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mercoledì 30 settembre 2020

Recensione: Proprio come te, di Nick Hornby


| Proprio come te, di Nick Hornby. Guanda, € 18, pp. 368 |

Lei è Lucy, quarantadue anni, insegnante reduce da un divorzio burrascoso: bianca. Lui è Joseph, ventidue anni, babysitter, allenatore di calcio, aspirante deejay: nero. Loro si conoscono un sabato al bancone della macelleria presso cui il giovane lavora nel weekend. Entrambi abituati a sentirsi inadeguati, si piacciono all’istante ma è vietato flirtare durante le contrattazioni: a Lucy, per di più, serve proprio un babysitter per i suoi figli. Insomma: di mezzo c’è un rapporto di lavoro, e c’è che vent’anni di differenza e una diversa estrazione sociale sono troppo da superare. Ma lo so cosa state pensando: è una commedia romantica! I contrasti e le barriere sono soltanto piccoli ostacoli sulla via che conduce al lieto fine. L’ho creduto anch’io davanti a una lettura che mi figuravo simpatica, leggera, spensierata. E a lungo Proprio come te è esattamente questo:  la storia di un inatteso colpo di cuore che si fa leggere con un sorrisone che va da guancia a guancia. Il merito spetta alla verve comica di Nick Hornby. Amato e seguitissimo tra cinema e televisione, era in lista da anni ma questo è il primo romanzo dei suoi che riesco a leggere. Nonostante l’intreccio elementare, posso dirmi comunque sorpreso. Perché, com’è noto ai più, Hornby è forse l’artefice di alcuni dei dialoghi più brillanti su piazza – ho pensato a Woody Allen e Amy Sherman-Palladino – e i suoi protagonisti son indagati sin nelle pieghe più intime.

È questo il punto. Basta essere legato a qualcuno, e sei nei guai.

L’inizio della relazione tra Lucy e Joseph è tanto naturale quanto adorabile. Si scambiano SMS dalla punteggiatura perfetta, e la punteggiatura è sexy; si danno alle maratone dei Soprano sul divano; sgattaiolano al piano superiore per fare sesso a ogni occasione buona. In segreto giocano alla famiglia felice. Ma come se la cava una coppia improbabile alle prese con la vita nera? Quali film andare a vedere al cinema, se il gap generazionale è grande? Cosa dire agli amici e alle famiglie? Come guardare al futuro, se l’orologio biologico di lei ha le ore contate? Nick Horny, nella seconda parte, lascia spazio a quello su cui i film preferiscono glissare: le fragilità, i dubbi, le paure. Le cene in pubblico, ad esempio, infondono un’orribile ansia da prestazione. Lucy reagisce con l’entusiasmo di una mamma chioccia davanti ai successi musicali del partner. Joseph sbadiglia come un adolescente annoiato a teatro. Sulla scia dei loro ripensamenti, la narrazione si appesantisce più del previsto. E la commedia romantica degli inizi perde il brio del primo incontro e trova l’amara verità. Diventa qualcosa di più. Le situazioni alla Indovina a cena, così, cedono il passo alle zone grigie già popolate dagli amati-odiati protagonisti di Persone normali.

E proprio per questo Lucy era speciale: lei lo tirava dentro il presente. […] E forse in questo non c’era futuro, ma c’era il presente, e proprio in questo consiste la vita.

Gli amori non richiedono forse una fatica immane? Nella vita di coppia contano più le affinità o le differenze? Circondati da una galleria di secondari esilaranti, sullo sfondo di una giungla urbana nevrotica e multirazziale, gli innamorati devono lasciare la confortante parentesi in cui si sono rifugiati per il debutto ufficiale in società. Si imbatteranno nelle opinioni sgradite di chi mette al vaglio la felicità altrui. Conosceranno in prima persona il pregiudizio dei quartieri bene: se un ragazzo di colore bazzica sotto casa, purtroppo, i vicini saranno ben pronti ad allertare la polizia. Per di più, corre l’anno 2016: gli inglesi sono in fermento per il referendum, mentre dagli Stati Uniti si allunga già l’ombra sinistra di Donald Trump. La scelta – Leave o Remain – inevitabilmente diventerà anche la metafora del destino dei due. Se il lieto fine è in dubbio, nell’impossibilità di imparare ad amarsi un giorno alla volta, ci si può forse astenere dal voto?

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Hello, Goodbye

lunedì 28 settembre 2020

Recensione: Cinzia, di Leo Ortolani

| Cinzia, di Leo Ortolani. Bao, € 20, pp. 242 |

Leggilo perché fa morire dal ridere, suggerivano tutti. Come potevo deluderli? L’ho acquistato in promozione in ebook, a un prezzo stracciato. L’ho letto d’un fiato in una notte di fine estate, sconquassato da emozioni che andavano dal divertimento alla commozione. Vi parlo di Cinzia più tardi del previsto, però, e con un orribile groppo in gola. All’indomani dell’ennesimo episodio di transfobia. Poche settimane fa i telegiornali ci hanno raccontato di una coppia speronata mortalmente, di una tragedia alla Romeo e Giulietta. Nella profonda provincia campana, Maria Paola è stata uccisa a diciotto anni perché aveva una relazione con Ciro: un ragazzo transgender. L’assassino, il suo stesso fratello. L’episodio ha rivelato la forza dell’odio e l’inadeguatezza dei nostri giornali. Una confusione imperdonabile di termini, voci, opinioni che basterebbe una lettura come questa a fugare per sempre.

Prima di morire, mia nonna mi disse: Paul non è un brutto nome, solo che non è il tuo. Se vuoi puoi usare il mio, ormai non mi serve più.

Contro il pregiudizio, il fumettista Leo Ortolani schiera tutta la palette dell’arcobaleno. E un senso dell’umorismo corrosivo che si tuffa a picco nei doppi sensi. Niente e nessuno sono salvi dalla sua verve satirica. Ortolani bacchetta tutti. Chi giudica, chi si lascia giudicare, chi ghettizza, chi si lascia ghettizzare: ironizza perfino sulla comunità LGBTQ, che coglie in contropiede la protagonista stessa aggiungendo continuamente lettere alla sua sigla. Un giorno includerà anche i nerd amanti di Star Wars? È un acronimo a creare legami, a costruire l’identità di un essere umano? Cinzia non vuole essere incasellata. Cinzia tentenna davanti alla riassegnazione di genere. Registrata all’anagrafe come Paul, ha preso il nome di battesimo della nonna defunta e la vita di petto. E ha un petto prosperoso, Cinzia, e un segreto ingombrante: trenta centimetri tra le gambe.

Mi piace, innamorarmi. Mi piace pensare a qualcuno di speciale che mi faccia battere il cuore. Ma alla fine arriva sempre il momento di chiudere, altrimenti impazzisci. Per questo voglio essere bellissima. Perché se nessuno mi ama, devo farlo io.

Innamorata persa di un etero in procinto di convolare a nozze, la protagonista gli nasconde la verità e fa un errore: rischiare di cambiare per un uomo. Se è destino, Thomas ignorerà la presenza dell’ingombrante appendice? Tra aziende da strapazzo che vorrebbero debellare l’omosessualità con prodotti bio, gustosissimi sprazzi musical – mi riferisco ai cameo di Phil Collins, Aretha Franklin, Joe Cocker e Bee Gees –, spogliarelli in webcam e visioni bibliche, Cinzia si rivela la fiaba senza tempo di una novella Cenerentola. Per amore, però, lei non si trasforma in una principessa: bensì in uno straordinario supereroe. Leo Ortolani celebra l’orgoglio di essere diversi da tutti gli altri e, pur con toni leggerissimi, descrive un mondo di figuranti infami e pendolari tristi. Metà donna, metà uomo, la sua eroina è un anfibio. Una specie di creatura mitologica, nobile d’animo, caparbia e purissima, che spererebbe di vivere in una commedia pastello interpretata da Julia Roberts. Purtroppo deve sperimentare prima il dramma di chi vorrebbe trasformare la sua felicità in senso di colpa. A dove risalgono le radici della discriminazione? Irresistibilmente blasfemo, Ortolani rievoca il giudizio universale: Noè, a bordo dell’arca, radunava gli uomini e le donne, le coppie. E le persone a un bivio? E i single? Per nostra fortuna, a Cinzia non servono mica passaggi sulla via della salvezza. Più volte delusa, più volte innamorata, ha imparato a sopravvivere galleggiando. Questa graphic novel racconta in pillole una nuova forma d’amore, la più rivoluzionaria e definitiva. La più imprescindibile. Quello verso sé stessi.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Gianna Nannini – I maschi

lunedì 21 settembre 2020

Recensione: La casa sul lago, di David James Poissant


| La casa sul lago, di David James Poissant. NN Editore, € 18, pp. 350 |

Non esistono famiglie felici. Per fortuna. Quando ci perderemmo se non avessimo da leggere di recriminazioni e dissapori? Infelici a modo loro, gli Starling popolano un quadretto in cui mi sono immedesimato fino a perdermi. All’inizio li ho odiati, poi ho finito per voler bene a tutti. Sempre all’inizio, data la trama canonica, immaginavo che non avessero niente di nuovo da regalarmi: sono meno disfunzionali di altri, infatti, ma proprio lì sta la loro originalità. Dimenticate le esagerazioni da soap opera. Scordate grossi traumi, se a salvaguardare l’infanzia dei figli ci hanno pensato due genitori esemplari. Perfino i segreti, benché numerosi, sono semplici non detti che nel frattempo si sono accumulati per pigrizia o codardia. Possiamo rimandare a domani la verità pur di non affrontarla oggi? Questo romanzo è una foto incorniciata appesa al muro di una casa ormai sfitta. Chiudere la porta sul vuoto creato dal trasloco riempirà gli occhi di lacrime. È un addio?

Avere un figlio è rovinare se stessi, per sempre, in nome dell’amore.

Signorili, progressisti e gay friendly, gli Starling credono nella raccolta differenziata, in Hillary e nelle pari opportunità. Newyorkesi d’adozione, ogni estate emigrano al sud per le vacanze. Il cuore della loro villeggiatura è una casetta sgangherata affacciata su Lake Christopher, North Carolina: un luogo modesto ma pieno di ricordi felici, dove in passato si sono rifugiati per riprendersi da un lutto. Presto dovranno lasciarlo per sempre. Lo comunicano i genitori, che per ragioni imperscrutabili hanno deciso di trascorre il pensionamento altrove. La casa è già stata acquistata. Si può dare un prezzo a qualcosa che ha un valore sentimentale tanto forte? Da bolla spensierata, il lago diventa un piccolo campo di battaglia. Ci sono scatoloni da fare, spiegazioni da pretendere, ricordi agrodolci da rispolverare. In un tour de force della memoria, i protagonisti vorrebbero godersi l’ultimo weekend, ma un evento luttuoso – l’annegamento di un bambino – getta ombre sul resto del soggiorno. Quanto può toccarci il dolore di una famiglia sconosciuta?

Da un anno sperava nell'assoluzione. Ma questo è meglio. Questo è matrimonio. L’amore è mettersi in spalla dei pesi – bambini morti, case malconce, infedeltà che ti rimangono appiccicate addosso – e proseguire.

Mentre il lago viene dragato in cerca del corpicino, i personaggi chiudono le tapparelle per non guardare la morte in faccia. E così, per la prima volta da un po’, si guardano. Ci sono Richard e Lisa, ex professori, che pensano al destino della sfortunata primogenita e alle conseguenze di un papillon annodato da mani estranee. Quanto si è responsabili degli uomini in cui si trasformeranno i nostri bambini? Ci sono Michael e Thad, i figli, che d’un tratto si sentono espropriati: il primo, un fascio di nervi, fatica ad ammettere di avere un problema con l’alcol e con la paternità in arrivo; il secondo, aspirante poeta con due tentati suicidi alle spalle, vive con frustrazione tanto la mancata ispirazione quanto i vizi del partner, desideroso di far parte di una coppia aperta. Perché quei genitori perfetti hanno generato due pecore nere così, una delle quali per di più vota Trump? Ci sono, infine, Diane e Jake: compagni rispettivamente di Michael e Thad, offrono un punto di vista esterno sugli intrighi degli Starling. Avete presente la sensazione di voler essere inclusi, ma al contempo di voler fuggire via?

Pensi che la felicità sia ottenere quello che vuoi. Qualunque cosa vuoi, quanta ne vuoi, quando vuoi. E se non fosse verità felicità? E se la vera felicità fosse dire ‘Fanculo a cosa vuoi tu, e rimanere insieme, anche quando è dura, anche quando non sei più quello di una volta?

Tra politica, omosessualità e aborto, David James Poissant costruisce un romanzo profondamente americano. La sua prosa è un velo delicato che ammorbidisce senza mai nascondere. Abilissime, le descrizioni si muovono dentro e fuori; planano a volo d’aquila su paesaggi idilliaci e scandagliano a tappeto la psiche dei personaggi. I dialoghi suonano cinematografici e l’affastellarsi delle scene sembra seguire il montaggio coreografico di un regista di talento. Il canto di rane e cicale, poi, fa da emozionante contrappunto. La domenica va avvicinandosi, la famiglia ha fretta. Deve fare ordine. La cernita in previsione del trasloco non riguarderà soltanto le cianfrusaglie da buttare, ovviamente, ma anche i loro ricordi. Si può salvare dalla spazzatura un amore maturo, che forse troverà la forza per ricominciare in Florida? E il perdono: prendere o lasciare? La casa sul lago prende avvio con una morte, ma strada facendo trova modi straordinari per celebrare la vita nonostante tutto. Una volta toccato il fondo non si può che risalire: perfino in acque come queste. Calme all'apparenza, sotto la superficie immobile nascondono gelide correnti sotterranee e gorghi ingannevoli.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Neil Young – Sweet Caroline

giovedì 17 settembre 2020

Recensione: Gli affamati, di Mattia Insolia

| Gli affamati, di Mattia Insolia. Ponte alle grazie, € 14, pp. 170 |

Mio fratello è biondo, robusto, fuma. Mio fratello non mi somiglia. Sembra il maggiore, ma in realtà è di due anni più piccolo di me. Da quando vive lontano, mi manca. Sotto l’ombrellone, in un giorno di mare rubato al mese di settembre, ho trovato un posacenere bianco con i suoi strascichi. Due mozziconi di sigarette, fotografati poi accanto al romanzo che mi è sembrato parlasse un po’ di noi. Di quand’eravamo una coppia di animaletti selvatici, umorali e amorali, ai bordi di una casa dove gli adulti litigavano come bambini. Di quando lui, frustrato e addolorato alla fine del liceo, sognava di ricominciare altrove: alla fine, a differenza mia, ci è riuscito. La nostra era una vita di provincia – la mia lo è tutt’ora –, in una casa zeppa di strepiti e non detti. Per fortuna, però, fuori dalla nostra finestra non vedevamo una realtà simile a quella della fittizia Camporotondo: un buco di culo di diecimila anime, dove i cortili sono usati a mo’ di gabinetti e il desiderio d’altrove si sviluppa fortissimo, selvaggio.

«Però le cose belle le abbiamo trovate lo stesso. Insomma… alla fine, se ci pensi, siamo riusciti a trovarle e a vederle pure se tutto fa schifo, no?». «Sì, siamo riusciti a trovarle. Ma forse non le abbiamo mai capite davvero».
Assoluti padroni di casa, i personaggi di Paolo e Antonio gozzovigliano in mutande davanti alla tivù tra canne, alcol e pizze surgelate. All’apparenza brutti, sporchi e cattivi, covano entrambi segreti e sensi di colpa. Si somigliano perfino nei peccati. Quel loro dolore cencioso li rende protagonisti di un’illusoria affinità elettiva e, mossi dalla pretesa di vivere più intensamente dei compaesani, sfidano ogni giorno il mondo in una gara di velocità. Mentre Paolo è una bomba a orologeria che prova eccitazione fisica nel far danno, Antonio – più sensibile – si lascia comandare a bacchetta e salva una copia di Stoner dalla discarica pur di leggerla di nascosto. E poi c’è una mamma che torna all’ovile, intenzionata a sottrarre i figli dalle macerie; c’è un migliore amico, Italo, che propone lavori dignitosi e nuove sistemazioni; c’è un altro emarginato, l’omosessuale Oscar, di ritorno da Milano per fare chiarezza. Immersi fino al pomo d’Adamo nelle sabbie mobili del Mezzogiorno, come reagiranno Paolo e Antonio quando cambiamenti inevitabili minacceranno di stravolgere i loro equilibri malsicuri?

Dal dolore non ci si può mai liberare del tutto. Ogni sofferenza è un parassita che lascia delle tracce, e quelle tracce, scorie velenose, si ammonticchiano sempre di più e sempre di più fino a ostruire tutto, i capillari e le vene e le arterie. Saturano tutto. Non lasciano spazio a nient’altro.
A farci l’abitudine, c’è serenità nel caos. C’è bellezza nello squallore. Lo racconta egregiamente Mattia Insolia, classe 1995, in un esordio che ricorda le dinamiche del miglior Ammaniti e la fotografia giallastra del cinema dei D’Innocenzo. L’autore siciliano si muove in un panorama poco raccomandabile, ma meno spaventoso che in passato. La provincia, infatti, è stata ampiamente sdoganata dalla narrativa italiana. E bonificata? Dopo ciceroni d’eccezione, Mattia – il più giovane degli autori del filone; il più scapestrato – segue le orme dei predecessori con devozione, rispetta le leggi della giungla e quelle della natura, ma qui e lì tenta sorpassi, svincoli, sentieri sconosciuti. La provincia, e la narrativa che la descrive, è forse un territorio troppo circoscritto?

Eravamo malati di desiderio. Scintille nel buio, abbiamo illuminato la notte e siamo bruciati di incanti e meraviglie.
Nonostante il dubbio tutt’altro che illecito, il tentativo di Mattia emoziona e, a sorpresa, infonde una certa speranza. La sua scrittura è pungente senza essere urticante. Sboccatissima, fa scendere a fantasia lacrime e Madonne. Soprattutto nell’epilogo, eppure cronaca di una tragedia annunciata, sa glissare con coraggio sui dettagli più pietosi e cogliere in contropiede grazie alla commozione di una lettera di sette anni successiva agli eventi raccontati.
Paolo e Antonio, memorabili, sono due stracci intrisi di benzina: il mondo, fuori, è una polveriera pericolosissima; la carcassa di un gatto prima sbranato da un cane cresciuto nella bambagia e infine, per beffa, travolto dalle macchine in transito sulla statale. Ho guardato a loro con la tenerezza di chi vorrebbe ripulirli, addomesticarli. Di chi, in fondo, guardando nell’abisso di sé stesso, nella loro rabbia si è riconosciuto come in uno specchio deformante del luna park. Con Mattia Insolia, con me e mio fratello, condividono il metabolismo veloce e l’inquietudine esistenziale. Perché quando il mondo ti intossica, non può che restarti in ricordo questa fame chimica.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Anastasio – Rosso di rabbia

sabato 12 settembre 2020

Recensione: Il grande me, di Anna Giurickovic Dato

Il grande me, di Anna Giurickovic Dato. Fazi, € 18, pp. 220 |

In un esordio dagli echi nabokoviani aveva raccontato l’ignominia di un padre che amava troppo la figlia femmina. Questa volta Anna Giurickovic Dato, classe 1989, sceglie la tenerezza per raccontare invece una storia dai ruoli invertiti: è una figlia ad amare troppo il suo papà, al punto da volerlo proteggere con candide bugie e mille cerimonie dalla realtà dei fatti. Il genitore va consumandosi come lo stoppino di una candela, presto si spegnerà. È cancro al pancreas, il peggiore. Ci sono metastasi dappertutto. Non si sfugge. 
Tra Catania, Roma e Milano, la famiglia Capace – a pezzi, ma disposta a rinsaldarsi nel nome del padre e di un bene maggiore – si riunisce al capezzale. Si è mai pronti a morire? Si è mai preparati a diventare orfani? Mossa da un viscerale senso del dovere, la giovane Carla torna a casa: si unisce ai fratelli, rinuncia alle feste in compagnia, rinuncia a sé stessa. Mentre il primogenito sembra essersi trasformato nell’epigono del padre, in quanto a stazza fisica e saggezza, e l’ultimogenita ricerca cure impossibili affidandosi alla medicina alternativa, la figlia di mezzo s’interroga su quale sarà la propria missione. Magari venire a capo di un rebus familiare confessato in pieno delirio?

È un ridere a metà, uno stare insieme a metà, separati da una morte che è già seduta tra di noi e la sentiamo. Fate presto, ci dice, vi ho lasciato il tempo giusto per conoscervi, scambiatevi le ultime parole; voi figli imparate da lui tutto ciò che ha da insegnarvi, prendete appunti, registrate ogni momento, così poi potrete moltiplicarlo, non siate tristi, non ce n’è il tempo, condividete le vostre ultime risa, accarezzatevi, toccatevi perché non vi siete mai toccati, allontanate la timidezza, l’imbarazzo non c’entra con questi ultimi mesi, questo periodo è la cerniera delle vostre vite, apritela con delicatezza, lasciate che i vostri lembi si separino come ci si separa da un abito pesante tra l’inverno e la primavera, raccogliete tutto di vostro padre, così potrete contenerlo.
Il grande me è la cronaca di una morte annunciata. È un piccolo giallo irrisolto. È una raccolta di aneddoti dove il signor Simone – teatrale, egocentrico, brillante, volitivo – viene descritto ora come un musicista raffinato, ora come un fascinoso Omar Sharif, ora come un integerrimo politico di sinistra. La voce narrante ce lo ritrae con la tipica vanteria tipica delle mamme chiocce, benché a parlare sia la figlia. Ma Simone è stato forse così perfetto? Non ha mai covato rimpianti o delusioni? Nel dubbio, Carla finisce per mettersi da parte: sconosciuta perfino al lettore – fatta eccezione per un capitolo di grande erotismo dove rivela le contraddizioni di una sensualità folle e vendicativa –, si mostra in rari sprazzi e sempre in relazione alla tragedia. Nell’ultima parte, inevitabilmente, la malattia diventerà sempre più preponderante. Una primadonna crudele che non ammette diretti concorrenti. Una mantide religiosa che fagocita sia il corpo del povero Simone, sia una dimensione corale prima abbozzata e infine sacrificata.

Non è il mestiere dei figli essere padri.

Dopo un bestseller di risonanza internazionale, l’autrice catanese torna in libreria con un romanzo all’apparenza convenzionale ma in realtà ancora più struggente. Alcune emozioni non si possono simulare. Anna deve averle sperimentate tutte sulla propria pelle e intuisco quanto Il grande me, in realtà, sia la tappa di un’intima elaborazione che suscita nel lettore rispetto ed empatia immediati. Nonostante tutto, confesso qualche dubbio relativo alla struttura; alla presenza di un intreccio romanzesco superfluo che orna una storia già forte di per sé, perché in parte autobiografica. Impaziente, ho divorato pagine su pagine caratterizzate da uno stile poetico e solenne. E ho letto con ammirazione le apostrofi, le domande retoriche, le invocazioni e le preghiere, che rendono lo stile di Anna un moderno coro da tragedia greca. Cerebrale, difficile, implosiva più che esplosiva, questa sua seconda prova non convince totalmente per via della troppa carne al fuoco a fronte delle sole duecento pagine – abbiamo il segreto di Simone, le pulsioni autodistruttive di Carla, il logorante stillicidio del cancro –, ma riesce lì dove pareva impossibile. Ossia trovare parole per sfidare la «dislessia della morte»: e, senza sorprese, son parole bellissime.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Mia Martini – Gli uomini non cambiano


martedì 8 settembre 2020

Recensione: Ragazzo divora universo, di Trent Dalton

| Ragazzo divora universo, di Trent Dalton. € 19, Harper Collins, pp. 548 |

Per via delle oltre cinquecento pagine, ho terminato di leggerlo soltanto nella prima settimana di settembre. A dispetto delle tempistiche sbagliate, però, l’esordio di Trent Dalton resterà la lettura con cui mi piacerà ripensare a quest’estate. Un romanzo variopinto, cangiante e rocambolesco – sulla crescita e altre avventure –, con una galleria di personaggi talmente assurdi da essere veri. Ispirato in parte al vissuto dell’autore, Ragazzo divora universo è una lunga storia di formazione ambientata tra gli anni Ottanta e i Novanta, tra i dodici e i diciannove anni del protagonista: Eli.

Fai fuori il tempo, prima che lui faccia fuori te.

All’inizio poco più che un bambino, vanta un mamma fresca di disintossicazione, un patrigno spacciatore, un papà dalle tendenze suicide pregresse, un fratello – il geniale Gus – che parla per enigmi tracciando lettere nell’aria. Il suo babysitter, per di più, non somiglia certamente a Mary Poppins: si tratta di Slim Halliday, il cosiddetto «Houdini di Boggo Road», più volte entrato e uscito di prigione con trovate a dir poco brillanti. Tra ergastolani per amici di penna, sit-com dopo cena, citazioni di Star Wars e Steinbeck, Eli cresce con consapevolezze granitiche. C’è qualcosa di speciale nella sua famiglia, e c’è qualcosa di marcio nello stato del Queensland. Siamo nel peggiore sobborgo australiano. Le persone tendono a sparire nel nulla, in strada si scontrano baby gag armate di machete, le minoranze etniche campano di espedienti: la polizia si volta dall’altra parte.

Slim dice che questo libro l’ha aiutato a sopravvivere alla prigione. Parla degli alti e bassi della vita. La parte negativa è che la vita è breve e finisce. La parte positiva è che comprende il pane, il vino e i libri.
Attratto dalla cronaca nera e ossessionato dalla bontà, Eli sogna il mestiere di cronista per denunciare il malcostume e per potersi trasferire lontano dalla provincia. Ma fantastica, divaga, ama i dettagli e le coloriture liriche: insomma, gli dicono, a mancargli è l’asciuttezza che si confà allo stile giornalistico. Come frenare però la sua voce, per di più se ci regala pagine tanto preziose? Perché stare a sindacare sul suo abuso di figure retoriche, se ha per le mani un grande scoop? Lo squillo di un misterioso telefono rosso e la scoperta di un traffico di droga lo portano a incrociare spesso Tytus Bonz e il suo spietato sicario, Iwan. Non sarebbe meglio cambiare strada, soprattutto se quel vecchio di bianco vestito – un luminare nell’ambito delle protesi meccaniche – è un pilastro della comunità?

Lo scopo della vita è fare ciò che è giusto, non ciò che è facile.

Sempre di corsa, sempre in fuga, il protagonista anela fino all’ultimo alla pace e si specializza nell’arte di tagliare la corda. Il bello è che pur suscitano le preoccupazioni dei prof e degli assistenti sociali, pur rendendoci partecipi di una sordida storia di criminalità e squallore, ci appare una gran brava persona. Un ragazzo normale. E la sua famiglia strampalata, nel bene e nel male, finisce per somigliare proprio alle nostre. Con una struttura ciclica in cui tutto torna per magia, l’autore incanta con un apprendistato che fa tornare in mente le infanzie miserabili di Dickens e Twain, e nelle sue sfumature più inquietanti – tunnel degli orrori, cadaveri mutilati, presunte resurrezioni – il primo King. Certo, come capita con le narrazioni fluviali, i difetti e le lungaggini non mancano: la vicenda appare forse troppo dilatata nel tempo e ha una natura ondivaga, episodica, che ben si adatta alla serie TV di prossima uscita. Ma tutti noi abbiamo superato l’infanzia con una specie di disturbo post-traumatico da stress. Si diventa grandi, infatti, non vivendo: bensì sopravvivendo. Trent Dalton ce l’ha fatta. Da ragazzino, per sfuggire a pericolosi intrighi alla Breaking Bad, ha cercato eroi e vie di fuga. Questa sua testimonianza, tenera e leggendaria, ci racconta il lato ordinario del crimine e quello, assolutamente straordinario, della maturazione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Woodkid- Run Boy Run

mercoledì 2 settembre 2020

Recensione: Nives, di Sacha Naspini

| Nives, di Sacha Naspini. Edizioni E/O, € 15, pp. 130 |

Se telefonando io potessi dirti addio, ti chiamerei, cantava la voce dell’intramontabile Mina. Ma quante cose si possono dire alla cornetta? Quanti segreti da rivangare, quanti amori interrotti di cui venire finalmente a capo, quante catastrofi scongiurate o al contrario provocate? Tutto per una parola di troppo. Tutto per togliersi un maledetto sassolino dalla scarpa, lo sfizio.

Era la prima volta che quella sua vecchia amica si scopriva così, in fatti che affondavano nell’ignoranza popolare. Alla fine non gli costava nulla lasciarle credere in veggenti o pozioni, defunti che ti parlano col verso della civetta e sassi magici. Che ognuno scelga la solitudine che vuole. Anche darsi una spiegazione da pazzi fa compagnia.
Da quando il marito Anteo è collassato nel pastone dei maiali, Nives – vedova di fresco – vive notti inquiete in quel di Poggio Corbello. Settantenne all’apparenza dura di cuore, brusca e incapace di grandi moine, si rifiuta fermamente di seguire figlia e nipoti in Francia – la Linguadoca, come la chiamerebbe lei. Non ha mai abbandonato la provincia. Non ha mai pianto, neanche durante le esequie di Anteo. Ma eccola comporre un numero d’urgenza, sull’orlo del tracollo emotivo, per avvisare il veterinario del paese: Giacomina, la gallina con la zampa offesa e lo sguardo rincretinito che tiene da un po’ come dama di compagnia, si è ipnotizzata davanti alla pubblicità del Dash in TV. Dall’altra parte del filo c’è il veterinario Loriano, alticcio al solito, in lotta contro la tentazione di cadere svenuto dopo il TG della sera e il russare persistente della moglie Donatella.

Il passato è pieno di fantasmi. Per tutti. Così è e così sempre sarà.
Sorretto da una struttura insolitamente teatrale, quasi da dramma radiofonico, l’ultimo romanzo di Sacha Naspini è un dialogo pressoché ininterrotto dove le sole parti descrittive sono le poche didascalie tra una battuta e l’altra. Per quanto l’espediente dia modo all’autore di regalarci l’ennesima ottima prova stilistica, al suo ultimo romanzo – breve e, a sorpresa, indolore – manca la compiutezza sperata, nonostante siano comunque presente eccessi e lungaggini. Diffidate dal contrasto della copertina: un nostalgico bianco e nero squarciato dal rosso sangue del titolo. Accantonato presto lo spunto umoristico e grottesco della vicenda, la lettura diventa una fitta conversazione – condotta, però, con una naturalezza invidiabile –, con pochi dettagli realmente scabrosi e troppe pettegolezzi.

Una certa Nives è stata massacrata nell’82. Quello che è successo dopo è un’altra cosa. Non è roba da poco vivere con lo spettro di quel che saresti potuta essere. Ti guardi allo specchio e prima di darti il buongiorno vedi quello.
Quali sono i retroscena dietro il suicido della sfortunata Rosaltea, sedotta e abbandonata dal gigolò Renato? Cos’ha legato e diviso i protagonisti nell’autunno del 1982, anno di cui portano ancora qualche cicatrice? Tra sensi di colpa, sospiri e tradimenti coniugali, ho scorto lo zampino di Naspini nei personaggi ruspanti, nei loro sentimenti spesso primordiali e, purtroppo, in poche altre situazioni. In particolare l’epilogo – un’epifania melensa sul reale senso della vita – mi è parso forzato, al pari della presenza di piccoli grandi tabù inseriti puramente come marchio di fabbrica.
Nives è una lettura piacevole a opera di uno scrittore da cui si pretendeva lo spiacevole, il disagio, lo shock. A uscirne realmente vincente è lei, la protagonista eponima, che ricorda un po’ la compianta Olive Kitteridge e un po’ una perfida fattucchiera. Delusa atrocemente trent’anni prima, qui reclama attenzioni, vendetta e un’uscita di scena coi controfiocchi. La chiamata, davanti a un passato a cui dar conto, sarà a carico suo.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Se telefonando