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martedì 9 giugno 2020

Recensione: Il nome della madre, di Roberto Camurri

| Il nome della madre, di Roberto Camurri. NN Editore, € 17, pp. 174 |

This is a man’s world. But it would be nothing, without a woman or a girl. L’intramontabile James Brown cantava così, e nel secondo romanzo del bravo Roberto Camurri gli fanno eco i due protagonisti. In  un mondo a “misura d’uomo” – la stessa provincia emiliana dell’esordio, pacifica ed evocativa come la Holt di Kent Haruf – quanto pesa l’assenza di una donna fuggita via? Fino all’ultimo, di quella donna non conosceremo né le motivazioni né il nome. Saranno tramandati di padre in figlio, come un segreto da custodire. Ma intanto leggiamo del rapporto d’amore-odio tra i superstiti, che vivono nell’incanto selvaggio di una casa popolata soltanto da soli maschi; dei pasti consumati in silenzi, delle mattine rischiarate a fatica, della lentezza di arrancare giorno per giorno chiedendosi come mai. Il loro amore non era forse abbastanza? Questa è la storia di Ettore, genitore tutto d’un pezzo, che per strada attacca briga con il primo bellimbusto e in giardino improvvisa un falò con la camicia da notte della moglie. Questa è la storia di Pietro, abbandonato appena nato, che cresce impreparato alla vita adulta, incostante, incapace di stabilità: sniffa, s’innamora e tradisce, va e poi viene.  Questa, in parte, è anche la mia storia. Che da cinque anni faccio i conti con il senso d’abbandono e che in rubrica ho salvato il nuovo contatto di mia madre scrivendoci accanto il numero due: come a dire che viviamo lontani, in un’altra fase delle nostre vite. 

Quando la città finisce, quando, tutto attorno, vede quel pianeggiare che scopre essergli ancora consueto, gli viene in mente una canzone, una canzone che Ettore ascoltava quando lui era piccolo, è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente del diritto alla felicità. Scopre che non se n’è mai andato veramente, che quella terra, quella pianura, quei colori, quel cielo pallido e quell’umidità che ricopre i campi saranno sempre casa sua.

Per ragioni personali, il romanzo mi ha toccato nel profondo. Ma forse proprio per questo non sono riuscito ad apprezzarlo. Avrei voluto identificarmi fino in fondo con i protagonisti, ma non ho trovato traccia né della mia rabbia né dei miei rimpianti. Soltanto una pacata rassegnazione, che rallenta i gesti, semplifica le manifestazioni d’affetto, annulla i dialoghi. Dotato di una struttura esile, che fino a pagina cento non riesce ad allontanarsi dal riassunto in copertina, Il nome della madre si fonda su atmosfere vividissime, tra campi e cantieri, pianure a perdita d’occhio e il gorgogliare del Po. Mi sono beato dei cespugli di magnolia, dei passerotti che beccano le molliche sul tavolo in giardino, della natura sonnacchiosa e dei meravigliosi spaventi che offre qui e lì. La malinconia del paesaggio settentrionale, le ambientazioni nebbiose e senza guizzi, finiscono però per influenzare troppo gli stati d’animo dei personaggi appiattendo una storia che mi è parsa statica.

Il fantasma di sua madre adesso è in piedi davanti a lui, gli occhi scintillano nello scuro di quella notte, sanno di quiete e di futuro, di casa, sono i suoi stessi occhi. Pietro si volta a guardarla e la vede sorridere mentre alza una mano per accarezzarlo, una mano che è fatta di nebbia come di nebbia sembra fatta ogni cosa che lo circonda in quel parco, una mano che sente calda sulla pelle come la voce che gli sussurra nella testa, la voce che riconosce.

Pur non amando il formato del racconto, a sorpresa qui mi sono trovato a rimpiangerlo: se fosse stato parte di una raccolta, infatti, con altre storie a fargli da cornice, avrei trovato questo ritorno in libreria ben più compiuto di così. È stato difficile empatizzare con i nuovi protagonisti di Roberto. Meno lasciarsi emozionare dai cenni al romanzo precedente – i cameo di Bice, Davide, Valerio, Anela – o da una scrittura comunque preziosa, che ricorda il minimalismo americano anche quando, come in questo caso, manca uno sguardo originale su un tema affrontato spesso altrove. Qualcosa cambia nelle ultime pagine, le più toccanti, con un ritorno a casa che commuoverà. Questo è un romanzo interamente basato su una mancanza. E manca di qualcosa, al pari delle ultime foto della mia famiglia.   
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Fabrizio Moro – L’eternità (Il mio quartiere)

6 commenti:

  1. Spero tu possa tornare a casa, ovunque il tuo cuore ti voglia portare, lui sa sempre come guidarti/ci. I libri come i film a volte ci spezzano, parlano di noi e a volte lo fanno quando meno ce lo aspettiamo, danno risposte a domande ormai dimenticate. Ho provato la stessa con un film "Il ritorno". Un abbraccio.

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    1. Grazie mille per le tue parole, Lory. Ricambio l'abbraccio.

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  2. Un autore che mi aspetta da un po' sulla scrivania. Prima o poi lo leggero'.

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  3. Questo autore mi attira molto, credo che le sue storie potrebbero piacermi. Proverò, magari prima con l'altro.

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