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martedì 27 dicembre 2016

Recensione: Mi chiamo Lucy Barton, di Elizabeth Strout

La vita mi lascia sempre senza fiato.

Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autrice: Elizabeth Strout
Editore: Einaudi
Numero di pagine: 158
Prezzo: € 17,50
Sinossi: Da tre settimane costretta in ospedale per le complicazioni post-operatorie di una banale appendicite, proprio quando il senso di solitudine e isolamento si fanno insostenibili, una donna vede comparire al suo capezzale il viso tanto noto quanto inaspettato della madre, che non incontra da anni. Per arrivare da lei è partita dalla minuscola cittadina rurale di Amgash, nell'Illinois, e con il primo aereo della sua vita ha attraversato le mille miglia che la separano da New York. Alla donna basta sentire quel vezzeggiativo antico, "ciao, Bestiolina", perché ogni tensione le si sciolga in petto. Non vuole altro che continuare ad ascoltare quella voce, timida ma inderogabile, e chiede alla madre di raccontare, una storia, qualunque storia. E lei, impettita sulla sedia rigida, senza mai dormire né allontanarsi, per cinque giorni racconta: della spocchiosa Kathie Nicely e della sfortunata cugina Harriet, della bella Mississippi Mary, povera come un sorcio in sagrestia. Un flusso di parole che placa e incanta, come una fiaba per bambini, come un pettegolezzo fra amiche. La donna è adulta ormai, ha un marito e due figlie sue. Ma fra quelle lenzuola, accudita da un medico dolente e gentile, accarezzata dalla voce della madre, può tornare a osservare il suo passato dalla prospettiva protetta di un letto d'ospedale. Lì la parola rassicura perché avvolge e nasconde. Ma è nel silenzio, nel fiume gelido del non detto, che scorre l'altra storia.

                                                La recensione
Qualche giorno fa mi sono fatto una passeggiata fino alla biblioteca comunale. Lì prendo i romanzi che desidero ma, in fondo, temo. Mi sono avvicinato per la prima volta, così, alla premiatissima Elizabeth Strout. La vincitrice del premio Pulitzer per Olive Kitteridge – raccolta di racconti che non ho letto, ma di cui ho profondamente amato la miniserie HBO – mi intimoriva, così come accade con quegli autori celebrati, noti, di cui credi di non essere all'altezza. E se non mi piace, ti domandi, che brutta figura ci faccio? E se la trovo troppo complessa, soprattutto in giorni in cui ho la testa altrove, come rimedio al disappunto? Sono partito dall'ultimo, Mi chiamo Lucy Barton, anche perché sullo scaffale, di suo, non restava che quello. Aveva un prezzo esorbitante per un centinaio di pagine e una storia semplice, di madri e figlie. Rassicurato dalla sua brevità, con dicembre agli sgoccioli, potevo aggiungere un altro romanzo alla lista di quelli letti e, magari, scoprirlo tanto bello da non poterne fare a meno. Preso in prestito, mirava alle classifiche di fine anno e ai prossimi acquisti. 
Tanta reverenza per nulla: la Strout, schietta ed essenziale come la sua lunatica Olive, non ti fa pesare neanche una delle centocinquanta pagine totali; immagino che in futuro potrò dire lo stesso anche dei suoi romanzi più corposi. E, per nulla, tanto rumore: mi fa piacere averla letta, ma mi spiacerà poco restituire il libro alla bibliotecaria. La trama, piccolo pretesto per un grande esercizio di stile, segue il soggiorno della protagonista in un ospedale affacciato sugli sfavillanti grattacieli newyorkesi. Sono gli anni '80 – quelli del boom di Wall Street, quelli di un male che stava decimando la comunità omosessuale – e Lucy, scrittrice, è ricoverata per le complicazioni di un'appendice infiammata. Bloccata a letto, ribattezza a fantasia il personale ospedaliero, pensa alle sue bambine e, tra il sonno e la veglia, si gode le attenzioni della madre. Parlano del più e del meno, ricordano gli abitanti più sfortunati e bizzarri delle campagne da cui Lucy è scappata e, conversando, popolano quella camera asettica di ricordi piacevoli e spiacevoli. La narratrice ama le storie per deformazione professionale e ci racconta un po' la sua: da un'infanzia trascorsa nella miseria a un'adolescenza ribelle, dal matrimonio con un accademico alle lezioni di scrittura creativa. 
Tra mamma e figlia, però, abbonda il non detto. Abusi da parte di un padre lasciato fuori, o semplice vergogna per l'aria di provincia che l'anziana si porta ancora addosso e che Lucy si è lasciata alle spalle studiando? C'è qualcosa che le due non sanno dirsi. E ho avuto l'impressione che quegli spazi bianchi, quei puntini di sospensione, avessero perfino più significato del resto. Impossibile sapere cosa contengano, tuttavia, sapendo ben poco dei loro segreti di famiglia. E, uscita di scena la madre, sul finale, il romanzo accenna a divorzi, successi editoriali e terrorismo all'ombra fantasma delle Torri Gemelle. Mi chiamo Lucy Barton alterna passaggi da sottolineare mille volte a capitoli da telegramma. Brilla per il mastodontico Chysler alla finestra e per una scrittura sapiente, maltrattata da una traduzione sommaria nel passaggio dalla Fazi alla Einaudi. Questo – penso alle praterie di Benedizione, alla Napoli sismica di Palazzokimbo, alle verità di Lettera a Dina – è stato l'anno in cui ho scoperto la potenza delle storie belle proprio perché non parlano di niente di che. Mi chiamo Lucy Barton si unisce al trio, però risulta aneddotico, irrisolto, frammentario. La scusa ufficiale: che è troppo femminile, troppo adulto, per il sottoscritto. Non sono partito dal romanzo migliore, da quel che leggo. Di ben altra opinione, però, sono i cultori della Strout, che in rete si danno a parafrasi, interpretazioni e analisi meticolose. Dalla mia, penso che i romanzi belli non vadano né spiegati né giustificati: che bisogno c'è? E, se posso, dico che questa saga familiare a spizzichi e bocconi non l'ho capita; non fino in fondo.
Il mio voto: ★★★ 
Il mio consiglio musicale: Simon & Garfunkel – The Sound of Silence

14 commenti:

  1. Sto scrivendo ora la mia recensione su questo romanzo che a me è piaciuto molto. Non sono una fan sfegatata dell'autrice, di lei ho letto Amy e Isabelle e I ragazzi Burgess (che peraltro non mi è piaciuto ), ma questo romanzo, decisamente diverso dai precedenti, mi ha colpito per la sua dolcezza e per quei non detti che stemperano il dramma. Troverai i romanzi corposi molto diversi, e forse ti piaceranno di più, è solo una questione di gusti!

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    1. Non so quale sia stato il problema, Tessa. Sono reduce dalla lettura dello straordinario Indignazione, e di pagine ne ha meno ancora eppure è perfetto così. Qual era il punto, in Lucy Barton? L'ho trovato piacevole da leggere, ma frustrante.

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  2. Io l'ho trovato un bel romanzo sul perdono. Ho apprezzato l'assenza di rabbia, di recriminazioni sul passato doloroso. Potevano venire fuori 400 pagine di dialoghi al vetriolo tra madre e fioglia, ho amato la scelta del silenzio e del non detto. E ho provato infinita tenereza per lucy e il suo bisogno di essere amata. Ma, ripeto, è una questione di gusti!

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    1. Ti è piaciuto così tanto, e si sente, che hai convinto anche me. Non vedo l'ora di leggere il tuo post. ;)

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    1. Un altro romanzo che voglio, anche se Olive - ahhh, quanto ho stimato Olive - ha la precedenza!

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  4. Ah ecco, è quella della fantastica Olive Kitteridge! Mi sembrava di averla già sentita...
    L'ambientazione anni '80 di questo sembra promettente, peccato non si sia rivelato, almeno per te, niente di memorabile.

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    1. E, ti dirò, mi è stata antipatica anche la protagonista.
      Non che Olive Kitteridge fosse uno zuccherino, eh, ma nella sua scontrosità (esiste, come sostantivo?) era una meraviglia.

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  5. questo mi è stato consigliato. credo che proverò, anzi mi sa che devo iniziare a stilare una lista dei libri da leggere nel 2017 così non lo dimentico ^_^

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  6. ne ho lette di recensioni di questo libro... devo assolutamente leggerlo a questo punto!

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    1. Tocca farsene un'opinione. A distanza di giorni, posso dire che mi ha lasciato pochissimo.

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  7. Non ho ancora letto nulla dell'autrice.. magari parto da un altro titolo!

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