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lunedì 23 aprile 2018

Recensione: Mio assoluto amore, di Gabriel Tallent

| Mio assoluto amore, di Gabriel Tallent. Rizzoli, € 20, pp. 413 |

C'erano una volta un papà, una figlia e un bosco. Altri, di nuovo, dopo i personaggi immersi nella natura selvaggia del thriller La casa del padre. Non mancano nemmeno qui le violenze aberranti – fisiche, psicologiche e, questa volta, sessuali. Non manca l'ambiguità, in un rapporto di amore e odio fatto a momenti alterni di tenerezza e dominio, fuga disperata e voglia di restare. C'era una volta il mondo: lasciato fuori, ai margini della radura.
Julia, detta Turtle, ha quattordici anni. Pesca, caccia, incassa e dà. Mangia le uova spaccandosele direttamente in bocca, al mattino, mentre Martin stappa per colazione la prima birra della giornata. Nei riti di iniziazione che spesso si autoimpone, fra piccoli naufragi e campeggi lunghi settimane, la ragazzina si forza a mangiare perfino uno scorpione guizzante in un sol boccone. Ha modi barbari, una corazza di cicatrici e, a scuola, grosse lacune. Sì, perché nel loro ricercato isolamente c'è spazio per la cultura: precisa volontà di un capofamiglia colto e fascinoso, che legge i filosofi spiritualisti in veranda (la camicia di flanella sbottonata sul petto forte, un'arma da fuoco che sbuca dai Levi's) e farnetica di cospirazioni da fine del mondo. A un passo dall'inizio del liceo, la sua Turtle si scopre attratta da un coetaneo salvato in fondo al bosco; parla al nonno reduce di guerra, tutto poker e coltellacci, del vestito per il ballo di fine anno; invogliata da un'insegnante, inizia a sentire la mancanza di una guida femminile. Turtle osa crescere. Abbastanza da rendersi conto, a un certo punto, che suo padre potrebbe intrufolarsi anche nel lettino dell'indifesa Cayenne, vagabonda salvata dalla strada non soltanto per generosità d'animo. Le lezioni di vita, in casa Alveston, ti insegnano a prenderti cura delle tue lame e a leccarti le ferite. A camminare a piedi nudi. A vedere al buio. I gesti parlano più delle parole: volgari, impastate dall'alcol, biascicate. Le loro conseguenze, mai lasciate al caso: si percepisce perciò la fatica dell'elaborazione e delle scelte, il dolore dei corpi che si apprestano a guarire – ma i cuori no, ferite sempre aperte.

Tu sei la cosa più bella che c’è. In te tutto è perfetto, Crocchetta, ogni dettaglio. Sei l’ideale platonico di te stessa. Ogni tuo graffio, ogni piccola spellatura è l’inimitabile elaborazione della tua bellezza e del tuo essere selvaggia. Sei come una naiade, come una ragazza cresciuta dai lupi. Tu sei la mia cosa numinosa in un mondo profano, di tenebra.

Mio assoluto amore, storia di vite al limite e d'infanzie mostruose, racconta con piglio verista il gioco dell'evitare gli assistenti sociali, i dubbi dell'emanciparsi e il sentirsi al sicuro soltando quando abbandonati a sé stessi. In balia degli eventi, degli agenti atmosferici, della curiosità adolescenziale. Liberi, però.
Diffido da chi definisce un romanzo capolavoro. Diffido, ancora, da chi definisce un romanzo noioso. Diffiderei da Stephen King, questa volta: narratore di infinita maestria, ma recensore spesso soggetto a un ingiustificato entusiasmo. Diffiderei, soprattutto, da me stesso. Se mi chiedeste di definire in poche parole il romanzo di Tallent, gli aggettivi parlerebbero al posto mio di una lettura durata pochi giorni appena eppure molto patita nel mentre. Ho i peli sul petto, lo stomaco forte, e le mie difficoltà poco hanno avuto a che fare con la barbarie del tema, l'incesto, o il bagno di sangue della seconda metà (quella che ho preferito: sporca, cattiva, senza presunzioni inutili). La colpa è stata delle descrizioni naturali, inutilmente particolareggiate. Dello stile ridondante di quei romanzi che vorrebbero raccontare il profondo Sud restituendone la grettezza morale, le atmosfere sonnolente, risultando purtroppo sonnolenti per il rovescio della medaglia.

I suoi errori non sono errori tuoi. Tu non sarai mai come lui. Mai.

Mi sono piaciuti i personaggi sfuggenti, dai confini imprecisi, né buoni né cattivi: tutti vittime di loro stessi, tutti complici, con una protagonista che ovviamene giganteggia facile – per qualche amico nerd è una ninja che salverà l'umanità dall'apocalisse zombie, per i compaesani il frutto dell'unione carnale fra una donna e un leone di montagna, ma a me è parsa l'anello di congiunzione non così impensato fra le geniali orfane di Dahl e le eroine bad-ass dei survival horror. Mi è piaciuto il modo di raccontare gli abusi senza peli sulla lingua, con la volgarità e la rabbia di chi li subisce e, suo malgrado, ne è dipendente; il turpe, brutto da dire, quando il disgusto ridestava l'attenzione facendo strizzare gli occhi stanchi. Mi è piaciuto il lento protrarsi del finale, che di quella violenza è l'apoteosi, ma anche dei pregi diffusi. Peccato ci si arrivi già provati, già stanchi. 
Smarriti fra pagine di troppo, facciamo pure un centinaio, e gli insidiosi garbugli della vegetazione – ortica, cardi, sonagli, avena selvatica, festuche, tarassaco. In un romanzo con sprezzo del pericolo che risulta pesante, ma per le ragioni sbagliate.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Sia – Elastic Heart

6 commenti:

  1. Un pochino mi attrae, molto mi impaurisce, questo romanzo. Forse, leggendoti, in realtà non fa per me. Ci penso su. Baci.

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    1. Impaurisce, ma per quelle pagine che non sempre scorrono, che non sempre servono.
      Peccato, perché la protagonista non si scorda.

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  2. proverei a leggerlo, anche se mi pare di capire che sia un po' "forte" nei temi; magari aspetto un altro po'... :D

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    1. Temi fortissimi, ma così diluiti che ti direi che non c'è rischio di traumi o fastidi duraturi.

      Uno di quei romanzi che non saprei se consigliare, proprio no.

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  3. Tra natura selvaggia, pesca, caccia e quant'altro, sembra una roba molto fordiana. :(
    Sembra però esserci una protagonista perfetta per una giovane Jennifer Lawrence, a metà strada tra Un gelido inverno e Katniss Everdeen. :)

    Per quanto mi riguarda, potrei essere dalle parti di quelli che lo definiscono un romanzo noioso, mi sa.

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    1. La Lawrence ragazzina, infatti, ci sarebbe stata non bene: di più. Peccato che anche in questo caso, La casa del padre arrivi prima al cinema: dirige Tyldum, ma dopo Passengers abbandona Jennifer per Alicia Vikander (e chi lo biasima).

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