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Due vite, di Emanuele Trevi. Neri Pozza, € 15, pp. 128 |
Somigliava al suo nome, Rocco Carbone. Ruvido e scuro, originario di Reggio Calabria, pareva l'eroe tormentato di un romanzo di Jack London. In trasferta nella labirintica Roma, rifuggì la vita accademica per rifugiarsi nella scrittura: non un piacere, bensì un'ossessione. Bipolare, Rocco cercava disperatamente di opporsi al caos attraverso la parola scritta e di scorgere una fuga dalla propria infelicità. Morì nel 2008, in un incidente stradale, senza ottenere mai il successo sperato. Pia Pera, scrittrice e traduttrice dal russo, aveva invece l'aria di una madama inglese d'altri tempi. Limpida, discreta, ma sostanzialmente inconoscibile, coglieva talora in contropiede con descrizione di sesso particolareggiate o con progetti destinati a scontentare: riscrivere il capolavoro di Nabokov, ad esempio, attraverso il punto di vista dell'oggetto del desiderio. Masochista, si legava agli uomini sbagliati. Fu uno di loro a farle notare impietosamente che zoppicava: erano i primi segni della SLA. Sarebbe morta nel 2016, curandosi degli affetti e del giardino in un incantevole podere di Lucca.
Io non credo, non ammetterò mai che un dolore o una malattia servano a qualcosa, è solo una consolazione moralistica, e comunque rinuncerei volentieri a questi famosi frutti della sofferenza. Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi.
Diametralmente opposti – maestro del risentimento lui, leggerissima lei –, questi autori a me sconosciuti rivivono per magia nei ricordi di un amico comune. Alla maniera di Plutarco, Emanuele Trevi intreccia esistenze parallele ricercando analogie e differenze: non aspettatevi un romanzo canonico. Due vite è una doppia biografia, è un saggio di scrittura creativa e critica letteraria, è una seduta spiritica. Rocco e Pia si materializzano nel nostro salotto e, per mano, ci conducono con commovente delicatezza tra nevrosi e piccole premonizioni. Razionale eppure pieno di sentimento, attraverso una prosa d'arte che l'amico avrebbe giudicato forse un po' antiquata, Trevi firma un elogio funebre mirabile, sofisticato, misuratissimo. Vince il premio Strega. Lettura lontana da me, intrapresa soltanto per sbirciare sul proverbiale carro del vincitore, Due vite non mi ha fatto ricalcolare d'un fiato i confini della mia comfort zone – preferisco la narrativa all'autofiction –, ma merita comunque tutti gli onori. Ci sono, infatti, opere mosse da un'innegabile urgenza interiore: quelle scritte più per sé stessi che per gli altri.
Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno.
Trevi piace per la sua sincerità e, al contempo, coglie in contropiede: ho avuto l'impressione di sbirciare una corrispondenza privata, un lascito testamentario, e mi scopro incapace di formulare giudizi radicali davanti a qualcosa di tanto intimo. Rubando le parole all'autore, il suo libro è come un dipinto impressionista. A seconda del nostro punto di vista, potrebbe apparire o troppo confuso – un insieme di macchie – o troppo comune – un album di foto in bianco e nero. Alla giusta distanza, tutto cambia. Gli occhi saettano dal particolare al generale. E aguzzando lo sguardo, nell'universalità del dipinto, potremmo vederci a nostra volta ritratti. Abbiamo un po' di Rocco, abbiamo un po' di Pia. Ma abbiamo qualcuno, accanto a noi, che somigli a Emanuele? Un amico, un confessore, un custode? Mi auguro di sì, in modo da avere in regalo una seconda opportunità, due vite: una vissuta – spesso derelitta – , una rimembrata – bella come un romanzo da palmarès –.