Davanti alla presenza di una pellicola coreana agli Oscar, è impossibile non pensare ai fasti di Parasite: che il miracolo si ripeta anche quest'anno? Per quanto sorga spontaneo il confronto tra gli outsider asiatici alla conquista di Hollywood, i paragoni insensati andrebbero a discapito di Minari: lontano dalla folgorazione del thriller satirico, ma a modo suo bello e speciale comunque. Ambientato negli Stati Uniti degli anni Ottanta, il film segue la famiglia Yi dall'Oriente all'Arkansas. Partiti con il desiderio di mettere su una fattoria dove coltivare frutti e ortaggi asiatici, i protagonisti si ritrovano a condividere una bizzarra casa su ruote e venti ettari che, nei giorni pari, somigliano al giardino dell'Eden in terra. Mentre il cocciuto capofamiglia Steven Yeun investe anima e corpo nel suo sogno americano, la moglie trascurata patisce l'isolamento: smetteranno di litigare grazie alla suocera – Yoon Yeo-Jeong, in odore di statuetta –, esilarante vecchina che non cucina biscotti né prega per il Paradiso, ma in compenso impreca e rubacchia. In una casa in cui c'è bisogno di acqua corrente, manodopera e benedizioni, a portare dolcezza incommensurabile è il punto di vista del piccolo David: primo di una lunga galleria di personaggi adorabili, indossa gli stivali da cowboy e cerca di non affaticare troppo il suo cuoricino malandato. Meglio evitare le emozioni negative. Su misura del protagonista, così, Lee Isaac Chung cuce una saga familiare quieta, solare, delicata in maniera disarmante. Un incanto bucolico ben più significativo di Elegia americana, dove l'erba commestibile sulle anse del fiume – il “minari” del titolo – viene a simboleggiare l'arte di cavarsela. Un gioiello d'altri tempi, per imparare a vivere meglio e saggiamente i nostri. (8)
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sabato 17 aprile 2021
Verso gli Oscar: Minari | Nomadland | The Father | Un altro giro
Sono
i nomadi di oggi. Hanno condotto vite uguali ma diverse. Adesso,
reduci da drammi e declassamenti, si riconoscono in quanto simili. Si
sfiorano. Negli spiazzi affollati. Nei parcheggi per le roulotte. In
un film ispirato all'omonimo reportage di Jessica Bruder. C'è una
malata terminale all'inseguimento di un ultimo viaggio della
speranza. C'è chi, in pensione anticipata, sogna la libertà. Chi,
ancora, giovanissimo, è appena scappato di casa. Poi c'è lei, Fran:
vedova in cerca di lavoro. Che si arrangia, chiede aiuto e, qualche
volte, lo dà. Che si sposta inseguendo l'ispirazione, la fortuna, sé
stessa. Finché un brav'uomo non la tenta con la stabilità. La
rivelazione Chloé Zhao ha un bel bagaglio di storie dal quale
attingere e uno sguardo partecipe, commosso. Piacciono i rituali e
l'armonia dei suoi nomadi. Piace al solito Frances McDormand, tenera
e ruvida come soltanto lei sa essere, alle prese con il personaggio
di una novella Thoreau (non cita a memoria Walden, però,
bensì un celebre sonetto di William Shakespeare). Ma Nomadland,
piccolo, onesto, genuino, nonché splendidamente musicato dal nostro
Einaudi, in parte confonde: è un documentario, più che un film, e
stranisce allora trovare un'attrice affermatissima, per quanto
aderente al ruolo, in mezzo ai reali attanti. Probabilmente, dopo il
Leone d'oro a Venezia e il trionfo annunciato ai Golden Globe, vincerà anche l'Oscar al
Miglior Film. La cosa non scontenterà nessuno, neanche il
sottoscritto, ma il risultato complessivo mi è parso frammentario e delicato.
Sin troppo. (7)
Un
ingegnere in pensione viene accudito dalla primogenita mentre
l'Alzheimer, inarrestabile, gli ruba gli ultimi scampoli di vita e di
memoria. Esordio alla regia per il drammaturgo Florian Zeller, The
Father racconta la senilità con un approccio parzialmente
nuovo. Dramma dai risvolti inesorabili, vanta infatti un montaggio da
thriller e una sceneggiatura caleidoscopica fedele alle percezioni
falsate del protagonista. Sospettoso, crudele e aggressivo, anche se
ironico e affascinante all'occorrenza, l'ultraottantenne Anthony
Hopkins lascia attoniti davanti all'ennesima prova magistrale; un
delirio ossessivo in cui subodora cospirazioni e tradimenti, puntando
il dito a destra e a manca. Chi ha rubato il suo orologio? Chi ha
cambiato l'arredamento? Come mai i più non vedono l'ora di chiuderlo
in un ospizio? Amorevole e devota, benché sull'orlo di una crisi
nervosa, lo assiste una misurata Olivia Colman. Rigorosamente
britannico, il film d'impostazione teatrale trasuda eleganza e
manierismo. Per certi versi troppo patinato, per altri originalissimo
nel restituirci la confusione di Hopkins, The Father è un
singolare home invasion in cui le nebbie della malattia cozzano un
po' con la lucidità della regia. Troppo cerebrale, troppo scritto,
troppo ragionato, dimentica presto l'intenzione di raccontare
l'Alzheimer dal punto di vista di chi soffre realmente d'Alzheimer. In ogni
caso, nella moquette di questo salotto alto-borghese, in questo magma
temporale tenero e spaventoso insieme, è una goduria sprofondare in
compagnia di un interprete impareggiabile. (7)
Chi
beve solo acqua ha un segreto da nascondere, scriveva il francese Charles
Baudelaire. In una Danimarca altrettanto decadente, un gruppo di
frustrati professori di mezza età decide di sottoporsi a un
esperimento sociale per migliorare le loro relazioni in famiglia e a
scuola: ossia, bere. Stando a un filosofo realmente esistito, infatti, per
ogni litro di sangue il nostro corpo avrebbe bisogno di 0,5 grammi di
alcol per essere perfettamente bilanciato. All'improvviso più
partecipi dome docenti, mariti e amici, i protagonisti con
l'etilometro sempre in tasca giurano di non superare i limiti del
consentito. Ma quanto è facile perdere la bussola, se ci si mette di
mezzo l'imprevedibile dio Bacco? Dopo le infruttuose parentesi
americane, Thomas Vinterberg torna alle origini danesi. Porta con sé
il sempre grande Mads Mikkelsen – misuratissimo, qui depone la
consueta aria ammaliante per un personaggio fragile e insicuro – e
la fidata camera a mano, puntando agli Oscar. Pare, vincerà. Ma per
me, a lungo indeciso tra provocazione e moralismo, tra dramma e
commedia, il film è ben lontano dai fasti del
Sospetto. Dopo una brillante prima, la riflessione
sull'insostenibile leggerezza dell'essere (sbronzi) esaurisce in
fretta lo spunto eversivo e si trascina su sé stessa, in un
prevedibile vortice di autodistruzione. Martin, uomo di mezza età e
marito insoddisfatto, riuscirà a lasciarsi alle spalle le
inibizioni? E a smettere quando vuole con il vizio dei cicchetti di
prima mattina? Nonostante tutto, la chiusa danzereccia è già cult.
(6,5)
Solo una piccola puntualizzazione: nonostante il regista e gli interpreti siano coreani, "Minari" è una produzione americana a tutti gli effetti (i produttori sono tutti statunitensi) e quindi il paragone con "Parasite" regge poco: a me non è dispiaciuto, però la struttura del film è tipica del film "indie" americano. Nulla a che vedere con atmosfere e stile del film di Bong Joon-ho.
RispondiEliminaMeglio così, ché io conosco bene gli indie americani e poco, purtroppo, i coreani. ;)
EliminaMinari caruccio, pure troppo, al punto che finisce per essere abbastanza innocuo. Spero vinca per la splendida colonna sonora, per il resto non mi ha lasciato un enorme segno.
RispondiEliminaUn po' come Nomadland. Buon film, ma nemmeno io ho visto il pluripremiato capolavoro di cui tanti parlano.
Ben più incisivi mi sono sembrati gli altri due. The Father, a parte l'impostazione teatrale, mi ha convinto ben più di quanto mi aspettassi.
Another Round poi si è rivelato decisamente il mio film. Sarà per le dosi massicce di alcol presenti? :)
Da Another Round mi aspettavo tantissimo, essendo un prof frustrato e un po' brillo anche io, ma alla fine non l'ho trovato né carne né pesce, né riflessivo né divertente. Non l'ho capito, insomma.
EliminaD'accordo con Cannibale qua sopra che saluto, mi attirano The Father e l'ultimo di Vinterberg regista che mi piace molto.
RispondiEliminaIo non sono impazzita per Parasite, magari Minari, chissà....
👋👋👋
Minari è un romanzone familiare che ameresti, secondo me.
EliminaQuattro film molto belli, ognuno a modo loro.
RispondiEliminaIl mio cuore va a Minari e Nomadland, forse di più al secondo, che mi ha magonata in modi inaspettati, tuttavia il più particolare è sicuramente The Father, costruito come un giallo hitchcockiano e con attori grandiosi.
Another Round molto carino e hai ragione, la danza finale è già cult. Mamma mia, quanto tempo è passato da quel "rozzo" Festen!
Però Festen chi se lo lo scorda?
EliminaQuesto, al contrario, sì.
Poi la nomination alla regia mi sembra troppo. E' il solito Vinterberg.
Minari e Nomadland mi interessano molto, The Father invece mi spaventa: è il genere di storia che finisce per farmi stare malissimo.
RispondiEliminaEh, ti capisco... In The Father tocca mettere in conto il crepacuore, anche se con la sua struttura troppo rigorosa non mi ha commosso. Sul tema, al contrario, avevo amato il francese Deux (due vecchine innamorate, separate dal mancato coming out e dalla malattia).
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