la prende con Dio, tanto lodato eppure tanto crudele. Se la prende con sé stesso, tanto affidabile eppure tanto sfortunato: che abbia nuociuto anche ad altri, dopo aver ammazzato sua madre venendo al mondo? Romanzo storico dalle ricostruzioni inappuntabili, con le angosce di un survival horror senza scampo, Nemesi cerca un senso, un perché, a un’ondata mortifera misteriosa come lo sono d’altronde tutte le pandemie. E lo trova in una scrittura inimitabile, che condensa grandi emozioni in pagine centellinate. In un capogruppo in canottiera, pantaloncini e scarpe da ginnastica, che alla fine della corsa lancia il suo amato giavellotto sotto lo sguardo conquistato degli allievi. Sembra proprio Eracle in persona, il figlio di Zeus. Un velo di sudore sulle tempie, le gambe solide, i muscoli tesi. Poi un grido di battaglia, che diventa pian piano sintomo di dolore e frustrazione. Un urlo elevato verso ciò sfugge e tormenta; verso un cielo aperto che, comunque vada, sera dopo sera, tramonterà sulle disgrazie di un’estate memorabile. E della vita stessa. 
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Francesco Guccini - Dio è morto

12 commenti:

  1. Oramai sai quanto amo Roth; pian pianino recupererò tutti i suoi romanzi 🤗 Lamento di Portnoy è stata un esperienza meravigliosa, e fino ad ora a dire il vero quasi tutti i romanzi che ho letto 🤗🤗

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    1. Penso che leggero prima questi contenuti nel volume acquistato qualche anno fa, che consiglio anche a te per risparmiare. Poi ho, per fortuna, l'imbarazzo della scelta!

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  2. È l'unico romanzo di roth che ho letto finora e ne ho un buon ricordo, sia per i temi trattati che per il protagonista.

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  3. Io non ho letto nulla di Roth e mi sa che "Nemesi" sarà il primo romanzo che leggerò :)

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  4. Lettura molto interessante, non proprio nelle mie corde, ma con le tue recensioni resto sempre affascinata.

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  5. Mea culpa. Non ho ancora letto nulla di Roth, ed è quell'ancora che mi salva in calcio d'angolo. Ho tutta l'intenzione di leggere qualcosa di suo, forse questo inverno sarà propizio. È un piacere ritrovarti dopo questa mia lunga assenza ;)

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  6. Mi attira tantissimo, ma dopo Pastorale Americana con Roth ci vado con i piedi di piombo.

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    1. Ti conosco. Sia questo, sia Indignazione, li amerai.
      Pastorale mi sa di mattonazzo, ma ho apprezzato il film.

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