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giovedì 27 dicembre 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Roma, Cold War, First Man

Lavare il battuto con acqua e sapone fino a farlo brillare. Svegliare i bambini e andare a prendere il minore a scuola. Rassettare, cucinare e la sera, per risparmiare sui consumi, fare un po' di ginnastica alla luce delle candele. Appendere i panni in terrazza, e da lì guardare gli aerei passare sempre alla stessa ora. Dove andranno? Deve domandarselo Cleo, vent'anni e un lavoro a tempo pieno: domestica in una famiglia alto-borghese in cui ci sono sempre esigenze, bambini che hanno sempre voglia di giocare. Se il papà medico è spesso assente con la scusa del lavoro, e va e viene soltanto per lamentarsi della casa non abbastanza pulita, delle cacche di cane sul vialetto, del parcheggio troppo stretto, la mamma è una donna sull'orlo di una crisi nervosa, che poco presta attenzione alla carrozzeria dell'auto e ai ruoli di potere, eppure sa mostrarsi insospettabilmente forte nei momenti di difficoltà. Alle prese con quattro bambini disobbedienti e una casa presto sprovvista della figura paterna, le due donne condividono abbandoni e segreti sulla maternità. Cleo, custode onnisciente dei loro fragili equilibri, resta incinta di un esibizionista che si sognava Bruce Lee: nello stesso mese perde la verginità e l'amore, piantata in asso in un cinema. La vediamo macinare chilometri a perdifiato, nonostante l'ingombro del pancione, in un Messico a soqquadro in cui si specchiano alla perfezione le gioie e i dolori di una famiglia che riconosciamo a colpo d'occhio come quella del premiatissimo Cuarón: sbaglio, o il piccolo di casa che fantasticava di altre vite già con il piglio dei narratori è proprio l'alter-ego di Alfonso, fresco di vittoria a Venezia? La macchina da presa spazia tra panoramiche e piani sequenza, ricercando dettagli vitali e scorci di impareggiabile manierismo in una vicenda altrimenti semplicissima. Stilisticamente straordinario, senza l'esigenza di alzare inutilmente la voce, il cineasta messicano ci regala sequenze memorabili – l'incendio dei proprietari terrieri a Capodanno, la ferocia della rivolta dove vita e morte corrono gomito a gomito, lo spettacolo sublime del mare aperto e il coraggio di sfidarlo petto in fuori con il rischio di annegare – e un album di ricordi in cui la settima arte si fa quanto mai questione privata. Boyhood è diventa la mia, però, mentre questa è rimasta quella di Alfonso: troppo distante da me nello spazio, nel tempo, ma ode alla tenacia delle donne, alla quiete delle case in ordine e alle infanzie da non rinnegare comunque abbacinante. Contro l'incostanza di maschi traditori, gli sconvolgimenti dell'esterno – terremoti, rivoluzioni o bande armate che siano – e le richieste di una Hollywood che di solito richiede storie sensazionali per sentirsi all'altezza. Gli ha dato carta bianca Netflix, nonostante la nostalgia della sala buia si faccia sentire, e la terra natìa gli ha suggerito tutto il resto. Il segreto di Pulcinella di quei piccoli grandi film che cercano con successo l'arte e la poesia dappertutto, e così facendo ne regalano un po' anche alla tua vita. Assieme alla bellezza di una nuova meta, una seconda Roma, in cui darsi appuntamento con la puntualità dei ricordi. (8)

Paese che vai, melodramma che trovi. Di quelli con le panchine all'alba, dico, le passeggiate seguite da carrellate da maestro e finali irrimediabilmente dolce-amari. Possono cambiare il contesto (la Guerra fredda) e il formato (4:3), gli sfondi (la Polonia degli anni Cinquanta) e le intenzioni (rendere omaggio ai genitori del regista stesso), e perfino strutture narrative che quell'amore già così sofferto decidono di dilatarlo e frantumarlo in novanta minuti di visione. Siamo in territorio comunista, si cercano talenti cari al regime: lei ha la frangia bionda, una voce da usignolo, un passato losco; lui la accompagna prima con il pianoforte, infine nel sogno della fuga. Durante una tappa a Berlino si danno infatti appuntamento per scappare in Francia: non parlano bene il francese, ma si piacciono e confidano che l'amore basterà. Zula non lo segue, non subito. Abbiamo protagonisti con cui è difficile simpatizzare, poiché incapaci di scendere a compromessi; la regia tutta geometrie interne e bianchi e neri sopraffini di un Pawel Pawlikowski in cerca di un secondo Oscar dopo Ida; una freddezza che non si limita soltanto al titolo, no, ma viene ammorbidita dal jazz in sottofondo e dalle braccia degli amanti. Sono apolidi, innamorati a tratti come in Like Crazy, e non hanno che l'uno e l'altra come bussola. Ma lui, attratto dal mondo del cinema e dai guadi impossibili, è troppo egoista per la condivisione. Ma lei, adolescente accusata di parricidio e donna alticcia in pista da ballo, si accorge che fama e notorietà non si sposano bene se nella lontananza ci si è scoperti altro da quel che si era. Si daranno appuntamenti saltuari negli anni, nei locali fumosi delle capitali. Si inseguiranno da un capo all'altro di linee inviolabili, nonostante non ci sia perdono per i disertori – tanto dei confini familiari quanto dei sentimenti negati. Vivranno insieme per un po', ma mancherà loro il brivido del pericolo, quella casa in cui non sono più i benvenuti. Si trovano così a combattere un'altra guerra fredda, ma fra di loro. Minacciati dalla routine, dalle gelosie verso gli uomini e le donne avuti nel frattempo, dalla perdita d'ispirazione come in A Star is Born. All'inizio li accompagnava la schiettezza dei canti folkloristici, poi sono arrivati quelli di propaganda, infine le impalpabili ballate parigine. Hanno perso la voglia e le parole giuste per cantare d'amore. E noi perdiamo il conto dei viavai, degli sbalzi d'umore, del passare del tempo. Provati dall'incessante andirivieni e dalle brusche dissolvenze in nero, ma coinvolti in un'epopea tragica in cui la vista è bellissima e l'avventatezza della nostalgia può mettere seriamente in pericolo. Commossi da una guerra, e da un amore, le cui sentinelle non abbandonano mai la retroguardia di un passato romantico alla mercé degli avversari. (7)

Houston, abbiamo un problema. Questione di aspettative disattese, di momenti giusti o sbagliati, di film diversi da come ti aspettavi. Quelli che su carta non promettevano niente di buono, soprattutto a te che poco apprezzi il patriottismo a stelle e strisce e gli effetti speciali, ma che a sorpresa ti prendono per la gola. È il caso di First Man: accolto tiepidamente a Venezia, bocciato da blogger con cui ho condiviso il grande amore per La La Land, frainteso dagli spettatori che in sala si aspettavano avventure o forti emozioni. Lontano tanto dall'agiografia quanto dal classico sensazionalismo del cinema di genere – eppure qualcuno lo paragona a torto ai biopic di Steven Spielberg o Ron Howard –, l'ultima fatica del prodigioso Chazelle è una ricostruzione inconsueta perché capace di dividere. Chi se lo sarebbe aspettato, parlandosi di un eroe americano già canonizzato? Il granitico Neil Armstrong, interpretato da un Ryan Gosling che sceglie con intelligenza estrema i propri ruoli – l'espressività non è il forte dell'attore canadese, ed ecco che gli viene in soccorso un uomo dai sorrisi rari, di poche parole –, è un fuggitivo. Scappa a ogni occasione dalla routine, dagli effetti collaterali dei sentimenti, dal dolore inespresso per la morte della minore delle figlie. Non trova pace su questa sera e, da bravo codardo, preferisce puntare al cielo. La moglie Claire Foy pietrificata davanti alla radio – gli occhi lucidi, le mani da tormentarsi senza pace – intanto onora le regole di buon vicinato, si prende cura di ciò che resta della famiglia, lo aspetta. Suo marito, che da giovane aveva il pallino per il musical e un'aria mite, si è reso il principale protagonista di una corsa allo spazio che contrappone da un lato gli Stati Uniti, dall'altro la Russia. I piloti morivano come mosche ancora prima di decollare, e i contribuenti cominciavano a mormorare preoccupati; bisognava sfidare costantamente il vomito, la claustrofobia, la paura delle vertigini; i giornalisti incalzavano con domande incapaci di scalfire la tuta bianca di Armstrong. Cosa dirà calpestando il suolo lunare, cosa porterà con sé? Dimenticatevi i volteggi manieristici, i brani memorabili e i colori pastello del musical con Emma Stone: qui hanno la meglio i primissimi piani, i silenzi sacrali, le sequenze contemplative, le angosciose soggettive attraverso il vetro di un oblò. Per oltre due ore, complice una visione lenta e immersiva, è come essere lì con lui, che parlava troppo di lavoro e poco di sentimenti. Nel terrore, nello splendore. La terra vista da lontano è uno spettacolo che all'improvviso reclama a sé la colonna sonora da brividi di Justin Hurwitz e bastano la musica che finalmente fa capolino, la visione struggente di braccialetto che scivola a terra piano, a contrastare la freddezza siderale del mondo di Neil Armstrong senza mai snaturarne l'indole. Come capitò anche ad Astolfo, il cavaliere dell'Orlando Furioso in cerca del senno perduto a cavallo di un ippogrifo, non restava che puntare in alto per recuperare l'umanità. Prima la consapevolezza, poi la meraviglia della passeggiata, valgono un mese di quarantena; una visione ostica ma segnante. L'anno scorso ci ha dato le stelle, adesso non chiedetegli anche la luna. (7,5)

11 commenti:

  1. Credo (e spero) che "Roma" mi piacerà.
    Non sono del tutto sicura, invece, che "First Man" possa fare al caso mio: in questo momento tendo a subire parecchi cali d'attenzione, perciò temo che i lunghi silenzi finirebbero per spedire effettivamente in orbita il mio cervello, ma verso una destinazione parecchio più incerta e distante della luna! XD
    Più avanti, magari...

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    1. Anche Roma richiede molta pazienza e altrettanta attenzione, un giorno sì: aspetta che ritornino quelli, ho presente la sensazione di distrazione perenne!

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  2. ROMA, come sai, mi è piaciuto davvero molto: un ritratto di umanità, soprattutto al femminile, che è riuscito a fare breccia nel mio cuore nonostante le distanze e le differenze nelle situazioni.
    First Man è riuscito a incuriosirmi, a mostrarmi qualche sfumatura in più spingendomi a conoscere meglio un uomo prima che un eroe statunitense ma, da appassionata del genere, devo ammettere che davvero questo film non aggiunge nulla in più alla categoria. Sì, da Chazelle forse ci si aspettava di più!
    Cold War, invece, è il grande escluso nella mia watchlist di quest'anno e non so se riuscirò a recuperarlo a breve ahimè :(

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  3. Due bianchi e neri, due narrazioni, diverse per tempi ma bellissime. Da una parte la quotidianità, dall'altra l'eccezionalità di un amore complicato. Sì, entrambe visioni intense.

    First Man ha l'unico difetto di essere diretto da Chazelle, non per il risultato umano e claustrofobico, quanto per le aspettative che dalla sua regia ci si aspetta. Biopic classico ma con qualcosa in più.

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    1. Altro che "la vie en rose". Quanto ci piace di più in bianco e nero?

      First Man, sarà stato il gran leggerne così così, mi ha coinvolto ed emozionato la sera giusta. Soprattutto per quell'arrivo così ostacolato, per quel braccialetto di un papà all'apparenza glaciale.

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  4. Non ne ho visto nessuno, ma Roma mi attira moltissimo, sia pure con un po' di timore.

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    1. Timore, alla fine, ingiustificato. Film d'autore, non per tutti, ma essenziale.

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  5. Non pensavo che First Man ti sarebbe piaciuto così tanto.
    Per me resta un film davvero banale, prevedibile e deludente, ma sarà una questione di aspettative...

    Cold War esteticamente stupendo. Qualche emozione in più, va bene che sono polacchi e il freddo si sente fin dal titolo, potevano però anche mettercela. :)

    Su Roma ancora non mi esprimo, giusto per mantenere il mistero.

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    1. Tanto scommetto che lo troverò in pole position nel listone...

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  6. nessuno visto ma mi ispirano tutti..dal tuo parere direi che meritano!

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