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venerdì 29 marzo 2024

Recensione: La mia Ingeborg, di Tore Renberg

| La mia Ingeborg, di Tore Renberg. Fazi, € 18, pp. 180 |

In una vecchia casa di legno, in una Norvegia sferzata dal vento di un inverno perenne, un vecchio si racconta. Le assi di legno scricchiolano, ma le sue ossa stanche di più. Indolenzito, forse gravemente malato, si è forzato a tagliarsi la barba, a indossare camicia e pantaloni eleganti, a camuffare il sentore di alcol della bocca. Come il patriarca della famiglia Usher in un classico dell'horror di Edgar Allan Poe, braccato dai cani neri del sensi di colpa, dialoga con gli spettri del passato e attende ospiti con cui sgravarsi la coscienza: i suoi ragazzi sono ormai irriconoscibili, lontani. La verità li renderà finalmente liberi? O li rovinerà definitivamente? È una storia d'amore e morte, la sua. Una storia di ottusa resistenza al progresso, percepito alla stregua di una donna lasciva e provocante. Abbarbicato nella parte alta della valle, chiuso a qualsivoglia novità, in gioventù ha trasformato quel paesaggio di troll e altre leggende folkloristiche in un nido da proteggere. Con lui lo divideva l'amata Ingeborg: la donna, infermiera traboccante di vita e stimata da tutto il paese, amava le giornate di sole e i cespugli pieni di bacche.

Quando due persone si incontrano e cadono uno nelle braccia dell'altra, allora la terra trema e succedono cose meravigliose.

Il loro era un matrimonio appassionato, nonostante le diversità caratteriali, ma la donna si era improvvisamente incupita dopo la partenza della prole per l'università. Da quando non è più tornata da una passeggiata nella brughiera, tutto si è perso. Anche il rapporto con i figli biologici: il maschio remissivo e melenso; la femmina attivista e bisessuale. Per fortuna c'è Oddo, affetto da un grave ritardo intellettivo, che dorme nella stalla e cuce reti da pesca: cresciuto come un terzo figlio, è l'unica persona su cui Tollak riversa la poca tenerezza posseduta. Per fortuna c'è ancora e per sempre, nonostante tutto, Ingeborg: un fantasma seminudo nella camera da letto; il pupazzo di un ventriloquo, la cui voce risuona come la coscienza dello stesso protagonista. C'è qualcosa di marcio nel romanzo di Tore Renberg. Di marcio e attraente. Potentissimo e oscuro, fitto di segreti agghiaccianti, somiglia più a una confessione che a una rimpatriata familiare. Lo esemplifica ad arte la copertina italiana, in cui due sagome intrecciate in un tango della gelosia galleggiano su uno sfondo rosso passione; rosso sangue. La mia Ingeborg somiglia preoccupantemente a una delle tante notizie di cronaca, ma si legge con la fascinazione dei classici del gotico. Il protagonista, sfidando la lingua impastata dagli alcolici e la reticenza dei montanari, non vuole preti alla sua presenza. Non crede nello spauracchio del paradiso e, sibila acidamente, non ci crederà neanche nell'ora fatale. Tuona, così, contro la scomparsa delle segherie; le bugie dei giornali e della TV; i cellulari che ipnotizzano e rintronano i nipotini; gli sconvolgimenti climatici, i ristoranti etnici, gli uomini troppo effeminati. Con una voce simile a un coltello nelle costole, ci renderà tutti complici di un narratore magnetico ma irredento. Dirà tutta la verità, nient'altro che la verità. E mai in sua difesa.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: CCCP – Amandoti

lunedì 25 marzo 2024

Piccolo schermo, grandi star: Supersex | True Detective S04 | Expats | Lezioni di chimica

Quando insegnavo a Ortona, si percepiva l'eco della sua notorietà. Rocco Siffredi era un supereroe. Piace, dunque, la scelta di raccontarlo come il personaggio di un fumetto: il suo potere lo porterà lontano. Lo interpreta Alessandro Borghi, bravissimo nel catturarne l'accento e la risata nasale; impavido, e a giusta ragione, nel nudo. Sentimentale e animalesco, provinciale e cosmopolita, raccoglie le confessioni dell'uomo dietro il pornodivo: Siffredi è stato un funambolo sospeso tra eros e thanatos; uno degli ultimi testimoni di una generazione folle e trasgressiva, cannibalizzata dall'ignoranza verso la malattia (ruba la scena l'amica storica Moana Pozzi, dagli occhi tristi e dalle parole sibilline). Ottimamente recitata, ma didascalica e discontinua, la serie Netflix si affida troppo al talento dei protagonisti. Delude la sceneggiatura, che parla poco di sessualità; molto di famiglie disfunzionali; troppo di piccola criminalità (il fratellastro Giannini ha una storyline inutilmente ampia). Pop ma seriosi, gli episodi non hanno né la malinconia decadente di Shame, né la verità di Pleasure. Risultano superflui nelle tinte crime e frettolosi nell'epilogo. Affascinanti, invece, i personaggi femminili: donne fittizie (fatta eccezione per la moglie Rosa), che incarnano nei corpi e negli sguardi diverse facce del desiderio, dell'amore, dell'intimità. Se la modella Linda Caridi si conferma incantevole, a restare impressa è la cognata Jasmine Trinca: irraggiungibile, è l'occasione mancata, il chiodo fisso, una vittima del maschilismo che ne ha fatto una prostituta anziché una diva. In una storia di “cazzi e pistole”, insomma, hanno la meglio gli occhi delle donne. Bramati, pretesi, mai compresi (a partire da quelli, inflessibili, di una madre in lutto), fotteranno perfino colui che voleva fottere il mondo. (7)

È in Alaska, in un periodo dell'anno in cui la notte si confonde col giorno e il gelo è perpetuo, che prende le mosse la quarta stagione di True Detective. Questa volta è tutta al femminile e le tinte, con tanto di citazione al classico di John Carpenter in apertura, sono ineditamente horror. È pur sempre un poliziesco classico, solido: non aspettatevi il paranormale. I fantasmi sono quelli della solitudine e della malattia mentale. La suggestione è legata al folklore della comunità Inuit. Il caso, spaventoso, ruota attorno alla morte per congelamento di un gruppo di scienziati: analizzavano i ghiacci in cerca di un miracoloso microrganismo. Chi o cosa hanno scomodato con le loro ricerche? Come sono legati all'omicidio irrisolto di una giovane attivista in lotta contro la miniera locale? Indagano la rediviva Foster e la rivelazione Reis: la prima ex mangiatrice di uomini segnata dalla tragedia, l'altra sbirra spirituale e anticonformista, hanno età e metodi agli antipodi. Le uniranno un segreto scomodo, la solidarietà tra donne e una giovane leva da guidare, interpretata da un bravissimo Finn Bennett che, seppure in sordina, ruba spesso la scena alle due giganti. Più lineare e meno prolissa delle stagioni precedenti, si imbastardisce un po'. Accetta le contaminazioni, il femminismo hollywoodiano, le riflessioni ecologiste. I fan coi paraocchi, uomini in maggioranza, la stroncano. Ma, pur non essendo memorabile, si difende benissimo schierando un duo affiatato, ambientazioni affascinanti e, soprattutto, una dimensione familiare e umana che, a dispetto delle temperature artiche, la rendono la stagione più calorosa delle quattro. (7)

Le esistenze di tre donne si intrecciano a Hong Kong. In Cina c'è aria di rivolta. I giovani, barricati sotto gli ombrelli, condividono slogan e canzoni. Sono in rivolta anche le protagoniste (una americana, una indiana, una coreana), che mettono tutto in discussione all'indomani di una tragedia. Meglio tornare indietro o restare? Antipatiche, privilegiate, talmente umane da apparire sgradevoli, sono pessime nei rapporti interpersonali: le colf, viste ora come confidenti e ora come rivali, gestiscono case e famiglie al posto loro. Il quinto episodio, quasi un film a sé stante, si apre ai ritornelli dei manifestanti, alle nostalgie delle domestiche, ai comprimari nell'ombra. I restanti, meravigliosamente diretti da Lulu Wang, costituiscono un reticolo di femminilità a confronto. In questa miniserie, destinata a restare tra le migliori dell'anno, c'è chi ha perduto un figlio, chi non lo vuole, chi lo aspetta ma da un amante occasionale. Dolorosamente bello, il dramma di Expats mostra le risate isteriche in obitorio, gli incantesimi del make-up per nascondere i lividi della violenza domestica, i pianti catartici che spezzano le maledizioni. Amiche per affinità, nemiche per caso, le attrici protagoniste fanno a gara di intensità. E Nicole Kidman, qui struggente mater dolorosa, è così solidale da permettere alle sorprendenti Serayu Rao e Ji-young Yoo di brillare. Inscenato su uno sfondo esotico, il loro ritorno alla vita si interroga sul significato della parola “casa”; riempie i silenzi con le canzoni di Blondie, Adele e degli Abba; insegna che il dolore e il senso di smarrimento, così come certi misteri, non saranno mai archiviati. Ci si può convivere: a patto di non tremare quando non vedremo più la terraferma all'orizzonte. È lungo, il viaggio dell'elaborazione. Ma, costrette insieme a bordo, Nicole e le altre si scopriranno non più straniere a loro stesse. (8)

Cosa ci fa una scienziata alla conduzione di un programma di cucina per casalinghe disperate? Cos'è accaduto affinché una donna solitaria, fredda e razionale si trovasse (autentico scandalo, nei rigidissimi anni Cinquanta) con una figlia a carico e senza un marito? Scopritelo in una serie dolcissima e di buoni sentimenti, di cui invidierete gli outfit dai colori pastello e gli appassionati monologhi sul female empowerment. Certo, a volte la carne al fuoco risulta troppa: femminismo, questione razziale, origini familiari; all'appello c'è perfino un episodio raccontato dal punto di vista di un cagnalone divorato dai sensi di colpa. Ma in Lezione di chimica, dramedy ispirata all'omonimo bestseller edito Rizzoli prontamente finita fra le mie preferite del 2023, l'attrice Premio Oscar Brie Larson si rivela essere una padrona di casa arguta e volitiva, a cui vorrete in fretta un gran bene, e il romantico collega Lewis Pullman una rivelazione ingiustamente snobbata nella stagione dei premi maggiori. La scienza non ha tutte le risposte. In una reazione chimica contano anche l'inevitabile, l'inatteso. E in un incontro, in un amore, conta sempre la predestinazione. La miniserie Apple TV è un chicca per gli spettatori nostalgici di The Marvelous Mrs Maisel, ma anche anche gli orfani inconsolabili di This is us. Ci troverete la stessa energia, la stessa magia. (7,5)

lunedì 18 marzo 2024

Recensione: Le nostre mogli negli abissi, di Julia Armfield

| Le nostre mogli negli abissi, di Julia Armfield. Bompiani, € 18, pp. 250 |

Il sangue e il mare hanno una composizione chimica simile. Le prime forme di vita sono nate dall'acqua: nelle nostre ossa abbiamo un po' del sale dell'oceano. Leah, biologa, è cresciuta ascoltando questi e altri aneddoti. Intrigata dai misteri degli abissi, li ha raccontati anche a Miri, sua moglie, facendone fiabe della buonanotte piene di zanne e tentacoli. Parimenti incantevole e sinistro, il primo romanzo di Julia Armfield è un diario di bordo su una coppia e un sottomarino condannati alla deriva. A capitoli alterni ci spingiamo nei pensieri delle due protagoniste, con il desiderio inquieto di assemblare una a una le tessere di un puzzle dal disegno confuso. Leah, partita per una missione a diecimila metri di profondità, torna a casa dopo cinque mesi di assenza: costretta in uno spazio ristretto con altri due scienziati, disorientata dal buio pesto e dalle istruzioni dei capispedizione, si è spinta in un luogo infestato in cui, contro ogni pronostico, c'era vita. Fragile e ipocondriaca, tormentata dal pensiero della malattia genetica che ha recentemente ucciso la madre, Miri elude invece l'attesa fantasticando sui vicini di casa rumorosi e visitando forum su ragazze scomparse.

Sai, mi piace entrare al cinema quando c'è ancora luce e uscire quando fuori è buio. Mi fa pensare al fatto che la città non è mai la stessa. Cioè, al fatto che tutto cambia. Ogni sera, ogni minuto, qualcosa finisce e non sarà più come prima.

Quando Leah viene tratta in salvo, Miri la aspetta a braccia aperte all'uscita del Centro. Ma l'altra, elusiva, non ricambia la stretta: rifiuta cibo e carezze, soffre di epistassi, ha un colorito insalubre, fa scorrere l'acqua della vasca per tutta la notte. Irraggiungibile, sembrerebbe essere divorata dalla nostalgia. Ma di cosa? Perché Leah, così prodiga di storie in passato, glissa proprio sull'ultima che ha vissuto? Ai primi appuntamenti si scambiavano baci al gusto popcorn, guardando i classici di Bava, Cronenberg e Spielberg. Alle feste indossano vestiti che le avvolgono come bozzoli di una crisalide. Nei loro incubi perdono i denti e ospitano larve nell'incavo delle guance. Sul pannello di controllo del sottomarino, immancabile, troneggia un portafortuna a forma di Chtulu. Le nostre mogli negli abissi ha le caratteristiche dei sad hot girls, ma padroneggia il lessico dei body horror. Perfino con il peggio in atto le protagoniste cercano disperatamente di ripristinare l'antica normalità. Stavolta in bagno, utilizzando il water come base d'appoggio, continuano a rifugiarsi in film di serie B che trattano di invasioni, scuoiamenti, metamorfosi.

Il problema non è che è stata via, è che durante la sua assenza non c'era niente di normale. Non è dura perché è tornata, è che non sono sicura che sia tornata davvero.

Servono gli horror per ricordarsi di un amore totalizzante, a tratti violentissimo nei litigi. Servono gli horror per raccontarsi i corpi fusi nel culmine del sesso o la miracolosa banalità del tenersi per mano: quando si è vicini, infatti, l'arto del partner sembra un'escrescenza spuntata direttamente dai nostri tessuti. Ho letto di loro in apnea, sul chi vive. Affascinato dalla voce di sirena dell'autrice e angosciato dall'andamento di un romanzo in cui, anche a poche pagine dalla fine, si resta in attesa di un guizzo sotto il pelo dell'acqua. All'apparenza non succede niente di rilevante; in superficie non si intravedono che lievi increspature. Cosa accade però negli abissi? Tra le righe? È laggiù che si agitano i significati di una storia lugubre e quiescente, dal linguaggio cifrato, in cui i giorni perdono di senso e l'amore coniugale minaccia di sciogliersi in una massa cangiante a causa di una convivenza forzata. Niente è più lo stesso. Nessuna è più la stessa. Al centro di una terapia di coppia su come elaborare le diverse consapevolezze maturate in una relazione a distanza, le due mogli osservano i loro anniversari da un oblò e, dopo averlo sfidato controcorrente nel tentativo di opporsi al divenire naturale della vita (e della morte), assecondano il moto delle onde. E rompono la veglia a cui hanno condannato i loro lettori, ormai commossi, con una parabola in cui non è importante che gli amori siano eterni, purché ci insegnino a nuotare.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Olivia Rodrigo - Vampire 

lunedì 11 marzo 2024

Recensione: My Dark Vanessa. Mia inquieta Vanessa, di Kate Elizabeth Russell

| My Dark Vanessa, di Kate Elizabeth Russell. Mondadori, € 15, pp. 384 |

Una quindicenne dall'indole malinconica e dai lunghi capelli rossi stringe una relazione con il suo professore di letteratura, quarantaduenne che riserva carezze di carta vetrata alle sue studentesse più talentuose. È una vicenda di sopraffazione psicologica, potere, ossessione. Non una storia d'amore. Ma come raccontarla agli altri se perfino colei che l'ha vissuta preferisce definirsi complice di una tormentosa folie à deux, anziché vittima inerme? Abituata a essere invisibile, orgogliosa delle proprie stranezze e dei propri dolori, Vanessa legge troppo (soprattutto il conturbante Nabokov, di cui custodisce gelosamente una copia annotata) e vive troppo poco, fin quando le attenzioni di un adulto non la rendono finalmente protagonista di una storia. Una storia alla Lolita, per di più, il suo romanzo preferito, in cui una giovane ninfetta esercita il suo fascino seduttorio sul patrigno soggiogato. Almeno illusoriamente. Non è sempre facile riconoscere un predatore sessuale quando lo si ha davanti, e il goffo professor Strane sembra diverso. E la fa sentire diversa. Ma all'indomani del caso Weinstein, una schiera di donne insorge e denuncia gli abusi subiti. Vanessa potrebbe diventare la loro portabandiera. Ma la consapevolezza che Strane abbia fatto lo stesso ad altre la riempie non di orrore, bensì di una bruciante gelosia. Non era, dunque, l'unica?

Quando io e Strane ci siamo conosciuti, io avevo quindici anni e lui quarantadue, poco meno di trent'anni tondi a separarci. È così che all'epoca definivo la nostra differenza di età: perfetta. Mi piaceva la relazione numerica tra i nostri anni, i suoi tre volte i miei. Mi immaginavo tre piccole me che trovavano posto dentro di lui: la prima avviluppata al cervello, la seconda al cuore, la terza liqueffatta a scivolargli nelle vene.

In giorni in cui mi sono trovato a riflettere sulla violenza di genere in classi di quasi solo ragazze, ho letto quest'esordio molto dibattuto qualche anno fa: un romanzo scomodo e incisivo, dal punto di vista sdrucciolevole, sulla catabasi di un'altra promising young woman nel sessismo dell'ambiente accademico americano. Sono i primi anni Duemila. Spaventati dalla vicina strage del liceo Columbine, gli adolescenti benestanti frequentano le scuole private. Il loro mito è Britney Spears, candida ma ammiccante, adulta ma bambina, che in un iconico videoclip non trattiene l'impazienza per il termine delle lezioni. La parabola discendente della protagonista somiglia a quella del popstar, strumentalizzata dai media fino a quel crollo psicologico forse più celebre perfino della hit d'esordio. Vanessa è padrona di sé. Con le sue piccole mani, ha infangato la propria reputazione per proteggere quella di Strane. Come può considerarsi vittima del disturbo post-traumatico da stress una giovane tanto audace e volitiva? Questo fa forse di lei una nemica delle donne? A dispetto di uno stile tutt'altro che memorabile, giacche troppo acerbo, Russell ha per le mani materiale incandescente e fa del suo meglio per rendere giustizia a una storia attuale, complessa.

Non appena è successo ho desiderato che accadesse di nuovo. Una ragazza normale non avrebbe reagito così. È vero che c'è qualcosa di oscuro in me, da sempre.

Lontana dai banchi di scuola, la seconda parte – la più riuscita – affronta il disagio struggente di una vita interrotta. All'inizio la presenza di Strane inquieta. Ma alla fine, a sorpresa, è la sua assenza a farsi lacerante. Ormai trentenne, con la paura di essere invecchiata e per questo non più desiderabile, ossessionata dalle cicatrici indelebili del passato, Vanessa vorrebbe rinunciare al suo orco se farlo non implicasse anche rinunciare a sé stessa. La mancata elaborazione crea un comodo stato di sospensione; il vittimismo è una coccola. Ogni giorno appare la prosecuzione della sua prima adolescenza, terribile ma mitizzata. Una ragazzina appare desiderabile, una ragazzina è sollevata dalle responsabilità, una ragazzina viene facilmente assolta. Si legge come un thriller, My Dark Vanessa, ma è la storia a tinte forti di un'educazione affettiva che consiglierei anche alle mie studentesse. Come si impara ad amarsi, se ci hanno amato – il verbo, a questo punto, non calza più – in maniera terribile? Come si diventa donne?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Fiona Apple – Criminal

venerdì 8 marzo 2024

And the Award goes to: Povere creature | La zona di interesse | Past Lives | American Fiction | Killers of the Flower Moon

Lanthimos, visionario, sorprende anche per tempismo: il suo ultimo film è il lato oscuro di Barbie. Orgiastico e stordente, racconta le avventure di una creatura in polemica con il suo creatore: passerà da un padrone all'altro per conoscere il sapore delle ostriche, degli umori corporei, del sangue. Al regista greco si può sì rimproverare una parte centrale ridondante, scarso equilibrio (a differenza che in La favorita, insuperato), ma la sua Bella zoppica prima di imparare a danzare. La interpreta una Stone senza vergogna, che trasforma il suo corpo in un bignami di tutti gli stadi dell'evoluzione umana e di tutti gli studi di genere. Deliziosamente blasfema (è Madre, Figlio e Spirito), fa fiorire nei personaggi maschili emozioni sconosciute – la tenerezza in Dafoe, la gelosia in Ruffalo – e diffonde la buona novella intrisa di positivismo. Il suo ritorno alla vita è un inno alla gioia spoglio di retorica, che semina scompiglio fra i perbenisti. Ma l'indimenticabile Baxter, che imparerà presto a non masturbarsi a tavola, a non sputare il cibo sgradito, a non parlare di sesso in pubblico, è una provocatrice schierata contro i mulini a vento dei costrutti sociali. Guicciardini scriveva: “Lo ingegno più che mediocre è dato agli uomini per loro tormento”. E alle donne? L'esperimento che sperimenta ha testa, cuore e clitoride. (8)

Urgente”, “necessario”, “importante”. Lo hanno commentato tutti, e tutti con gli stessi aggettivi. Lo sapete: è il dramma sull'Olocausto che non mostra mai i campi di concentramento, ma la banalità delle famiglie naziste. Lo sapete: in casa Hoss, un paradiso da proteggere, poco importano le urla, gli strepiti, i pianti che cozzano contro il nitore della fotografia; poco importano le piogge di ceneri. Il turbamento dello spettatore nasce proprio lì: dalla freddezza glaciale dei lunghi quadretti domestici; dallo scollamento tra immagine e sonoro. Sperimentale, l'ultimo Glazer si poggia su un'idea vincente. Per quanto stimolante, però, non è un film che ho sentito visceralmente. L'estetica, fulgida, ne fa un'asfittica camera ardente. L'approccio, nuovo, non basta a reggere l'intera visione. I protagonisti, inquadrati in campo lungo, si muovono come i concorrenti di un reality. Resto un amante del cinema narrativo. E La zona di interesse racconta una storia bruttissima, restando per tutto il tempo su una soglia che – se non concettualmente – non ha suscitato interesse. Esporci agli orrori senza filtri, senza morale: ci renderà sempre più saggi o più assuefatti? Vincerà, ma non è il "mio" Miglior Film.  (7)

A vent'anni di distanza dal loro ultimo incontro, una vecchia coppia si dà appuntamento. A New York parleranno di scelte, seconde possibilità, predestinazione. Pacata presa di coscienza, in cui tra le righe si riflette anche di ambizione femminile e identità culturale, Past Lives si inserisce nel filone delle romcom indie. Impossibile non pensare a Linklater, Coppola, Kar-Wai. Immancabili le lunghe carrellate, una città da cartolina, i silenzi riempiti dalla densità di certi sguardi. La regia è una carezza; i protagonisti, dotati di una chimica incantevole, animano un triangolo dagli esiti piuttosto prevedibili. Ma a rimanere impresso è soprattutto il marito di lei, tagliato fuori dai dialoghi dei due innamorati ritrovati; incapace di decifrare i sogni della moglie immigrata e, per questo, inconsolabile. Agrodolce e discreta, Song non osa variazioni sul tema e regala ai romantici tutto ciò che si aspettavano. Volutamente algida, confeziona un film (per qualcuno già cult), forse più fortunato che bello. Past Lives è un ordinario esordio da Sundance che gode di una vetrina straordinaria: gli Oscar. Si ha, tuttavia, la sensazione di averlo già visto altrove. Magari in un'altra vita? (7)

Uno scrittore afroamericano incappa sempre nel solito rimprovero: non scrive storie abbastanza nere. Gli editori, bianchi, bramano vicende di tossicodipendenza, criminalità, sbirri violenti: tutto pur di sgravarsi la coscienza e alimentare il cliché. Per scherzo, il protagonista scrive un guazzabuglio di luoghi comuni. Il romanzo diventerà prima un bestseller. Diciamolo: candidato a cinque Oscar, American Fiction avrebbe meritato soltanto una nomination per la sceneggiatura. Già premiato al Sundance, non brilla per fattura, ma è un'inaspettata ventata d'aria fresca. Originale, divertente, leggero ma non troppo, è una provocazione intellettuale che scardina i meccanismi dei successi editoriali e dei premi letterari. Nonostante le premesse memorabili, il potenziale del tema non viene pienamente sfruttato. Le pieghe pirandelliane vengono talora messe in secondo piano dalle vicende familiari del protagonista; la satira viene stemperata dall'Alzheimer di una mamma anziana, dal coming out del tormentato Sterling K. Brown, da un matrimonio e un funerale. Ma si ride, e di noi. Quante volte abbiamo definito un romanzo “coraggioso”? Quante volte abbiamo fatto ridere sotto i baffi qualcuno come Jeffrey Wright, qui diviso tra orgoglio e denaro? (6,5)

Tratto da una storia vera nerissima, è il film più impegnativo tra i candidati. Con le sue oltre tre ore di durata, è un atto d'accusa contro gli abusi dei bianchi a danno dei nativi. L'indignazione e lo sgomento vengono soffocati dai ritmi dilatatissimi e dall'andamento prevedibile; la piega giudiziaria dell'ora finale, in particolare, annoia e affatica. Leonardo DiCaprio, imbelle, si lascia traviare da un'eminenza grigia con il ghigno di Robert De Niro. Teatrali e gigioneggianti, finiscono per mettere in ombra Lily Gladstone: una mater dolorosa sobria e piena di contegno la cui recitazione misurata, lontanissima da quella grandattoriale del duo, appare piatta al confronto. Dirige Martin Scorsese: la storia del cinema in persona. Ma il cinema è anche andato avanti. E questo classico western di denuncia, con il solito classico Scorsese alla macchina da presa, mostra un regista ormai fermo alla stessa impostazione rigorosa, ai soliti attori virtuosi, alle stesse storie solenni. Lo si candida per rispetto reverenziale. Ma pochi vedranno questa sua ultima fatica film fino alla fine. (5)

venerdì 1 marzo 2024

Recensione: Estranei - All of Us Strangers, di Taichi Yamada

| Estranei, di Taichi Yamada. Nord, € 16, pp. 216 |

Uno sceneggiatore in crisi sentimentale e creativa, pessimo nel gestire i rapporti interpersonali – in particolare con le moglie, fidanzatasi nel frattempo con il migliore amico, e con il figlio universitario –, sperimenta gli scherzi delle solitudine nel torrido agosto di Tokyo. La città, calda e trafficata, sembra essersi svuotata. Il condominio di cui occupa un appartamento al settimo piano, stipato di uffici, si spopola al calare della sera. Siamo in un romanzo giapponese degli anni Ottanta, a cui l'omonimo di Andrew Haigh (al cinema da ieri) si è soltanto liberamente ispirato. Siamo in una storia di fantasmi, a tratti sorprendentemente horror, in cui la soglia tra vivi e morti sa farsi labile. Il giorno del compleanno del protagonista coincide con una festività buddista chiamata O-bon: una ricorrenza in cui, un po' come il due novembre, si è soliti celebrare i propri defunti. E parlarci? Tornato a quarant'anni di distanza nel quartiere in cui è cresciuto, ormai zeppo di cinema dismessi e lotti abbandonati, il protagonista è ospite di una giovane coppia: dopo un pomeriggio passato a bere birra e whisky, si congeda da loro e, sul taxi del ritorno, piange di malinconia. L'uomo e la donna sono i suoi genitori, morti quando lui aveva dodici anni appena. È la fantasia del protagonista ad animarli, o c'è qualcosa di soprannaturale in atto? Una forza mortifera che minaccia di strapparlo alla realtà, all'insegna di un passato idealizzato in cui può atteggiarsi a figlio devoto?

Non sparire, adesso.

Considerato un maestro del genere in patria, Yamada punta tutto sulla fascinazione delle atmosfere e su una scrittura lineare, ma capace di sensazioni ambigue. Vietato aspettarsi lo stesso struggimento del film omonimo, che già con il trailer ci ha miseramente ridotti in lacrime. Resta, tuttavia, una profonda tenerezza nel figurarsi il protagonista bearsi delle mille premure dei familiare; godersi la quieta gioia mai sperimentata da bambino. Ma qui ci si domanda costantemente: i genitori redivivi sono spiriti benevoli o demoni sanguinari? In un limbo su misura dove l'immaginazione viene preferita alla realtà, l'ossessione per i morti rischierà di allontanarlo da Kei: una vicina di casa segnata da profonde cicatrici che, come nel mito di Amore e Psiche, domanda di non essere osservata alla luce dell'abat-jour. Fiaba cupa e minimalista sulle leggi imperscrutabili dell'aldilà, la controparte letteraria di Estranei è come un lungo corridoio angusto. A seconda del nostro stato d'animo, può ispirare smarrimento o terrore.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Pet Shop Boys – Always On My Mind