Corrono
gli anni dei film di Romero e del Vietnam. È la
notte del trentuno e tre amici inseparabili, in compagnia dell’ultimo
arrivato, l’hanno fatta grossa. In fuga dai bulli, si
rifugiano dove nessuno andrebbe a fare dolcetto o scherzetto: una
casa infestata. C’entrano una bambina prigioniera nello scantinato e il classico
libro scritto con sangue umano, che pagina dopo pagina svela nuove
vittime fra i giovani protagonisti. Si animano gli spaventapasseri
nei campi di grano. I ragni sbucano sottopelle. Corpi disarticolati
attentano dietro le sbarre e, nei lunghi corridoi degli ospedali, aspettano i mostri. Perfetto per Halloween, Scary Stories to Tell in the Dark attirerà in sala
il pubblico più rumoroso – gli adolescenti – e gli
spettatori affezionati al culto di Stranger Things. Pensato
per intrattenere i Millennial, il ritorno al cinema del regista
diThe Autopsy of Jane Doe segue la moda delle
antologie a tema e della retromania dilagante. Il
risultato, leggerissimo e con un sottotesto politico dal
retrogusto agrodolce, somiglia a un’indagine vecchio stile della
Misteri e affini. Prodotte da Guillermo Del Toro, le più
popolari storie da falò prendono vita per raccontarcene infine una
non così inedita. Di quelle da sussurrare al
buio, ma da vedere senza il bisogno della luce accesa. Non
spaventeranno, infatti, neppure i giovanissimi. (6)
Cose
da non fare in caso d’uragano: passare a casa di tuo padre per
chiedergli se è tutto bene su consiglio della sorella maggiore. E
scoprire che è ferito in cantina, in balia di onde anomale e di rettili
primordiali – con tanto di dolce cagnolina da salvare. Per quanto
non sia un amante di questi horror acquatici nello stile di Paradise
Beach, Crawl sa come diventare un’appassionantissima
declinazione del genere home invasion. Può vantare un’invidiabile
gestione dell’alta tensione, senza esagerare con arti mutilati,
effetti splatter e sobbalzi; effetti visivi di gran livello; una prova
convincente da parte della protagonista, la sfortunata Kaya
Scodelario. Il merito maggiore, però, spetta alla regia di Alexandre
Aja: nonostante qualche passo falso commesso in passato, finalmente
sotto l’egida del produttore Sam Raimi, il francese torna a ricordarci
di saperci fare in fatto di morti ammazzati e nefandezze a fantasia.
C’è poco altro sotto la superficie, a parte il classico rapporto conflittuale padre-figlia, ma Crawl – umido e claustrofobico, senza
tregua – fa il suo dovere. Prima di comprare una casa accanto alla
palude, da oggi ci penseremo su due volte. E consulteremo più
attentamente il bollettino meteorologico. (7)
Una
coppia di genitori disperati si affida a un farmaco sperimentale per
salvare il loro bambino, allergico al mondo esterno. L’ultima spiaggia, una
clinica privata perduta nelle nebbie, somiglia proprio a una casa stregata. E
ben presto il paziente inizia a mostrare segni di debolezza fisica e
psicologica, stranezze. Sono le controindicazioni della terapia, o
c’è dell’altro? Protagonista della versione horror di Noi
siamo tutto, Eli sarà messo in allerta da una coetanea:
dall’istituto, infatti, sono passati bambini simili a lui – senza
mai uscirne. Atipica ghost story coprodotta dalla Paramount, può
contare su un’ottima atmosfera, buone interpretazioni femminili –
Kelly Reilly e Lili Taylor, sempre piacevoli da ritrovare –,
piccoli grandi indizi all’insegna di un finale che fa fuoco e
fiamme. L’effetto sorpresa è assicurato in molti casi, ma
personalmente avevo indovinato il colpo di scena in anticipo. La
visione, per fortuna, non ne perde affatto in gradevolezza,
risultando un intrattenimento molto più godibile della media. Una
variazione sul tema forse abusata ma affrontata da una prospettiva
opposta, in cui i bambini in pericolo hanno nomi in assonanza con la
parola “lie” e per sopravvivere al mondo servono bugie e
anticorpi. (6,5)
Non
ci si poteva aspettare altro da Babak Anvari, regista iraniano già
amato-odiato ai tempi di Under The Shadow. Tornato al Sundance
con il suo primo film statunitense, lascia l’Oriente per New
Orleans ma non rinuncia
alla suggestione. Horror di difficile comprensione, Wounds
racconta delle ferite metaforiche di Armie Hammer: perdigiorno
alcolista e traditore, diviso tra Dakota Johnson e Zezie Beetz. In
ordine sparso lo affliggono: un’invasione di scarafaggi,
escoriazioni di natura misteriosa, messaggi di morte recapitati da
sconosciuti. Che lo si voglia leggere come un ordinario racconto di
possessione soprannaturale o allegoria di qualcos’altro – un
disagio che serpeggia nel profondo della coppia, la dipendenza da
alcol –, Wounds si rivela un interessantissimo prodotto
festivaliero. Spiazzante e audace, a metà fra Kafka e Bukowski,
garantisce un delirio acustico e visivo capace di dividere il
pubblico. Il protagonista, immerso totalmente nelle sue ricerche pur
di dare un senso a un’esistenza vuota, troverà l’illuminazione o
la disfatta? Restano più domande che risposte. Tante
interpretazioni: tutte valide e tutte sbagliate. Troppo
impenetrabile, l’ho seguito spinto da una fascinazione morbosa.
L’ho compreso a sprazzi e con il senno di poi. Ma mi è piaciuto, sì, o almeno credo. (7)
Costretta
a ritirarsi per la decenza della madre, una violoncellista di talento si
rimbocca le maniche pur di riprendersi il posto che le spetta. In un territorio ostile, la
protagonista scopre di avere una rivale: entra in competizione con
lei, ma ne è attratta. Possibile frenare le scene bollenti se si
parla delle bellissime Allison Williams e Logan Browning? Sexy e
ributtante, sconsigliato agli ipocondriaci, The Perfection parte
con un sofisticato prologo a Shangai e ci conduce poi verso l’ultima frontiera della competizione. Impossibile
comprendere in anticipo dove andrà a parare. Altrettanto frenare le
domande e il raccapriccio davanti agli efferati cambi di scenario,
rotta e protagonista – chi è la buona e chi la cattiva, e dalla
scuola di cui sono entrambe le stelle sarebbe meglio far di tutto
per entrare oppure uscire? Mix febbricitante ma irresistibile,
The Perfection fa il suo sporco lavoro con colpi di scena a
raffica, un montaggio pazzo, sequenze di disfacimento fisico e
morale. Il thriller di Shepard prende le mosse sulla scia del
Cigno nero, per poi trasformarsi in un bagno di emoglobina a
tinte trash, su cui pattinano personaggi chiamati alle vendette
trasversali e ai duetti folli. Voi saprete contenere succhi gastrici,
divertimento e orrore? (7,5)
Dopo
Shining soltanto Stephen King, qui in collaborazione con il figlio
Joe Hill, poteva immaginare un labirinto tanto singolare. Dopo The Cube
soltanto il sottovalutato Natali, abilissimo ma a corto di progetti,
poteva renderlo così claustrofobico. Partito sotto i migliori
auspici, infatti, Nell’erba alta contava su uno
spunto originalissimo e un regista a proprio agio con ambienti
asfittici e relazioni torbide. Cosa ci fanno la famiglia
dell’inquietante agente immobiliare Patrick Wilson e una ragazza
incinta di sei mesi, in viaggio con il fratello, in un singolare dedalo
verde dove il tempo e lo spazio hanno leggi imperscrutabili? Se al
centro del labirinto c’è anche un misterioso monolite, le battute
sull’erba – quanta ne hanno fumata per inventare questo
guazzabuglio indigeribile? – potrebbero sprecarsi durante la
visione. Trip senza fine, sontuoso dal punto di vista visivo, il
racconto del Re diventa un horror psicologico dal pollice verde e
dagli spunti oscuri. Servivano francamente qualche chiarimento in più
e qualche sacrificio stucchevole in meno. Impossibile uscirne sani e
salvi. E venirne a capo? Nel dubbio, cambiate strada all’ultimo
minuto e, sul tema riti pagani e natura, guardate Apostle. (5)
Il
medico Gleeson, la matriarca Rampling, i figli
Ruth Wilson e Will Poulter. Dirige Lenny Abrahmson. Alla base: un
gotico firmato da Sarah Waters, di recente portata anche a Cannes da Park Chan-wook. Possibile, date le premesse, che
L’ospite sia stato destinato in Italia direttamente allo
streaming? Il perché, dato un film senza grandi demeriti, resta un
mistero. Tragedia familiare dalle atmosfere angoscianti,
racconta della fascinazione del protagonista verso una casa in
rovina: anziché fuggire, ne è attratto – galeotti l’amore verso
la primogenita da trarre in salvo e i ricordi di un’infanzia
trascorsa, al contrario, in completa povertà. Immerso in scenari che
ricordano il soggiorno a Hill House, il film britannico fa
proprie psicosi, malanni ereditari, stanze anguste. Il paranormale ci
metterà lo zampino soltanto nell’ultima mezz’ora, con porte
sbattute all’improvviso, scampanellate notturne, scritte sui muri.
Austero sotto ogni punto di vista, dal cast superbo alle scenografia,
ha ritmi lentissimi e una regia ora incantevole, ora asfissiante. Non
meritava l’oblio, però, nonostante una chiusa frettolosa. Somiglia
proprio, infatti, a una di quelle magioni in rovina che conservano a
sorpresa il loro fascino polveroso. (7)
Cresciuto
dalla mamma single, James è un piccolo lord, pettinato con la riga
di lato e sempre ben vestito. Senza amici, ha paura de ragni e di
ricominciare altrove dopo un trasferimento improvviso. E non deve assolutamente
giocare nei pressi della voragine che si apre al centro del bosco
dietro casa. Disobbedisce, ovvio, e niente sarà più lo stesso. Ma
le stranezze, crescenti giorno dopo giorno, le percepisce soltanto una mamma sull’orlo
di una crisi nervosa o sono forse reali? Forte dei paragoni ingannevoli
con The Babadook e della notevole somiglianza tra il bambino e
Haley Joel Osment, The Hole è un horror a basso budget che
raggiunge il massimo risultato con il minimo sforzo. Discreta
macchina di tensione, con un’ottima interprete nel ruolo di
protagonista, a ben vedere ha però un’introspezione psicologica
appena accennata – il difetto maggiore è che manca di qualsiasi
doppiezza o ambiguità – e una trama, con tanto di finale mordi e
fuggi nelle grotte di The Descents, che rimesta alla cieca nel mito dei
changeling e nei classici horror di ragazzini maligni e madri
al limite. Non gli si vuol male, ma avremmo tutti fatti a meno della
distribuzione in sala o dei confronti con una regista, Jennifer Kent,
contro i cliché. (5,5)
Un’altra
mamma single, un altro bambino con amici che stanno sulle dita di una
mano. L’evasione non avviene grazie alle scorribande nei boschi,
bensì con un giocattolo che già conosciamo tutti: l’iconico Chucky,
incubo di generazioni vicine e lontane. Ritornato in un remake non
richiesto, il rimodernamento della bambola infernale preferisce
concentrarsi sulla dimensione infantile anziché su quella
orrorifica. Il rinnovo generazionale, per fortuna, chiama comunque
all’appello omicidi sanguinosissimi e un doppiatore d’eccezione,
Mark Hamill, ad animare un villain per il resto non troppo
convincente dal punto di vista estetico. Al tempo di Stranger
Things e Black Mirror, i bambini sono ricettivi e gli
adulti appaiono ciechi davanti all’evidenza; la crudeltà di Chucky
non dipende da una possessione demoniaca, bensì da un
malfunzionamento tecnologico. Preceduta da un geniale battage
pubblicitario che faceva a pezzi i personaggi di Toy Story, la
nuova Bambola assassina è una commedia nera scoppiettante ma
prevedibile dall’inizio alla fine. Ben recita, capace di indovinare
target ed equilibri, resta poco incisiva ma tanto è bastato a
far gridare all’eccezione alla regola pubblico e critica, al cospetto di un remake al passo con i tempi. Ma se il gioco cambia estetica, le regole restano le
stesse. (6)
Nell’era
segnata dall’influenza dei cinecomic, ne sa qualcosa il caro Martin Scorsese, quanto poteva essere geniale un’idea del genere: prendere un eroe dei
fumetti, amato da grandi e piccini, e trasformarlo questa volta nell’antagonista
della storia. Il coraggioso Clark Kent, così, sbarcato da un pianeta
lontano e adottato da una famiglia di amorevoli campagnoli, si trasforma in un
bambino sfrenato e dispotico: respinto da una coetanea, irritato
dalle bugie dei genitori, minaccia di usare i suoi poteri per i fini
peggiori. Esisterà anche qui l’equivalente della kryptonite? Tipica storia
sulle origini di un atipico supereroe, a Brightburn si
chiedeva poco. Amaramente, il film prodotto da James Gunn osa dare perfino
meno del previsto. Di scarsissime pretese, con un svolgimento indegno
dell’assunto di base, ha un cast non di primo taglio – fa
eccezione giusto Elizabeth Banks – e un Omen dotato di raggi laser negli occhi,
meno carismatico e più caciarone dell’infante diabolico del
classico di Richard Donner. Inutile accanirsi ulteriormente: questo volo nel lato oscuro lo
abbiamo già scordato. (4)