Un
ragazzino di provincia scopriva un'epifania chiamata cinema: si
chiamava Fabietto ed era il protagonista dell'ultimo Sorrentino. La
stessa fiaba è vissuta un anno dopo da un altro sognatore: Spielberg
e il suo alter-ego, Sam. Memore delle lacrime versate per E' stata
la mano di Dio, temevo e speravo di struggermi: immerso in
un'irresistibile atmosfera da sit-com anni Cinquanta, invece, mi sono
divertito tantissimo. Spielberg racconta gli alti e bassi di una
famiglia in crisi, ma rinuncia al conflitto; omaggia i classici della
settima arte, ma non appare manieristico; mette in scena sé stesso,
ma rende omaggio a tutti i felici a modo loro. Sbadatamente, avevo
dimenticato di trovarmi al cospetto del più grande regista di film
per famiglie di tutti i tempi. E i Fabelman, che hanno le storie
perfino nel nome, sono proprio indimenticabili. A capotavola siedono
Paul Dano, ingegnere gentile e dolcissimo; Michelle Williams, mamma
sull'orlo di una crisi d'identità, che insegue tornadi e balla alla
luce dei fari. A guardarli è un adolescente dall'occhio già
critico: il cinema aiuterà lui e gli altri personaggi a percepire lo
scollamento tra realtà e aspettative. Sincero, personale,
tenerissimo, il film minaccia di dilaniarci in un braccio di ferro
tra vocazione e famiglia. L'autore che ha allevato generazioni di
cinefili, invece, concilia gli opposti e sa ricreare l'intimità
domestica perfino in questo eclatante esempio di grande cinema da
godere sullo schermo più grande possibile. Era genetico, era
destino. La casa della famiglia ebrea in fondo al viale, l'unica buia
nel bel mezzo dello sfavillio del Natale, brillava di luce propria e
del fascio del proiettore. L'importante, nel ritrarla, è ricordarsi
di controllare l'altezza dell'orizzonte nell'inquadratura: “Se è
in basso è interessante, se è in alto è interessante, ma se è al
centro... È una palla mortale”. È stato un suggerimento di John
Ford. È stata la mano di Spielberg. (8)
Siamo
in un'isola bellissima, a largo dell'Irlanda. Sulla terraferma
impazzano i combattimenti, ma a Inisherin non giungono che i boati
lontani. Lì, tra i pub fumosi e le scogliere a picco, si consuma
un'altra insensata guerra civile: quella fra due uomini, un tempo
migliori amici, che improvvisamente non si vanno più a genio. Il
pastore Colin Farrell, tenero e fragilissimo lontano dai ruoli di bel
tenebroso che l'hanno reso noto in gioventù, elemosina una seconda
opportunità e nel frattempo si strugge. Il violinista Brendan
Gleeson, annoiato dalle moine dell'altro, minaccia di tagliarsi le
dita a colpi di cesoie se importunato di nuovo. Non
staranno forse esagerando? Perché non si limitano ad affrontare le
solitudine e la depressione alla maniera degli altri isolani, si
domandano la sorella volitiva Kerry Condon e lo scemo del villaggio
Barry Keoghan? Brontoloni, imprevedibili e adorabili, gli eccellenti
protagonisti animano una sceneggiatura beckettiana fatta di
paradossi: la stupidità umana viene raccontata con la solita
intelligenza del regista; i dialoghi, al solito fitti, nascondono non
detti fino alla fine. Ma da Martin McDonagh mi aspettavo qualcosa di
più, dopo i fasti di Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
Piccolo e indipendente, questa volta se ne torna alle origini e con
il suo microcosmo agrodolce (ho pensato a un Chocolat con la
rabbia canina) conquista qualche nomination agli Oscar di troppo.
Vincerà la statuetta alla sceneggiatura: brillante, al solito, ma
per me inutilmente triste e amara. Su quest'isola ci sono le streghe,
le canzoni folkloristiche tramandano la leggenda delle banshee, ma
non c'è la magia sperata. (7) È
il film di cui tutti parlano. Un piccolo miracolo dal cuore grande,
che a sorpresa è uscito dal circuito indipendente per imporsi anche nella stagione dei premi. Trama, toni e
atmosfere sono quelli del Sundance: due personaggi, uno scenario esotico, tanti dialoghi, troppi non detti. Ma questa volta
i protagonisti sono un padre e una figlia, e il film (autobiografico)
è la storia del loro primo e ultimo viaggio insieme. Lui ha un
braccio ingessato e improvvisi sbalzi d'umore; lei ha undici anni, ma
la sa già lunga. Tenero e idilliaco all'apparenza, il loro rapporto
nasconde ombre indecifrabili. E la sceneggiatura, sospesa, carica di
tensione quell'epilogo già cult sulle note dei Queen. È possibile
mettere insieme i frammenti sparsi di un genitore mai compreso? Ci
prova Charlotte Wells, che affida le memorie di un'estate a Paul
Mescal: ancore una volta, il gigante buono di Normal People
commuove unendo la sua fisicità da adone a una delicatezza quasi
femminea.
Sophie lo considera vecchissimo e gli domanda cosa farà
per il suo centotrentunesimo compleanno. L'uomo abbozza, vago. E i
suoi misteri, a distanza di un ventennio, vengono scandagliati
attraverso i video ricordo. Ma né la memoria né l'elaborazione sono lineari; non lo è il perdono. I ricordi della regista,
così, diventano flash tra le luci di una discoteca.
Spettri da scacciare, miraggi da acciuffare: il tutto, invano. Certe
mani grandi non possono essere riafferrate per un nuovo
giro in pista. Ma resta la memoria tattile del loro tocco, quando ci
spalmavano il doposole nei punti in cui non arrivavamo. Aftersun
è la bruciatura. Aftersun è la crema lenitiva. (9)
Da
dietro il suo leggio, Lydia Tár, direttrice d'orchestra (anzi,
“direttore”), muove le mani come se potesse domare il mondo
intero. O annientarlo. Omosessuale, anticonformista, ambiziosissima,
è misogina e conservatrice come si addice a quel mondo: tiranneggia
sulla giovane e illusa assistente, seduce e abbandona le borsiste,
esprime dissenso verso il politicamente corretto della generazione Z.
Articolato in una serie di lunghi colloqui dal taglio
teatrale, il film di Todd Field si muove come un (falso) biopic tra
vita pubblica e privata: a distrarre la protagonista sono le prove
per la quinta di Mahler, la ricerca di un nuovo vice alla sua
altezza, il suadente rumore dei tacchi della violoncellista
neoassunta. Questa è la storia, indecisa tra dramma e beffa, della
perdita di controllo di Lydia. Il suo crollo (a cui, amaramente, non
seguirà una rimonta) viene mostrato, nell'ultima parte, con toni
vagamente horrorifici. Annunciato sin da premesse, dopo quasi tre ore
fittissime lo si accoglie al suono di sbadigli. Field non è Sorkin.
Tár non è Jobs. Il personaggio eponimo affascina, ma
non c'è mai una curiosità voyeuristica dietro quelle conversazioni
interessanti soprattutto alle orecchie degli addetti ai lavoro. A
noialtri restano qualche raro sorriso tirato e la sensazione che la
grande pretenziosità del tutto (prendete perfino i titoli di testa,
spossanti) guasti il coraggio dello spunto di partenza: raccontare la
vicenda di una predatrice sessuale nell'era del #metoo.
Quest'orchestra stridente, in mano a un altro, sarebbe stata un
capolavoro. Ma il film, premiato a Venezia per la migliore
interpretazione femminile e plurinominato agli Oscar, è un anfibio
gelido, scontato e prolisso. Come, d'altronde, la bravura da prima
della classe di Cate Blanchett: a lungo andare, viene a noia anche
quella. (5,5)