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venerdì 22 novembre 2024

Come (non) fare un sequel: Il Gladiatore II | Folie à Deux | Giorno 1| Beetlejuice Beetlejuice | MaXXXine

Se ho fatto il classico, la colpa è del Gladiatore. Epico, intriso di retorica e romanitas, è un bignami del mondo antico. In un'epoca senza idee, non stupisce l'idea di un sequel: l'ottantaseinne Scott è in forma e il cast è perfino quello delle grandi occasioni. Godibilissimo, il film è uno spettacolo dalla CGI discutibile in cui il protagonista è chiamato a lottare contro scimmie, rinoceronti, squali. Riuscirà a perdonare la madre e a realizzare il sogno di Marco Aurelio? Dappertutto aleggia il ricordo di Massimo, ma Lucio non ha né il carisma né l'emotività del suo predecessore: colpa di Mescal, totalmente fuori parte nel primo ruolo hollywoodiano. La riflessione politica resta l'elemento più stimolante. In una Roma logorata dall’imperialismo, tutti, schiavi compresi, sognano il potere. Tra il prode Pascal e il gigioneggiante Quinn, a spuntarla è il grande Washington: luciferino, eleva un copione frutto dell'AI a un'allegoria dell'America contemporanea. Ma tutto è talmente senz'anima che bisogna aspettare le note della vecchia colonna sonora per avvertire un brivido in poltrona. Il Gladiatore II non contribuirà al crollo delle iscrizioni al classico, ma non troverà nuove generazioni da ispirare con il mito della Città Eterna. (5,5)

Chi scrive considera il musical una delle più alte forme di cinema e aveva reputato Joker un crime in cui tutto era spettacolare, violenza compresa. Folie à Deux è troppo stridente per essere uno degli incanti omaggiati dalla colonna sonora: i protagonisti intonano a cappella le loro battute e soltanto raramente la dimensione del musical li sottrae alla solitudine, alla malagiustizia, al voyeurismo. Fleck vorrebbe inoltre rinunciare a Joker: il pubblico ha trasformato un uomo bipolare in un supercattivo. Metacinematografico, antinarrativo e anticlimatico, il film si fa odiare non tanto per il suo essere a cavallo tra generi, né per una Gaga con le labbra troppo gonfie di filler, ma per il suo essere una sconfessione del primo: la decostruzione di un antagonista a lungo glorificato; un dito medio al people pleasing. Phoenix interpreta il Joker da cui nessun ragazzino vorrebbe vestirsi a Halloween. Noi siamo la folla fuori dal tribunale: confidiamo nella sedia elettrica. Le sue groupie: ragazze in cerca di brividi facili. Gli spettatori che all'uscita dalla sala digitano: che merda, evitate, cos'hanno fatto. A Joker, in un gesto prometeico, Phillips ha restituito l'umanità e strappato la maschera. Meglio essere centomila clown, o nessuno? È il dilemma di un'operazione bellissima e incompresa, in cui, grazie al regista, Arthur non rischia mai di essere un personaggio in cerca d'autore. Amaramente, però, resterà in cerca di pubblico. (8)

L'apocalisse è ormai qui. I mostri sono tra noi. Grazie alla famiglia Abbott, conosciamo ampiamente le regole del gioco: è severamente vietato fare rumore. John Krasinski cede lo scettro a Michael Sarnoski, già regista del delicatissimo Pig, ma poco cambia. Questo prequel, che dovrebbe raccontare l'origine dell'invasione, in realtà nulla aggiunge e nulla toglie alla mitologia di A Quiet Place. A fare la differenza è l'intensità straordinaria dei protagonista: Lupita Nyong'o, una malata terminale aggrappata alla poca vita che le resta, e Joseph Quinn, expat tormentato dagli attacchi di panico che apre finalmente l'horror alla vulnerabilità maschile. Al bando il rumore, si diceva. Ma gli sguardi espressivi del cast urlano paura, confusione e tenerezza in ogni frame. Narrativamente Giorno 1 è un'operazione senza nessuna sorpresa, ma sa commuovere fino alle lacrime grazie al collage di brutture e gentilezze di cui il genere umano si dimostra capace. L'inno alla vita che non ti aspetti? Arriva da un blockbuster pieno di morti. Un incrocio tra La guerra dei mondi e Soul, dove sfogliare poesie sulle rovine fumanti di una libreria, sognare una pizza da asporto e carezzare un gatto rosso ci aiuterà a sconfiggere la solitudine e altri mostri. (7,5)

È da Sweeney Todd, arrivato in sala nel lontano 2007, che Tim Burton fatica a trovare l'ispirazione. Dopo oltre un decennio di progetti dimenticabili, attraverso i quali il regista ha rischiato pericolosamente di diventare la caricatura di sé stesso, se ne torna nella comfort zone con il seguito di uno dei suoi cult. Non ho dovuto aspettare trentasei anni, io, per conoscere il destino dei protagonisti di Beetlejuice: ho recuperato il primo soltanto di recente e senza euforia. Questo ritorno, agli occhi di uno spettatore dell'ultima ora, è parso un amabile e divertente casino. Tre generazioni di donne a confronto, una moglie vendicativa, vecchi amori (Keaton, Rider, O'Hara) e nuovi (Ortega e Bellucci: magnetica presenza, quest'ultima, poco sfruttata) vengono riuniti nella stessa casa, qui curiosamente vestita a lutto. Macabro ma tenero, spaventoso ma innocuo, l'ultimo Burton strizza l'occhio a generazioni vicine e lontane: non osa sorprese, in una sceneggiatura semplice e un po' frettolosa, ma ci regala un paio di sequenze memorabili (una, in bianco e nero, è un omaggio al cinema di genere del nostro Mario Bava) e idee fresche fresche per Halloween. Dopo svariati flop, ci si accontenta. Anche se, Tim, ti piace vincere facile? (6)

C'era grande hype per la fine della trilogia di Ti West, iniziata con X (slasher anni Settanta sulla solitudine della vecchiaia) e poi proseguita con Pearl (cult istantaneo finito nel meglio della scorsa annata). Maxxxine, ben più sponsorizzato e distribuito in sala in pompa magna, è l'apoteosi della nostra eroina texana dal corpo da pin-up e dai metodi poco ortodossi: dopo il suo esordio nel porno ha finalmente raggiunto Hollywood, ma il passato la perseguita. Si tratta, tuttavia, del punto più basso toccato dalla serie. Ambientato negli abusati anni Ottanta, in cima alle colline rese per sempre immortali da Mulholland Drive, il film si rifà pedissequamente ai thriller erotici di Argento, Fulci, De Palma. L'assassino ha mani guantate, semina qualche morto ammazzato, ma la sensualità scarseggia e il gioco di citazioni continue, questa volta, si inceppa e annoia. Senza particolare ispirazione, West vive della luce riflessa della sola Mia Goth, nel frattempo diventata la star che ci si auspicava; ma, in un cast inutilmente sopra le righe, a crederci sembrano essere soltanto lei e un'algida Elizabeth Debicki, perfetta nei panni di una regista donna in un'industria misogina. Un plauso alla sequenza ai piedi del Bates Motel: ho sempre trovato il sequel di Psycho degno di una riscoperta tardiva. Ma oltre gli omaggi, “sotto il vestito”, niente. (5)

mercoledì 13 novembre 2024

L'amore secondo Netflix: Nobody Wants This | Heartstopper S03 | One Day

Lui è un rabbino da poco uscito da una lunga relazione e in attesa della promozione della vita. Lei, invece, è l’autrice eternamente single di un popolare podcast sul sesso. Come nel più classico dei boy meets girl degni di questo titolo, i due – per quanto siano agli antipodi – si incontrano e fanno le scintille promesse. Le famiglie e gli amici, intanto, borbottano. Facendo leva sull’ormai abusato effetto nostalgia, Nobody Wants This è giù un successo rinnovato in tempi record per una seconda stagione. La formula, semplice ed efficace, si limita a far innamorare due degli attori più iconici di una generazione fa – e a farci innamorare nuovamente di loro, ormai bellissimi e spiegazzati quarantenni. Peccato che, a dispetto del talento del redivivo Adam Brody e della prezzemolina Kristen Bell, la loro serie sia una comedy innocua, antiquata, alquanto noiosetta (userei gli stessi aggettivi per il film Tutti tranne te, similmente accolto alla stregua di classico istantaneo), che fa parlare di sé soltanto perché i leggendari Seth Cohen e Veronica Mars si scambiano per la prima volta tenerezze. Più che a una serie Netflix di ultima generazione, somiglia a uno di quegli show dei primi anni Duemila rubati agli oziosi pomeriggi adolescenziali di Italia Uno. Che il titolo avesse ragione? (5,5)

Nick e Charlie stanno crescendo. Ormai sedicenni, iniziano a porsi i primi problemi dei grandi: disturbi alimentari, sesso e università tra cui scegliere. Dolcissimi come sempre, anche se più provati che in passato, continuano a essere l’anima di una commedia romantica surreale ma bella, che poco somiglia, purtroppo o per fortuna, all’adolescenza odierna. In un mondo senza bullismo né discriminazioni, questa volta appare eccessivamente forzata la dimensione corale: pur di includere in ogni puntata quei comprimari variopinti, amichevoli, queer, salta puntualmente fuori una festa, un campeggio, un concerto. Non c’erano modi meno macchinosi, mi domando, per riunirli? Nella stagione più ripetitiva e monotona, però, si nasconde a sorpresa anche l’episodio più prezioso delle tre: un gioiello di scrittura e sensibilità – due punti di vista complementari, lo struggimento della lontananza, un corto sperimentale girato la notte di Halloween – che si termina con gli occhi lucidi e il sincero bisogno di averne altrettanti di così ispirati. Sarebbe stato un finale di stagione ben più memorabile da quello scelto dagli sceneggiatori. Per Kit Connor e Joe Locke, nel frattempo, si prospettano carriere in crescita. Quanto toccherà aspettare per ritrovarli? (7)

Li ho conosciuti all'età di quindici anni. Li ho incontrati nuovamente dopo aver spento trenta candeline. Emma e Dexter – una delle mie coppie preferite di sempre – tornano a un decennio di distanza dall'omonimo film. Ci pensa Netflix, che promette maggiore aderenza al romanzo e offre un ottimo trampolino di lancio a due interpreti che faranno strada: Leo Woodal e Amika Mod. Fedelissima al materiale di partenza – a tratti anche troppo –, questa seconda trasposizione ripropone tutti gli elementi del libro cult: meno, purtroppo, la magia tra i protagonisti. Bravi ma troppo acerbi, gli attori mancano di chimica e fanno rimpiangere  Jim Sturgess e Anne Hathaway. Non aiuta il pressappochismo della messa in scena. Nonostante una storia d'amore lunga vent'anni, Emma e Dexter non sembrano invecchiare mai: Woodal, ad esempio, conserverà il ciuffo biondo del primo episodio per tutto il tempo. Nonostante l'iconicità degli anni Ottanta-Novanta, inoltre, non sono riuscito a respirarli: l'algoritmo  appiattisce tutto sotto un'aria patinata e, in nome dell'inclusività, regala al personaggio femminile origini indiane. Ho preferito il romanzo? Assolutamente. E il film – sì sintetico, ma capitanato da un eccezionale duo attoriale? Sì. Ho pianto comunque, arrivando a un epilogo arcinoto? Inutile chiedermelo. Non mi riprenderò mai da questa cotta, né dal crepacuore che ne consegue. (6,5)

lunedì 4 novembre 2024

Recensione: Oliva Denaro, di Viola Ardone

| Oliva Denaro, di Viola Ardone. Einaudi, € 18, pp. 312 |

È possibile consigliare un romanzo che non hai apprezzato? È quello che mi ritrovo a fare con Oliva Denaro: un grande successo di pubblico, forte di una struttura cinematografica e di tematiche così forti da non lasciare indifferenti. Anche quando ho storto il naso per le troppe frasi a effetto, per i comprimari troppo anacronistici, per le ambientazioni troppo stereotipate, infatti, mi sono scoperto commosso dal dramma della protagonista: sedici anni, impossibilitata a proseguire gli studi, oggetto delle attenzioni del ragazzo sbagliato. Ispirandosi liberamente alla vicenda di Franca Viola, Viola Ardone ci parla di disparità e consenso, violenza e aborto. Erano gli anni di Mina e delle Kessler alla TV. Ma, in Italia, essere donna era una condanna.

Non voglio sembrare più bella, non voglio seguire consigli, non voglio obbedire a nessuno più. A che è valso? Al posto delle tabelline e dei verbi irregolari avrebbero dovuto insegnarci a dire di no, tanto il sì le femmine lo imparano dalla nascita

Con il sopraggiungere del ciclo, nella routine della giovane Oliva cambia tutto: vietato correre forte, vietato indovinare la forma delle nuvole accanto all'amico di sempre. La sua bellezza in boccio attira gli sguardi di Pino, i capelli neri di brillantina e un fiore di gelsomino dietro l'orecchio: il giorno del loro incontro è colorato di inquietanti segnali. Scorrerà il sangue. Con capitoli brevi ed efficaci, l'autrice ci racconta di un'epoca non molto lontana in cui la verginità appariva il solo valore femminile e della rieducazione di un'adolescente inconsapevole, all'inizio, di essere la parte lesa. L'onore macchiato? Si era soliti correre ai ripari o con le nozze, o con la lupara. Tra dettagli folkloristici e scene dal forte impatto visivo, con tanto di piccole concessioni all'horror (gli animali ammazzati, il rapimento), Ardone affianca Oliva a personaggi macchiettistici: dall'amica comunista alla sorella vittima di percosse, fino ad arrivare a quel papà dolcissimo ma troppo sensibile per i suoi tempi. E cosa dire dei Paternò, gli antagonisti, che gestiscono una pasticceria proprio come i fratelli Solara?

La politica la facciamo tutti, in un modo o nell’ altro, ribatte, ogni cosa è politica: le nostre scelte, quello che siamo o non siamo disposti a fare per noi e per gli altri.

Ho avuto, a tratti, l'impressione di leggere un romanzo scritto con Elena Ferrante tenuta sul comodino. Una storia intensa, ma con il pilota automatico inserito, che osa qualche guizzo soprattutto nelle scelte lessicali volutamente colorite (a lungo andare, però, ho trovato ridondanti i vari: “Piccinna”, “Non lo preferisco”, “Sono favorevole”). Mi sono emozionato e indignato. Ho pensato di consigliarlo a mia madre e ai miei studenti. Ma lì dove l'esordio alla regia di Cortellesi osa una magnifica variazione sul tema, Ardone si adagia nella stesura di un compitino senza errori, più importante che bello. Il femminile singolare non esiste, pensa Oliva. Se le smentite devono passare attraverso questo romanzo, allora, ben venga. Non mi è piaciuto, ma all'interno ci ho trovato una ragazzina con un tacco rotto che trova il coraggio di camminare in direzione contraria. Io sono favorevole a Oliva; meno a come  è stata raccontata.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Gigliola Cinquetti – Non ho l’età

martedì 29 ottobre 2024

Recensione: Figlia del temporale, di Valentina D'Urbano

Figlia del temporale, di Valentina D’Urbano. Mondadori, € 20, pp. 312|

L'amore, per Valentina D'Urbano, è una cosa seria. In un mondo editoriale in cui parlare di sentimenti è guardato con pregiudizio, lei osa storie di amori assoluti, totalizzanti, tragici. Questa volta, a oltre dieci anni dal suo esordio, ci porta nell'Albania degli anni Settanta, su un altopiano popolato da uomini col fucile e donne al focolare. C'è un valico proibito a separare l'Albania dal resto del mondo. È possibile sconfinare? L'autrice, che nell'insuperato Isola di Neve aveva inventato con dovizia di particolari la geografia di un'isola che non c'era, è chiamata a rievocare i rituali di un piccolo mondo antico con l'approccio documentaristico del cinema di Maura Delpero. Le descrizioni sono meticolose come non mai. I costumi albanesi ci si svelano nel loro fascino e nelle loro contraddizioni: si legge il futuro nei fondi di caffè, durante le nozze le spose vestono di rosso e gli sposi ricevono in dote una cartuccia di fucile, e qualche volta le donne possono sfuggire a un destino prestabilito rinunciando per sempre alla loro femminilità. Le chiamano vergini giurate. La protagonista, Hira, è una di loro. 

La natura la puoi nascondere, però non la puoi fermare.

Quand'è che una ragazza di città come lei, figlia di un comunista prezzolato, si è trasferita sulle Montagne Maledette? Perché si è rasata i capelli, si è trasferita in un tugurio e ha fatto suo un nome di lupo, un nome di maschio: Mael? Prima del rifiuto di essere sposa o madre, sono necessarie duecento pagine in cui la natura è la protagonista incontrastata: anche a discapito della trama. È lì, tra gelate, miseria e retate, che Hira si scopre attratta dal cugino Astrit: un ragazzo silenzioso come uno spettro, per il quale la montagna non ha segreti e il cui lessico sentimentale è fatto di morsi e grugniti, di tenerezza mista a ritrosia. Più trattenuta, D'Urbano fa sua la reticenza di un'altra cultura. L'intreccio si assottiglia, e si ha la sensazione che troppo sia stato riassunto in quarta di copertina. Lo sguardo, sempre riconoscibile, è fisso su un personaggio talmente forte che le sue scelte, a tratti, appaiono radicali, troppo repentine. Il tema delle vergini giurate, centrale in un bel film di Laura Bispuri, ha un potenziale non completamente sfruttato.

Anche le bestie a volte non sono capaci di stare da sole. 

Si sarebbe potuto parlare di rapporti di genere, perfino di omosessualità o disforia all'occorrenza. L'amore tra Hira e Astrit ricalca invece quello tra Alfredo e Beatrice, Celeste e Nadir, lasciando che l'aderenza ai precetti del Kanun diventi poco più che un espediente: il giuramento, infatti, è il mezzo per rendere ancora più ostacolato un amore già impossibile. Ma la natura, per fortuna, è inarrestabile. Anche quella umana. E il seno strepita, anche quando compresso nelle bende. E il sangue mestruale scorre, anche in calzoni maschili. Allo stesso modo appare contro natura arrestare il desiderio, in un romanzo in cui c'erano i prerequisiti per parlare più approfonditamente di dinamiche rimaste inedite.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Beyoncé - If I Were A Boy

lunedì 21 ottobre 2024

Il cinema delle donne: Vermiglio | Love Lies Bleeding | Gloria! | I Saw The TV Glow | Blink Twice

Premiato a Venezia, rappresenterà l'Italia agli Oscar. Piccolo, ma preceduto da grandi aspettative, Vermiglio non amerebbe il centro dell'attenzione. Esile, lineare, incantevole, racconta la quotidianità della famiglia Graziadei: sette figli, un papà maestro, una mamma che ha già sepolto due neonati. È ambientato in un presepe in provincia di Trento che nemmeno le bombe osano sfiorare, dove la vita scorre scandita dalle lezioni e dalla preghiera. Maura Delpero pone l'accento sulle “piccole donne” di casa e le rende protagoniste di una saga familiare resa irresistibile dalla freschezza del cast (giganteggia il sempre impeccabile Ragni) e dalla giocosità del dialetto. La primogenita vorrebbe sposare un siciliano, la mediana soffoca la propria sessualità a suon di fioretti, l'ultima ambisce alle scuole medie. La regista è con loro ai matrimoni e ai funerali, sia nelle dipartite che nelle nascite. A parlare sono i gesti, gli occhi e i silenzi, in un cinema che è limpidezza di sguardo. L'impressione finale è che la vita andrà avanti oltre i titoli di coda, che i personaggi continueranno a essere vivi anche una volta battuto l'ultimo ciak. Non spaventiamoli con il nostro clamore. Che restino incontaminati e disarmanti: rossi di vita. (8) 

Stewart, sensuale come non mai col suo mullet sporco e spettinato, vorrebbe smettere di fumare e tenersi fuori dai guai. I suoi piani vanno a monte quando conosce la statuaria O'Brian: body builder appassionata che, suo malgrado, la costringe a confrontarsi con i crimini di una famiglia ormai annichilita dalla violenza, dove un vampiresco Ed Harris, intanto, tiranneggia indisturbato. Scorrerà molto sangue. Insieme ai fluidi corporei, alla merda e all'albume d'uovo del secondo film della britannica Rose Glass: dopo Saint Maud, gelido horror sul fervore religioso, torna al cinema con un fumettone viscoso, folle e libero come l'aria. Thelma e Louise, ma in chiave saffica e sotto anabolizzanti, Love Lies Bleeding è una chicca vietata ai minori che elettrizza grazie alla bravura selvaggia delle sue protagoniste. Splendide, giocano agli sceriffi in un thriller onirico, sexy e ributtante insieme, in cui è impossibile tenere la conta dei morti ammazzati e degli orgasmi. Il vero amore? Qui comporta lo sbarazzarsi dei reciproci delitti, in un canyon pieno di stelle. (7,5)

Nella Venezia del primo Ottocento, un gruppo di orfane scopre il potere sovversivo della musica. Basta il ritrovamento di un pianoforte, e nella claustrofobia dei chiostri è subito emancipazione. L'esordio di Margherita Vicario e
L'arte della gioia, la serie TV di Valeria Golino, hanno più di qualche punto in comune: il gusto pittorico, la fame di vita delle protagoniste, il messaggio femminista in un'epoca di repressione. Ma mentre l'adattamento di Goliarda Sapienza osa e seduce, la cantautrice romana debutta alla regia restando nella comfort zone (una delle protagoniste è proprio la voce solista di La Rappresentante di Lista). Se Veronica Lucchesi canta e incanta, complice una versione acustica di Questo corpo, a restare impresso è il fascino tormentato di Carlotta Gamba: presente anche in Vermiglio, qui è l'ape regina abituata a eccellere ma dal cuore fragile. Comunque lodevole per fattura montaggio, Gloria! è un tableau vivant vivissimo. Troppo fiabesco e ingenuo nella sceneggiatura, è trainato dall'energia contagiosa del messaggio e del cast. Queste Barbie ballano, e si dirigono, da sole. (6,5)

Sconosciuto ai più, era attesissimo dagli estimatori del cinema indie. Oscuro e stiloso, è giunto in Italia nel silenzio dell'homevideo. Non male per uno pseudo-horror che parla di odi sanguinose al tubo catodico. Ambientato negli anni Novanta, è la storia di due ragazzi fuori. Vittime dell'alienazione e della solitudine, fanno amicizia grazie al culto per la medesima serie TV: un fantasy alla 
Buffy in cui due amiche combattono un villain di nome Malinconia. Sfortunatamente la serie chiuderà con la quinta stagione. Cosa succede dopo quell'ultimo episodio shock? Justice Smith e Bridget Lundy-Paine mettono il loro fascino androgino al servizio di un'allegoria che li segue dall'infanzia all'età adulta, nella speranza di una reunion. La brava Schoenbrun, regista transgender, mostra tormenti a lei familiari e confessa pensieri noti a ogni buon cinefilo: tutti abbiamo considerato la finzione più vera della realtà. A metà tra il primo Lynch e l'ultimo Aster, I Saw The TV Glow potrà apparire pretenzioso. Ma, al di là delle pretese autoriali, oltre la pelle e sotto le ossa, ha l'incanto del technicolor: basta squarciare. (8)

Una cameriera di belle speranze viene ospitata sull'isola di un filantropo reduce da uno scandalo. Alcol inesauribile, vestiti di lino, ogni sera una festa: sembra l'inizio di una favola, o di una puntata di 
The White Lotus, in cui tutti sono bianchi, facoltosi, privilegiati. L'incubo è dietro l'angolo: soprattutto se si ha a che fare con un gruppo di uomini danarosi, dediti a lusso e lussuria; soprattutto se i toni, all'inizio brillantissimi, sono destinati a un crescendo agghiacciante con tanto di trigger warning iniziali e sangue a fiumi. La sorprendente Zoë Kravitz, attrice di talento e figlia di Lenny, stupisce sganciando sul finire dell'estate la bombetta che nessuno sospettava. Acuta, colorata, incazzatissima, con Blink Twice prima incornicia l'ottima Naomi Ackie in una foto Instagram tutta bolle e simmetrie; poi fa luce sui suoi vuoti di memoria, strappando finalmente l'insospettabile Channing Tatum al solito ruolo di principe azzurro. Per quanto gli esiti siano intuibili, Kravitz ha una gran bella voce. E tuba, grida, ruggisce, in un esordio che ricorda i cocktail alchemici di Jordan Peele ed Emerald Fennell. Non battete gli occhi: potreste perdervi questa pazza gioia. (7)

lunedì 14 ottobre 2024

Recensione: Il male che non c'è, di Giulia Caminito


| Il male che non c’è, di Giulia Caminito. Bompiani, € 18, pp. 272 |

Parte tutto da un refuso nella newsletter della casa editrice per cui lavora. Un apostrofo fuori posto e Loris, trent'anni, precario, finisce schiacciato sulle mattonelle del bagno. Il fiato corto, il cuore impazzito, un uovo dal guscio duro che gli si schiude all'improvviso sul fondo della pancia. Lo conosciamo steso tra il lavandino e il bidet, all'alba dell'ennesima crisi. Al di là della porta chiusa c'è Jo, l'eterna fidanzata, che spererebbe in un compagno più tonico, più intrepido, più appassionato. Seduta sulla lavatrice, invece, c'è la sua amante immaginaria: si chiama Catastrofe, spiazza con trasformazioni imprevedibili e somiglia alla versione horror di una delle emozioni di Inside Out. È lei a comunicargli che presto o tardi esploderà. Cosa si nasconde dietro i mal di pancia, i tremori, le ossessioni di Loris? Schiavo della melatonina e dei fermenti lattici, prigioniero dell'inferno di sé stesso, invidia il codice rosso dei feriti a morte, si nutre di tragiche storie vere sui forum e su YouTube, origlia con astio i suoni di un vicino di casa che suona, scopa e vive senza pudore. A un certo punto dichiara che preferirebbe una malattia terminale al pressappochismo con cui, ormai, lo liquidano i medici.

Cosa succederà a quel ragazzino nella foto lui non lo sa, eppure non può fare niente per salvarlo, né da sé stesso né dal dolore, perché così avviene: il male arriva e passa schiacciando e livellando, deviando il corso del fiume che sei stato.

Sarebbe facile biasimarlo, considerarlo empio e vittimista, ma la verità è che quest'ipocondriaco con cui parrebbe impossibile empatizzare ha la mia faccia allo specchio, le mie identiche crepe. All'inizio ho corso il rischio di divorare la sua storia. Poi ho rallentato, per la paura di essere divorato. Il lockdown sembra accaduto una vita fa, ma l'altro giorno ho trovato una vecchia mascherina nella tasca del doppiopetto. E ho ripensato a quand'ero come Loris, ai capelli sporchi e alle clavicole sporgenti, ai libri letti bulimicamente e ai siti porno consultati in cerca di un'eccitazione che non sopraggiungeva. A un lavoro che, nell'immobilismo generale, non arrivava. Dopo tanta paura della malattia, il contagio, infine, era giunto con carico di delusione: una febbriciattola che non mi avrebbe ammazzato — per fortuna, purtroppo. La mia stanza, intanto, era diventata una cella dove enumerare le figuracce, i rimorsi, i ricordi; il corpo un campo di battaglia. Durante la lettura mi sono materializzato alle spalle di Loris e, io che ci sono passato, io che a volte ci passo ancora, ho rubato il posto a Catastrofe nell'ascoltarlo, scuoterlo, stringerlo forte. Se non fosse così brava, Giulia Caminito risulterebbe respingente. È il rischio che corre chi sceglie personaggi scomodi e pone al centro, senza fronzoli, la malattia: queste volta, per di più, una malattia reputata immaginaria. La sua scrittura, di chirurgica esattezza, è la sonda nelle viscere di Loris. Cerca il male, Giulia. Insegue il ticchettio della bomba e medita un modo per disinnescarla, lei che ha strumenti da artificiera. È nella ricerca, però, che trova anche la luce che resta.

Si era sempre immaginato accanto a lei, ma da soli. Loro due come una diade tenace, un microcosmo autosufficiente.

Loris, anestetizzato, se ne sta rannicchiato in posizione fetale e torna neonato, embrione, spermatozoo. Vive un'evoluzione a rovescio. Il suo lamento diventa un romanzo intimo, privatissimo, pieno di simboli e dolori, in cui il passato è l'unico baluardo sicuro contro un presente sismico. Laggiù c'è un nonno che ci spiega la vita attraverso l'osservazione delle voliere e che ci rivela, all'occorrenza, i segreti degli innesti felici. Serve colla abbondante affinché la vita attecchisca; serve pazienza, poi, affinché fiorisca nella pelle di una corteccia estranea. L'autrice romana si fa portavoce di quei segreti — suo nonno, a cui il romanzo è dedicato, doveva somigliare molto a Tempesta — e li condivide generosamente con noi, pur di vincere la solitudine che l'ansia chiama a sé. Firma, così, un romanzo ben più misurato del precedente, in cui trova finalmente spazio vitale una generazione che finora non c'era sui libri: quella affetta dal male che non c'è. Giulia Caminito ci ha salvati dall'estinzione.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gazzelle - Destri


lunedì 7 ottobre 2024

Recensione: Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre, di Irene Solà

| Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre. Irene Solà, Mondadori, € 18,50, pp. 156 |

Cosa succederebbe se David Eggers, il regista di The Witch e The Lighthouse, dirigesse una sceneggiatura firmata dal fantasma di Gabriel Garcìa Màrquez? La bravissima Irene Solà, autrice catalana già di culto presso i millennial, sembra mostrarcelo in questo incubo a occhi aperti. Un po' menestrello, un po' strega, ci apre le porte di una saga familiare fosca e oscena, i cui personaggi si muovono in un limbo brulicante di insetti. Siamo in una stamberga sui Pirenei. Il casolare del Mas Clavell è paragonato a un corpo in decadenza, le stanze a una bocca guasta. È una proverbiale notte buia e tempestosa e, costretta a letto, la vecchia Bernadeta attende la morte: non è il paradiso che la attende. Veggente, è stata l'amante del Maligno in persona e una degli ultimi membri di una famiglia di donne irredente. Eccole, riunite intorno al capezzale, pronte a trascinare la parente inferma all'inferno. Hanno sgozzato un capretto. E disordinatamente, confondendosi coi vivi, si sono raccontate senza filtri al lettore. Vissute a cavallo tra le due guerre, appartengono a una progenie maledetta: nel loro DNA c'è il gene della mancanza, dell'abbandono.

Perché di mattino una donna ingenua poteva illudersi che la notte fosse finita. Mentre la notte non finiva mai, attendeva di nascosto e faceva sempre ritorno.

Solà ci propone un carosello spettrale di orgogliose peccatrici e, sondando le ombre, ci intrattiene con bambini divorati nella culla, abusi e mattanze, selve popolose di belve e briganti. Per leggerla è vietato essere impressionabili: gli argomenti scabrosi abbondano e poco è lasciato all'immaginazione. Il suo romanzo è una carogna che disgusta, eppure, misteriosamente, attrae. Come volgere lo sguardo altrove? Schiavo del turbamento, ho subito tessuto le lodi di una scrittura ritmica e fortemente suggestiva: sensuale perfino nell'orrore più turpe. Il difetto è che la trama non presenta una vera evoluzione e che, fino all'ultima pagina, aspettiamo soltanto l'ultimo rantolo di Bernadeta. Eccessivamente barocco, prima affascina e poi affatica, con uno stile densissimo e un albero genealogico troppo ramificato per duecento pagine scarse. Si respira un sentore di decomposizione. Ma anche l'odore del soffritto che intanto frigge in padella: cipolla, lardo, cannella. C'è una festa da preparare. Alienate dal mondo, mosse da attrazioni incestuose e fantasie di zoofilia, le donne di casa sghignazzano delle diavolerie dell'epoca contemporanea e nutrono nostalgia per gli eccessi che furono. Sono vittime inermi del Secolo breve o femministe all'avanguardia, in un passato in cui altrimenti non avrebbero avuto voce? Il loro sabbat è un commiato senza speranze in cui le tenebre sono l'unico spettacolo da rimirare; l'unica coperta abbastanza lunga da stringerle tutte insieme ancora una volta.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Thom Yorke – Volk


martedì 1 ottobre 2024

Recensione: Elizabeth, di Ken Greenhall

| Elizabeth di Ken Greenhall. Adelphi, € 19, pp. 173 |

Seduta in soffitta, a gambe incrociate, studia il suo riflesso allo specchio. Bellissima, mostra più dei suoi quattordici anni. La minigonna mette in mostra le gambe tornite e una ferita ancora fresca: è il morso di un ragno. Dall'altra parte della finestra New York è una foresta di grattacieli. All'improvviso sullo specchio si proietta l'immagine di un'altra donna: proviene da un'altra epoca, il Cinquecento, e da un'altra dimensione. Ha inizio, così, un dialogo strano e perturbante tra due generazioni lontane; tra un'allieva e la sua guida. Come si diventa una strega? Elizabeth è un'alunna provetta. Responsabile della tragica morte dei genitori, ha uno zio per amante e un'istitutrice inglese che pende dalle sue labbra. Nessuno — lettore compreso — può resistere ai suoi desideri mostruosi e alla sua oscura libidine. La seduzione è un'arma. Fin dove si spingerebbe per imparare a tracciare formule magiche con il suo rossetto scarlatto?

Tutti abbiamo diritto ai nostri segreti. Potremo forse affrontare il mondo con un minimo di sicurezza, senza la giusta dose di conoscenza non condivisa? La conoscenza di ciò che succede tra due persone nel buio di una stanza?

Accolta in un'antica famiglia di armatori navali, vivrà un soggiorno da brividi nella casa di Coenties Slip: vi seminerà turbamento e scompiglio. Come in ogni gotico degno di questo nome, non possono mancare all'appello stanze piene di specchi; feroci animali domestici contro cui accucciarsi per prendere sonno; un omicidio consumato con un candelabro d'argento. Ken Greenhall, contemporaneo di Shirley Jackson, debutta in Italia a dieci anni dalla sua morte con un teen horror esile ma dalle atmosfere suggestive, delirante nel contenuto ma elegantissimo nella forma. Al di sopra del bene e del male, contorto e sessualmente ambiguo, il romanzo è un covo di desideri inconfessabili su una ninfetta irrequieta: dietro il fare provocante, però, come ogni adolescente, sogna di vivere una vita straordinaria o un amore che appaia meno soffocante dell'odio. Abbraccerà la sua eredità o la avverserà? L'epilogo, frettoloso, lascia con la sensazione che nella giovinezza della protagonista ci saranno altri misfatti, altri colpi di fulmine, altre scoperte. Quanto sarebbe soddisfacente saperne di più, leggerla ancora? Come l'antieroina di Goliarda Sapienza, costi quel che costi, Elisabeth punterà a ottenere la sua personale parte di gioia. Sarà, però, la dannazione dei più. La lettura del vostro prossimo Halloween è presto servita.

Il mio voto: ★★★

Il mio consiglio musicale: Rettore – Il Cobra

martedì 17 settembre 2024

Recensione: Yellowface, di R.F. Kuang

| Yellowface, di R.F. Kuang. Mondadori, € 22, pp. 384 |

Quest'anno ho letto un libro di cui non farò il titolo. Una lettura, altrove molto chiacchierata, che mi ha fatto pensare: l'autore è più interessante della storia che racconta. Oggi, in editoria, cosa conta: l'immagine o la parola? Quanti esordienti raggiungono la fama poiché aiutati dalle caratteristiche richieste dell'algoritmo? Con risentimento, se lo domanda June: talentuosa ma non abbastanza interessante, ha assistito all'ascesa di Athena, una compagna di college brillante ma, soprattutto, benedetta dalla fortuna.

L'invidia viene sempre descritta come un livore tagliente e velenoso. Un'acredine infondata e meschina. Ma ho scoperto che per gli scrittori l'invidia assomiglia di più alla paura. L'invidia è quell'impennata del battito cardiaco tutte le volte che leggo dei successi di Athena su Twitter. L'invidia è ciò che provo quando mi paragono a lei e ne esco costantemente sconfitta, è il panico che mi prende quando penso che non scrivo abbastanza bene o abbastanza in fretta, quando sento che non sono, né sarò mai, all'altezza.

Asiatica, queer, fotogenica, rappresenta uno schiaffo al predominio della cultura bianca. Autrice giusta nel momento giusto, benché poco attiva nella comunità asiatica e non sempre solidale con le altre donne, ha un contratto con Netflix e un altro successo in rampa di lancio: alla macchina da scrivere, infatti, ha battuto un romanzo top secret sul ruolo della manodopera cinese nella Grande guerra. Essere bianca, etero, media, significa non avere più nulla da offrire ai lettori? Divorata dalla gelosia, June approfitta allora della morte di Athena per appropriarsi del manoscritto inedito: ne farà un successo internazionale. Arguto, politicamente scorretto e puntuale, Yellowface è una commedia nera sui retroscena dell'editoria, sui giustizieri di Twitter e sull'appropriazione culturale. È lecito che un'autrice bianca dia voce a un dramma cinese? Quand'è che scrivere ha smesso di essere un esercizio di empatia? Il plagio sarà solo l'inizio. Travolta dagli scandali e dalle illazioni, June sarà al centro di un'ascesa e di una caduta dolorosamente rapide, nonché di un romanzo a tratti asfissiante che si diverte a giocare con le storie di fantasmi e con la metanarrazione. Nessuno è al sicuro: perfino la defunta Athena, morbosamente attratta dalle sofferenze altrui, era una ladra incensurata.

Cosa si prova a essere così assolutamente perfetta, ad avere tutto il meglio del mondo? E forse sono i cocktail, forse è la mia esagerata immaginazione da scrittrice, fatto sta che comincio a sentire un grumo rovente nello stomaco, una strana e improvvisa voglia di infilare le dita in quella sua bocca rosso lampone e aprirle la faccia in due, sbucciarle la pelle del corpo come fosse un'arancia e infilarmela addosso.

Le polemiche, tuttavia, restano la migliore pubblicità desiderabile. Riuscirà la nostra antieroina a riappropriarsi finalmente della propria storia? Forte di un'idea originale e di una narratrice scomoda, il romanzo brilla anche per l'autoironia della stessa R.F. Kuang: sinoamericana di grande successo, incalza con innumerevoli interrogativi ma garantisce poche risposte. Ancora acerba, gira a vuoto e abbozza diverse strade percorribili: alcune sono buone, altre ottime, ma tentenna senza imboccarne nessuna. Destinato a un finale aperto, Yellowface è un prurito che non puoi grattare. L'intreccio, fragile, resta un groviglio arruffato. Ma il fastidio, nel frattempo, ti ha dato lungamente da pensare.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: David Bowie - China Girl