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sabato 31 ottobre 2015

Mr. Ciak - Speciale Halloween²: The Green Inferno, Spring, Knock Knock, True Story, Coherence

Io e mio fratello – in particolare lui, appassionato di quel Cannibal Holocaust che conosco bene grazie a digressioni attente delle sue – lo attendevamo da due anni. Quando i siti a noi cari l'hanno annunciato, i trailer hanno voluto mostrarcene un pezzo, ma rimandi e controversie varie hanno fatto sì che, per problemi di distribuzione, restasse inedito fino a quest'autunno. Quando, censuratissimo e anticipato dal solito tran tran, in contemporanea mondiale, ha fatto il suo debutto nel Paese che ha dato i natali al Ruggero Deodato che Eli Roth – canaglia a cui vogliamo bene dai dei fasti sanguinosi di Cabin Fever – ha voluto ricordare a modo suo. La trama la conoscete: un gruppo di giovani volontari, in volo sulla foresta dopo una missione umanitaria, precipita nel campo di una tribù locale, dedita alla protezione dell'ecosistema e al cannibalismo. Sapete perciò quel che c'è da aspettarsi: litri di sangue, tensione, le urla dei prigionieri in gabbia. Tuttavia, nonostante il divieto ai minori di diciotto anni e voci di fantomatici svenimenti in sala, il sangue scorre in maniera moderata – si aspettano quaranta minuti per la prima uccisione, la più dettagliata, e poi abbondano fuori campo furbastri – e il dramma, la crudeltà aspettata, sono stemperati in siparietti assurdi che fanno scordare, strada facendo, perfino i pochi lati positivi. The Green Inferno parte piano e tardi, dando spunti interessanti che poi riprenderà solo nell'epilogo, per me un po' stucchevole: manca la denuncia dell'originale e i personaggi mediocri, che lo spettatore desidera veder morire dal primo all'ultimo, fatta eccezione per una Lorenza Izzo dagli occhi spiritati e ammaliatori, non sono capaci di reggere la baracca. Perché Roth, che piace perché terra terra, all'inizio si agghinda di ingiustificata serietà. Okay, uno dice, ci si abitua; ma, dopo uno scorcio di dramma che ha del realistico, eccoli lì. Terribili e involontari siparietti comici, tra attacchi di diarrea e fame chimica, tentativi di masturbazione e fuga, che fanno pensare più all'ultima, lercia commedia di Neri Parenti – lo conoscete Vacanze di Natale in Amazzonia? - che a un atto di ossequio verso una pietra miliare. Queste tribù fuori dalla civiltà, perciò, ha maggiore buon gusto di un Roth volgarissimo e paradossalmente timoroso. A volte, l'omaggio sembra avere i tratti dell'oltraggio; e quanto dispiace. (5)

Evan, californiano, abbandona gli Stati Uniti per l'Italia. Alle spalle, lascia un lutto e qualche debito: è povero in canna, vive giorno per giorno e, una volta atterrato, sceglie la Puglia. Louise, di origini italiane ma con un inglese perfetto, è bella e riservata: ha un occhio verde e l'altro castano, non torna tardi la sera, ha paura di innamorarsi. Nella sua città, muoiono misteriosamente numerosi randagi e, ogni primavera, approdano i turisti stranieri. I due protagonisti si conoscono, passeggiano, si piacciono. Ma lei ha un segreto da proteggere, lui soltanto una settimana per amarla. In uno speciale dedicato ad Halloween, cosa ci farà mai un melodramma indie di quelli che tanto amo, con i lunghi piani sequenza, le confidenze intime, il sentore dell'addio sin dalla prima sequenza; l'inizio che, al solito, suona come un lui incontra una lei? Spring è la trilogia di Linklater – essendo naturale, realistico, romantico – secondo Lovercraft. Una variante horror di Prima dell'alba, in cui il paranormale, in unione a un'originale mitologia, dà un brivido in più e la nostra bella Polignano a Mare – già al cinema, in questo periodo, con Io che amo solo te – offre scorci affascinanti, ma mai stucchevoli: vuoi la fotografia imprecisa, vuoi quelle ombre antiche che tingono di profondo rosso il sentimento tra due che si appartengono, ma non potrebbero. Si sa: io apprezzo gli amori fatti di tante parole e pochi fatti e indagare il soprannaturale. E i giovani Justin Benson e Aaron Moorhead, registi e autori di questa piccola rivelazione,sembrano avere confezionato per me una specie di ibrido ideale – un gradito regalo - con i ritmi lenti e le battute ironiche, i protagonisti convincenti e gli amori che, a ogni plenilunio, cambiano squame. Guidati da loro, neanche i quasi esordienti Lou Taylor Pucci e Nadia Hilker – tedesca, nonostante le forme mediterranee – appaiono senza timone. E dopo Twilight, preso in giro ma a capo di un nuovo filone tra il romantico e il paranormale, era estremamente difficile parlare della storia tra un umano e un'immortale, stando attenti a mode che uniformano, vuoi o non vuoi, e a miscugli che suscitano ilarità. In Spring, fieramente indipendente, si è così volentorosi da prendere a riferimento altri modelli, anche se inconsueti, e così sagaci da rendere credibile il magico. Prima offrirsi un gelato come una coppia qualsiasi, poi discutere dei difetti di un'esistenza secolare e dei pregi dell'invecchiare restando fermi. Spring è molte cose, ma soprattutto il boy meets girl più originale dell'anno. Allora il torto più grande che possa farti, in un'ultima notte tra le rovine di Pompei, non è farti dormire con la luce accesa, spaventarti. Ma spezzarti il cuore. (7,5)

A anni di distanza dal secondo Hostel, dopo numerosi film scritti e prodotti e una serie televisiva – l'affascinante Hemlock Grove – da lanciare, il buon Eli Roth torna, nello stesso anno, nello stesso post, non con uno, ma con due nuovi lungometraggi. Se The Green Inferno, con le aspettative elevate e gli alti rimandi, appare una delusione su ogni fronte – fuori luogo, poco brillante – questo Knock Knock, invece, visto appena il giorno successivo, sa fare leggermente dimenticare l'indicibile pochezza della riproposizione di Deodato e esempi di grottesca comicità involontaria. E, paradossale ma vero, con una trama all'apparenza più pruriginosa e uno svolgimento che poteva prestarsi alla cara, gratuita mattanza, qui Roth – sempre modesto: inutile specificarlo – sa però mostrare i piccoli segni di una maturazione giunta in ritardo e una scrittura che diverte senza grosse esagerazioni. Scelta curiosa. Perché Knock Knock – storia del perfetto padre di famiglia che, una notte, decide di darsi al sesso a tre con le ragazze sbagliate – ha un incipit da commedia sexy e lo svolgimento, procedendo con la visione, di un home invasion in cui i cattivi indossano la gonna corta e la vittima, comprensibilmente incapace di resistere a un corpo stuatuario, è un uomo per bene, sedotto e tormentato. Il cast è di bellissimi che, a onore del vero, se la cavano – accanto alle ninfette assassine Izzo e De Armas, il Keanu Reeves senza età. Ma, e con Roth ci sarebbe da aspettarsi l'esatto contrario, le torture raramente sono corporali: Knock Knock è un divertente thriller psicologico, una commedia nera; un onestissimo B movie che, nella sua ora e quaranta, si regge a dovere, con una dose di malizia che – questa volta – sopperisce alla mancanza di gore. A tratti, sembra un Hard Candy che va meno per il sottile – credete al fatto che queste due conturbanti diavolesse siano ancora minorenni? - o comunque un Funny Games da poco: patinato, ben musicato, ma anche dozzinale e rapido come piace a noi. Per tutti coloro che, sbagliando, pensano che un Eli Roth senza sangue e viscere sia come un cielo senza stelle. (6,5)

Due valigie ripescate nelle acque dell'Oregon. All'interno, il cadavere di una donna e di una bambina. La storia dell'omicida Chris Longo arriva alle orecchie di Mike Finkel, valido giornalista del Times dalla reputazione in caduta libera. True Story – annunciata storia vera sulle intime confidenze tra un autore fallito e un assassino che ha tutto da perdere – è un nevoso crime da Sundance, realista e teso. Cosa ci fanno in un faccia a faccia pieno di ritmo Jonah Hill e James Franco? A sorpresa, una gran bella figura. La strana coppia non perde mai credibilità e, in un trasfert freudiano che ha regole sue, si intrufolano l'uno nella vita dell'altro. La loro amicizia pericolosa, nata in interrogatori diventati corsi di scrittura creativa, è così intricata ed intrigante da sembrare finzione; ma, a volte, la realtà supera la fantasia, e in un mondo in cui i pozzi della cronaca nera offrono il petrolio più denso, l'esordiente Rupert Goold ci mette i volti giusti e tanto impegno. Il difetto che è che da True Story - il romanzo, targato Piemme, sarà in libreria a breve - alla fine ci si aspetterebbe un colpo di scena che non arriva. Con il rischio di risultare inconcludente, ma con l'abilità di saperti portare, dopo i momenti da cinema, coi piedi per terra. Ci si ricorda che è verità quando il coup de theatre non arriva e quando si realizza che quel criminale – qui interpretato dal Franco più in parte degli ultimi tempi, eccellente – è di vera carne. Dall'altra parte del vetro blindato, un Hill ineditamente serio e misurato e una dolcissima Felicity Jones. Ma il titolo, in fondo, annunciava una storia vera. Con tutte le incongruenze del caso. Con tutto ciò che non sapremo mai. (6,5)

Viaggi nel tempo e paradossi logici: ingredienti base dello sci-fi misterioso di cui non posso fare a meno. Coherence – girato con pochi spicci a casa di amici, ma messo in pratica dopo dieci anni di meditazione - aveva congetture stuzzicanti e recensioni positive. Cosa ci fa un altro te, in una o cento case fotocopie della tua? L'esordio di Byrkit non può certamente vantare interpreti di prima scelta, ma ha dalla sua teorie inquietanti e suggestive. Nella prima ora, perfetta, ho visto il grande potenziale; nel tempo rimanente, invece, il mistero si fa fine a sé stesso – stupisce, ma sfugge il senso della situazione – e, come dirlo senza svelare troppo?, si eleva a protagonista la bella Emily Baldoni e la forza della sua scelta, in una sorta di cupo Sliding Doors in cui puoi decidere tu quale porta aprire e quale vita lasciarti alle spalle. E mi sarebbe andata anche giù, la cosa, se solo avessi avuto più familiarità con il personaggio; se solo le figure che popolano le case tutte uguali di Coherence avessero avuto modo di raccontarsi allo spettatore. Ognuno ha i suoi ritmi, e Coherence ha dalla sua un ritmo forsennato, ma l'autore ha riposto troppa fiducia nell'effetto sorpresa, scarsa cura nella coerenza di relazioni e rapporti. I personaggi, così facendo, risultano figurine stilizzate, sprovviste della terza dimensione. Problema di una certa importanza, per me, se si decide di girare in interni limitati e con un cast ristretto. A un certo punto, nel film, si spiega il paradosso del gatto di Schrodinger: c'è un gatto, in una scatola, con un veleno mortale accanto. Il gatto è vivo o morto? Il gatto è vivo e morto, o così ho capito, più o meno, finché non apri la scatola e lo scopri da te. Ecco, Coherence mi piaceva di più nell'incipit, a scatola chiusa. (6)

mercoledì 28 ottobre 2015

Mr. Ciak - Speciale Halloween: Crimson Peak, The Final Girls, Chained, Curve, Tales of Halloween

Da Guillermo Del Toro, mi aspettavo qualcosa come Crimson Peak – elegante, simmetrico, gotico – sin dagli inizi della sua carriera. Quando vedevo Burton perdersi e Del Toro – poi passato alla graphic novel: un cambio di rotta che ho seguito, ma senza entusiasmi – primeggiare, in storie tutte ricami, ombre e splendori. Il ritorno al genere di appartenenza, con un horror finalmente – e finemente - tradizionale, omaggio ai romanzi d'appendice. La storia di Edith, giovane scrittrice, che sposando un uomo venuto da lontano sposa anche sua sorella e, di conseguenza, i loro misteri. E, sullo sfondo, c'è una magione in decadenza che trattiene entità malinconiche e custodisce gelosamente ogni segreto. Crimson Peak è per spettatori come me. Quelli che sono in pace con il mondo, con un castello a pezzi, gli scricchiolii e le nebbie ovunque, una Jessica Chastain al giorno – qui superba, accanto a una Wasikowska a proprio agio con le eroine romantiche e a un Hiddleston non abbastanza carismatico - che toglie la concorrenza di torno. Non è deludente, ma conforme alle aspettative: le mie, nonostante un'attesa di mesi e mesi, non tra le più elevate. Fantasticavo su un lato scenografico mozzafiato – e che aggettivo vago e spiccio che è, mozzafiato, ma davanti ai merletti di ragnatele, i buchi nel soffitto che accolgono i tasselli della natura che si spoglia e si riveste, le strutture affilate alla Dalì, i broccati raffinati e la neve macchiata dal cremisi dell'argilla è davvero impossibile non entrare in una fase di muta contemplazione estetica – e mi figuravo ritagli, originali ma non troppo, ma senz'altro bene assemblati, di articoli su crimini di sangue e collage di capolavori, a cura di uno che ama le notti buie e tempestorse e la magnificenza del decadente. La questione non è la paura, bensì il potere della suggestione; non è un horror tutto fremiti, questo, ma un prodotto romantico nel senso autentico del termine – eros e thanatos, le bizze di una natura indomabile, il sublime. E, a volte, si va al cinema semplicemente per restare con il naso all'insù, incantati. Ho avuto perciò quel che desideravano gli occhi – visivamente, è infatti tra le pellicole più affascinanti dell'anno – e un intreccio sobrio, equilibrato, che non commette passi falsi e, per il reverenziale ispirarsi a un canone classico, non rischia. Il difetto è che è un po' come lo immagini, ma poco importa: perché ci sono cose oggettive, e il bello è bello. Si gioca a carte scoperte sin dall'inizio – si conoscono i buoni e i cattivi, ma al quadro globale mancano ancora le motivazioni e la comparsa di spettri mostruosi, nonché di colpi di scena sparsi qui e lì – e, in un lungometraggio che ricerca i fasti di una volta, la dimensione eterea della fiaba nera, non è importante la novità che una scrittura meno citazionistica – o un altro twist – avrebbe forse conferito al racconto: alla fine, una Jane Eyre andata in sposa al consorte di Rebecca, tra le Cime Tempestose della brughiera britannica e i Giri di vite di una casa che vibra. Tutt'intorno aggiungete, con una pennellata a fantasia, il rosso – e in un epilogo cruento non si capirà se, a macchiare il bianco, sia poi l'argilla o il tanto sangue versato – e l'ululato del vento. Un sogno – o un bell'incubo? - che avrebbe potuto avere diritto a un architetto migliore. Ma, comunque, un sogno. (7)

L'horror è un genere che richiede viva partecipazione. Visione casalinghe con amici, ed ecco che partono – dal divano – coretti da stadio e reazioni a catena. Guardare un horror, infatti, è un po' come assistere a una partita della nazionale. Immancabili le imprecazioni, i consigli, gli insulti: il chiedersi, per tutto il tempo, io al posto loro cosa farei. Sicuramene, non commetterei gli stessi sbagli; sarei più sveglio; correrei più in fretta. Sogno di ogni amante del genere horror è farne parte almeno per un po'. Ipotesi surreale, ma estremamente divertente: catapultato nel bel mezzo dell'azione, in uno slasher vecchio stile, cosa combineresti? Qualcosa di simile capita a Max, figlia d'arte che, durante una proiezione in memoria della madre defunta - attrice amatissima che non ha mai sfondato –, finisce risucchiata nel lungometraggio che ha segnato, e bloccato, la carriera della genitrice. Sullo sfondo di un coloratissimo campeggio estivo, campo di battaglia di un serial killer che sembra il gemello di Venerdì 13, s'incrociano così generazioni distanti e spassosi cliché che, negli anni ottanta come nei duemila, puntualmente si ripetono: ricordiamo la bella (ma non per questo crudele) Nina Dobrev, l'adone (ma non per questo stupido) Alexander Ludwig, la dimessa (ma non per questo sprovveduta) Taissa Farmiga, insieme a una splendida Malin Akerman – mamma sprint a cui dire addio di nuovo, in un Ricomincio da capo da brivido – che, come il suo personaggio, ha vissuto di serial troncati e occasioni sprecate. Rapporti credibili e toccanti, omicidi non troppo crudi, battute fulminanti e citazioni sparse a piene mani conducono lo spettatore – nostalgico, e perciò conquistato – verso un epico finale, che necessita di un sequel a portata di mano. The Final Girls è a metà strada tra la parodia e l'omaggio: commedia horror semiseria, in cui niente è lasciato al caso – anche l'attorniarsi di attori del piccolo schermo, imprigionati in luoghi comuni da sventare – e il leitmotiv di Bette Davis Eyes conduce lontanissimo, nei mondi vintage e un po' kitsch riscoperti da poco dalla televisione – state seguendo Red Oaks? - e in un intelligente gioco di metacinema che non ci godevamo, forse, da Quella casa nel bosco. Qualche angelo dotato di abbondante autoironia, lassù, se ne procuri una copia per il Wes Craven che ancora ci manca: lo adorerebbe. (7,5)

In un pomeriggio come tanti, Sarah e suo figlio, per viziarsi, decidono di prendere un taxi anziché il solito autobus. Ma, come dice un vecchio proverbio, chi lascia la strada vecchia per la nuova sa cosa lascia e non sa cosa trova. Bob, l'appesantito e anonimo tassista che dovrebbe portarli a casa in un lampo, è infatti un serial killer. Nella sua carriera di assassino, in quella vita modesta in periferia a cui solo l'omicidio ha dato un brivido in più, ha collezionato donne e donne. I loro corpi straziati, sepolti nello scantinato. Quello è il destino della giovane madre che vediamo nelle sequenze d'apertura – una Julia Ormond di passaggio – e che diventerà l'ennesimo ritaglio di giornale nel sempre più nutrito museo del tassista omicida. Chained è la storia di quel bambino incatenato al pavimento, poi adolescente, e dello squilibrato che lo renderà suo personale schiavo, nonché figlio adottivo. Il thriller di Jennifer Lynch – degna figlia di papà David -, uscito ormai quattro anni fa e da poco reperibile in versione homevideo, è un prodotto nudo e crudo. Una quotidiana storia di ordinario orrore che spicca per una regia personale e ambienti chiusi, che lo rendono angoscioso e verisimile. Il tutto, grazie a una sceneggiatura poco innovativa ma che ha infinita cura del vissuto dei suoi personaggi e a due protagonisti che, per tutto il tempo, reggono abilmente il gioco. Eamon Farren, giovane scheletrico e pallido; un inquietante Vincent D'Onofrio – al contrario, sovrappeso e paonazzo – che è un antagonista che si ricorda volentieri per il lavoro minuzioso di un caratterista che quest'anno, sotto l'occhio vigile della Netflix, già è stato un esemplare Kingpin. Girato quasi interamente in interni ristretti, a tratti sembra un realistico dramma a cui manca soltano il consueto tratto da una storia vera. Tant'è vero che lo spiazzante colpo di scena che arriva sul finale – imprevisto, ma superfluo – sembra di troppo: d'effetto, al contrario, i passi attutiti e i rumori che si avvertono mentre lo schermo si fa buio e i titoli di coda, dopo un'ora e trenta, calano insieme al sipario. A una saracinesca che, come in Saw, ci intrappola in preda dei nostri demoni. Allora, peggio la compagnia di un mostro o quella della solitudine? (7)

Mellie sta per sposarsi. Viaggia in auto, con l'abito bianco nel bagagliaio, in compagnia di una compilation di vecchi successi degli anni ottanta e di qualche ripensamento. Finché, come da copione, non è costretta a fermarsi nel deserto. In suo aiuto, un passante che le strappa anche un passaggio. Ma Christian, e nel copione c'è anche quello, è un predatore sessuale che ha già mietuto vittime. Per liberarsi di lui, la protagonista imbocca una brusca curva, finendo fuori strada. L'auto capovolta e lui a piede libero; lei, al contrario, è lì con un arto bloccato. Contro la fame e la sete, i roditori e una minacciosa allerta meteo. Il suo aguzzino che va e che viene, guardandola contorcersi. A favore di Curve, il fatto che non sia l'ennesimo The Hitcher. La sfida della protagonista – a lungo sola – ricorda più 127 ore, con un pizzico vago di L'enigmista. La disavventura di una ragazza in difficoltà, in balìa prima della natura e poi della violenza degli uomini, si rivela così un survival  non male, che non brillerà per originalità e non sarà ricordato a lungo, ma scorre. Distribuito dalla Universal e pensato per il noleggio, Curve è stato un passatempo inaspettatamente valido, in una domenica pomeriggio in cui cercavo un thriller leggero per riempire il tempo e, se possibile, questo post qui. L'ultimo film di Iain Softley – e il regista di Skeleton Key non è il primo venuto - arriva da noi per vie traverse e si rivela più piacevole del previsto. Ben diretto, con una tensione che perdura e due soli attori a reggere il tutto: la carinissima Julianne Hough, qui anche molto convincente – le curve del titolo chissà che non si riferiscano proprio alle sue –, e un Teddy Sears sornione e luciferino. (6)

Una baby sitter paga care le prepotenze verso il piccolo di casa; un vecchio diavolo e un bambino, suo allievo, vanno in giro a fare danni; una manciata di amici di mezza età sono terrorizzati da un gruppo di bambini in cerca di vendetta; l'evocazione di un demone, in soccorso a un ragazzo oggetto di bullismo; una ragazza seguita a casa da uno spirito malevolo; due coniugi con il desiderio insano di un erede; una guerra tra vicini per le decorazioni migliori; Jason contro un extraterrestre; rapitori senza scrupoli che rapiscono il bambino sbagliato; una zucca assassina che fa stragi. Dieci registi, dieci storie, dieci scuse per andare a dormire più tardi – e magari con la luce accesa. Tales of Halloween, film a episodi capace di una sua linearità e di una lodevole dose di brillante ironia, è di un genere – come vi hanno rivelato i miei dubbi verso l'acclamato Storie Pazzesche – che non tollero. Ma perfino il me che evita i racconti, le antologie di genere, non ha potuto che apprezzare. Questa volta, con poche riserve e tante risate. Il film ha qualche nome promettente alla regia – Bousman, McKee, Marshall -, qualche volto noto a bordo – ad esempio, occhio ai cameo di Landis e Dante -, qualche episodio degno di nota – su tutti, gli efficaci Trick e Ding Dong. Ora i bagni di sangue, ora l'umorismo nero; ora una beffarda morale, ora la scusa da poco per una mattanza gratuita. I toni sono leggeri, gli stili vari e il tempo vola. I vicini mascherati schiamazzano, le nebbie si sollevano e i bambini – sempre vessati da adulti immorali, dispettosi – si divertono ad affilare i coltelli. Loro, anche più dei grandi, adorerebbero lo spirito di Tales of Halloween: quasi natalizio, con le case addobbate, i caminetti accesi, il divertito gioco di causa-effetto (tu fai qualcosa di sbagliato, loro ti puniscono) come in Mamma ho perso l'aereo e company. Il senso del contrario e del proibito. Un dolcetto con trappola; uno scherzetto simpatico, alla giusta distanza dal trash. (6+)

lunedì 26 ottobre 2015

Recensione: Ragazze di campagna, di Edna O'Brien

Mi mancava Baba. Mi aiutava a restare coi piedi per terra. Mi impediva di rimuginare di continuo sulle cose.

Titolo: Ragazze di campagna
Autrice: Edna O'Brien
Editore: Elliot
Numero di pagine: 256
Prezzo: € 13,50
Sinossi: La timida Caithleen sogna l'amore, mentre la sua amica Baba, sfrontata e disinibita, è ansiosa di vivere liberamente ogni esperienza che la vita può regalare a una giovane donna. Quando l'orizzonte del loro piccolo villaggio, nella cattolicissima campagna irlandese, si fa troppo angusto, decidono di lasciare il collegio di suore in cui vivono per scappare nella grande città, in cerca d'amore ed emozioni. Alla sua pubblicazione, avvenuta nel 1960, l'esordio narrativo di Edna O'Brien, fortemente autobiografico, suscitò reazioni di sdegno e condanna che andarono ben oltre le intenzioni di una sconosciuta autrice poco più che ventenne: il libro fu bruciato sul sagrato delle chiese e messo all'indice per aver raccontato, per la prima volta con sincerità e in maniera esplicita, il desiderio di una nuova generazione di donne che rivendicava il diritto di poter vivere la propria sessualità.
                                                La recensione
Nella religiosa Irlanda dei primi anni sessanta, si racconta come l'esordio di Edna O'Brien – giovane e spregiudicata ragazza di paese, che rifletteva, in quel breve romanzo parzialmente autobiografico, sulle necessità, gli amori, i viaggi – avesse suscitato immenso clamore. La sua penna, eppure semplice e delicata, era stata come un bastone in un vespaio. Le sue riflessioni sulla famiglia, l'istruzione scolastica, il sesso – prerogative dell'adolescenza di ogni dove e di ogni epoca – avevano sollevato i ronzii dei benpensanti, le ire funeste dei cattolici. Ragazze di campagne, primo capitolo di una trilogia che segue, negli anni, la crescita di due migliori amiche che si amano e si odiano di vero cuore, era il romanzo di formazione da inserire nell'indice dei libri proibiti, da bruciare pubblicamente sui sagrati delle chiese. Coma appare, oggi, con le menti aperte e i giovani smaliziati, questo classico moderno da poco riscoperto e salvato dal pregiudizio di un pubblico tanto ipocrita quanto moralista? 
Ragazze di campagna – a cui seguiranno La ragazza dagli occhi verdi e Ragazze nella felicità coniugale: già in lista, perché il finale sospeso lascia qualche dubbio e una visione opaca dell'insieme – mi ha ricordato il primo volume della saga di Elena Ferrante – da Dublino a Napoli, non cambia molto se si parla di amicizie al femminile e voglia di altrove – e quei film in bianco e nero, trasmessi nel tardo pomeriggio, che conservano ancora il loro fascino. Tornare a pubblicare la O'Brien, tornare a parlarne, è un po' come restituire loro il colore, in un magico lavoro di restauro: nel tentativo, quasi, di recuperare il tempo perduto. Poco attirato quando si parla di classici o aspiranti tali, confuso da chi lo adorava e da chi, al contrario, lo trovava una delusione, l'ho tenuto a mente, ma lasciato in forse. Quando, al solito mercatino, per due euro, ho portato a casa la nuova edizione Elliot il forse si è trasformato in sicurezza. Com'è il romanzo su cui ogni blogger ha detto la sua, usando i toni più disparati? Ragazze di campagna è la storia dell'adolescente che posa sulla copertina italiana: Caithleen ha i capelli rossi, le scarpe consumate, una valigia di cartone con pochi beni all'interno. Alle sue spalle, i campi e un casolare da abbandonare, dopo la morte della madre e i debiti di un padre alcolista, ma con la voglia di redimersi. Da qualche parte lì vicino, se fosse possibile una panoramica, vedremmo la villa dell'amica Baba; al contario suo, ricca, viziata e appariscente. 
Con un papà a cui non dà il rispetto meritato, una mamma che sogna il cinema, un fratello spocchioso e una casa grandissima, piena di stanze e meraviglie, in cui la sfortunata Caithleen – però più intelligente e coscienziosa – è sempre la benvenuta. Finché non attira le attenzioni del Signor Gentleman, uomo attempato e facoltoso, e i suoi voti alti non le valgono una borsa di studio in città. L'amicizia tra Caithleen e Baba, allora, si fa simile a quella tra le nostre care Lila e Lenù: la fedeltà cieca e la competizione spietata. La O'Brien le seguirà dai quattordici ai diciotto anni, in questo titolo. La vita in periferia, l'arrivo in una scuola cattolica, la fuga a Dublino: senza un'istruzione ma con un sogno. Farcela. E, soprattutto, innamorarsi perdutamente, come succede al cinema. L'autrice, all'epoca della prima stesura loro coetanea, è attenta agli stati d'animo e agli sfondi; ai cuori in subbuglio e alle città straniere che cambiano, cambiandoci. Ma anche ai miracoli del trucco, alla vanità delle sue piccole donne, alla caccia spietata di uomini ricchi e depravati nei riguardi delle due protagoniste, materiali e sciocchine, che rischieranno di dimenticare – stordite dagli apertivi e dalle luci sfavillanti di Dublino – la retta via e i lati positivi di quella loro strana amicizia, mai del tutto disinteressata. Il bello, in Ragazze di campagna, è che tutto ciò che i più grandi affermano si rivela vero – presenti, e cito i commenti in copertina, la spontanea originalità, l'ironia, l'innovazione, lo scandaloso puzzle di desideri femminili – ma, a prima vista, non si direbbe; sapete? Il brutto, per molti e anche un po' per me, è quindi che, durante la lettura, se ne senta poco l'importanza. Pregi e difetti, vizi e virtù, di una scrittura che è lieve, disimpegnata, attuale: con l'acuto rischio, senza avere i seguiti a portata di mano, di risultare però senza peso.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Tori Amos – Cornflake Girl

venerdì 23 ottobre 2015

Recensione a basso costo: Una brava ragazza, di Mary Kubica

Perfino le brave ragazze hanno la tentazione di rubacchiare gli orecchini in un centro commerciale. Gli adolescenti ritengono di essere invincibili. I figli senza difetti, quelli impeccabili, mi preoccupano molto di più.

Titolo: Una brava ragazza
Autrice: Mary Kubica
Prezzo: € 4,90
Editore: Newton Compton
Numero di pagine: 317
Sinossi: Mia Dennett è figlia di un importante giudice di Chicago, ma ha scelto di condurre una vita semplice, lontana dai quartieri alti e dalla mondanità in cui è cresciuta. Una sera come tante, entra in un bar per incontrare il suo ragazzo ma, all'ennesima buca di lui, Mia si lascia sedurre da un enigmatico sconosciuto dai modi gentili. Colin Thatcher - questo il vero nome del suo affascinante nuovo amico - sembra il tipo ideale con cui concedersi l'avventura di una notte. Peccato che si rivelerà il peggior errore della sua vita: Colin infatti è stato assoldato per rapirla. Ma quando Thatcher, invece di consegnare l'ostaggio, decide di tenere Mia con sé e di nasconderla in un remoto capanno del Minnesota, il piano prende una piega del tutto inaspettata. A Chicago, intanto, la madre di Mia e il detective Gabe Hoffman, incaricato delle indagini, sono disposti a tutto pur di ritrovare la ragazza, ma nessuno può prevedere le conseguenze che un evento tanto traumatico può avere su una famiglia apparentemente perfetta...
                                                 La recensione
Qualche anno fa, non ci avrei pensato due volte ad acquistare un romanzo come Una brava ragazza. Le donne, quando si parla di thriller, sono più brave dei colleghi uomini: naturalmente eleganti, scaltre, figure da noir. E quando non sono soltanto autrici, ma anche protagoniste di un mistero annunciato, c'è da aspettarsi più scaltrezza, una crudeltà che va per il sottile: con loro, la vendetta è un piatto da servire freddo e, possibilmente, al sangue. Caso eclatante, uno dei gialli più acuti e spietati degli ultimi tempi, scritto magnificamente: L'amore bugiardo. Chi attraverso il folgorante romanzo della folgorante Flynn, chi grazie alla trasposizione non da meno a cura dal maestro Fincher, si è arrivati comunque – in un modo o nell'altro – al cospetto dell'algida Amy Dunne. Ghiaccio bollente, come direbbe Hitchcock; la donna che nessuno può dimenticare. O piantare in asso. Se non mi sono dunque avvicinato immediatamente al fortunato esordio di Mary Kubica, uscito a gennaio e, qualche mese dopo, già disponibile in una edizione tascabile dal prezzo stracciato, è perché le fascette promozionali, i commenti che hanno preceduto il mio, i critici d'oltreoceano sembravano trovare, almeno una volta al mese, la sostituta lampo di Gillian Flynn – tra fiori d'arancio in giallo, matrimoni ai ferri corti, attrazioni mortali e ragazze della porta accanto dal cuore nero. Per un mese e qualcosa, Una brava ragazza – con un punto interrogativo accanto – è stato L'amore bugiardo di turno. La bellezza bionda in copertina, innocente e sinistra come la Dunst ai tempi di Il giardino delle vergini suicide, cosa aveva mai da nascondere, con l'indice sulle labbra – per intimare silenzio – e una vicenda di rapimenti e riscatti? Cosa avevano in comune “the good” e “gone” girl? Me lo chiedevo da un po', ma l'ho scoperto soltanto mesi dopo; solo adesso. Quando ho opzionato per la solita libreria per ripararmi dalla pioggia e per un romanzo alla mia portata da portare in autobus e poi a casa, durante un fine settimana che mi avrebbe voluto senza libri sul comodino. Letto in una manciata di giorni, nonostante il font piccolo, mi sono trovato, per nulla pentito dell'acquisto, a definirlo una buonissima opera prima, ma un thriller alquanto piatto. A colpirmi positivamente, la struttura polifonica, quasi, e l'accuratezza dell'autrice: a personaggi verisimili, a una gestione fuori dall'ordinario di ben quattro punti di vista differenti, purtroppo non corrisponde una stessa originalità, se si parla di suspance. Il romanzo si snoda in capitoli che alternano voci diverse, un prima e un dopo. 
In una pagina Mia Dennett, figlia di un giudice senza scrupoli, è prigioniera; nell'altra è finalmente libera, seppure affetta da una inspiegabile amnesia: dei suoi tre mesi passati sotto sequestro, ricorda i disegni affidati al suo taccuino, la compagnia di un gatto randagio e la premura di un orco meno dispotico di quanto dicano i giornalisti. I narratori sono tre – Mia, infatti, interverrà soltanto nell'epilogo, per raccontarci una verità che nemmeno sorprende. Abbiamo Eve, la madre della protagonista e moglie trofeo: una cinquantenne piacente, affabile, profondamente addolorata dalla scomparsa di una figlia ribelle e indipendente che non ha saputo proteggere né da un pericoloso pregiudicato, né dalle parole scortesi di un padre padrone; Gabe, detective di mezza età di origini italiane: uomo di buon cuore e buona forchetta, sensibile al fascino di una signora in lacrime e al richiamo della giustizia; Colin, il rapitore dal passato triste, che dovrebbe consegnare nelle mani di famigerati colleghi la ragazza a cui punta la pistola alla tempia, ma che a modo suo porta in salvo, attirando le attenzioni di delinquenti meno compassionevoli di lui e delle forze dell'ordine in allerta. In fine, c'è Mia: venticinquenne che ha rifiutato l'aiuto di una famiglia altolocata, all'università, per dedicarsi all'insegnamento e vivere di poco. Sarà così gentile, così perfetta, la giovane donna di cui, per tutto il tempo, si parla, senza che lei parli per sé? La neve che cade incessante, con il Natale che arriva, e una convivenza forzata in un capanno in mezzo al nulla, bastano a rendere Colin e Mia confidenti. 
Per renderli Owen e Chloe: pseudonimi con cui fingersi, nell'attesa della fine, qualcosa di più che aguzzino e vittima. Magari, complici. Mentre là fuori proseguono le indagini e gli struggimenti di una casalinga inconsolabile, Mary Kubica prende figure agli antipodi e conferisce delicati tocchi romance a un libro che, almeno per me, funziona più quando parla di sentimenti nati all'improvviso – dove finisce la sindrome di Stoccolma, infatti, e dove comincia l'amore? - che di colpi di scena che, in ritardo, non aggiungono nulla di nuovo a quanto letto. Mi ha ricordato l'onesto Fragili e Preziose, ma più ingarbugliato e meno sentimentale; l'esecrabile Black Ice, che resta più un siparietto trash che un romanzo degno di questo nome. I suoi limiti sono in attese mal riposte, ingiustificate, e in etichette che sbagliano. Una brava ragazza non è il grande thriller annunciato in copertina, né un thriller vero e proprio: non abbastanza accattivante, all'acqua di rose. Tuttavia, sia per l'ottima gestione dei tempi che per un lavoro certosino con l'uso dei quattro pov, al contrario che nel mediocre La ragazza del treno, è un romanzo – ma senza un genere suo – che non sconsiglio. Grazie a una penna matura e, soprattutto, a un'autrice assai notevole. Brava, sicuramente più della ragazza del titolo che - dietro referenze impeccabili e un'aria angelica - forse non la racconta giusta...
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Rihanna Feat. Eminem – The Monster

mercoledì 21 ottobre 2015

Recensione [libro e film]: I segreti di Brokeback Mountain - Gente del Wyoming, di Annie Proulx

La camicia pareva pesante, ma poi Ennis si accorse che all'interno ce n'era un'altra, con le maniche accuratamente infilate dentro quelle della camicia di Jack. La sua vecchia camicia scozzese persa tanto tempo prima: sporca, con il taschino strappato, i bottoni saltati, rubata e nascosta. Eccole là, come due pelli, una nell'altra.

Titolo: Gente del Wyoming – I segreti di Brokeback Mountain
Autrice: Annie Proulx
Editore: Dalai Editore
Numero di pagine: 51
Prezzo: € 9,30
Sinossi: In Gente del Wyoming, Annie Proulx, che ormai si è affermata come una delle poche e indiscussi eredi della grande tradizione narrativa nordamericana, è riuscita a fare un piccolo miracolo. L’intreccio è una specie di ingranaggio esplosivo. I due personaggi centrali sono uomini semplici, rudi cowboy abituati alle lunghe solitudini delle transumanze e dei pascoli estivi. Nel desolato paesaggio, tra i due gradualmente si accende una passione erotica, una vera pulsione amorosa. Siamo però nel cuore dell’America tradizionale, dove i ruoli sessuali sono rigidi e le identità tagliate a colpi di accetta e di autocensure. Questo sentimento “proibito” è quindi destinato a scatenare conflitti, che sconvolgeranno tutto il loro mondo. Da questo romanzo e’ stato tratto il film di Ang Lee “Brokeback Mountain”, vincitore del Leone D’Oro alla Mostra del cinema di Venezia 2005.
                                               La recensione
Tu non hai voluto saperne, Ennis, e adesso quel che abbiamo è Brokeback Mountain.
Tutto costruito su quello. Fai il conto di quanti pochi minuti siamo stati insieme, in vent'anni. Io non sono te. A me non bastano un paio di scopate ad alta quota un paio di volte l'anno.Tu sei troppo importante per me, Ennis, figlio di una puttana troia. Vorrei riuscire a mollarti.” Sono due poveri diavoli, in cerca di un impiego per l'estate. Si scrutano furtivamente, appoggiati ai loro pick up rugginosi, e si domandano senza dirselo se troveranno un punto in comune, spunti per fare quattro chiacchiere, in quei tre mesi di solitudine, in alta montagna. Sono giovani mandriani, con ancora le facce belle della gioventù, ma le mani già segnate per la fatica dei campi: conservano banconote in un barattolo, sognando di mettere su famiglia e di essere proprietari di un piccolo appezzamento di terra; finalmente, non più schiavi. Fuori, tutt'intorno, la natura mostra i suoi volti nascosti, con il sole battente, la grandine all'improvviso, la neve ad agosto. Dentro, in una tenda, nel frattempo, Ennis Del Mar – tanto secco che, se non fosse per gli stivali pesanti, potrebbe soffiarlo via il vento - e Jack Twist – i denti a zappa, i fianchi larghi, la cintura con la fibbia dei rodei - scoprono la loro, di natura. In quell'estate di fatica e passione che va a intaccare, così, vent'anni e due vite parallele. Un avvenire intriso di malinconia che vive di rari incontri, spizzichi e bocconi, immensi rimpianti. Struggendosi nel ricordo di un fazzoletto di terra, un ruscello, un misero sacco a pelo contro la tempesta. Tutto quello – ed era poco, pochissimo – di cui c'era bisogno per volersi bene alla luce del sole. Brokeback Mountan potrebbe smettere di essere una bolla di sapone, un'isola che non c'è, se tutti sanno – lo raccontano, nelle bettole, contadini ciarlieli – qual è il destino degli uomini che vivono senza donne, nel sospetto perenne del vicino di casa? Un acro di felicità vale forse una vita piena di bugie? Per tutto il tempo, allora, i due immensi protagonisti si fronteggiano, tremanti. Gli speroni piantati a terra, le braccia ai lati, per prendere pistole – o scudi, ché a volte serve solo proteggersi – invisibili. Lo sguardo rassegnato, ma fiero. Occhi che sembrano lampeggiare e dire: ora lo stritolo, lo ammazzo. Ora lo bacio. Il cuore vuole una cosa, il corpo un'altra. Messi alle strette, l'uno si adatta all'altro. Sembra tutto facile, no? Quest'anno, I segreti di Brokeback Mountain compie dieci anni. All'epoca ero bambino, frequentavo la quinta elementare, forse la prima media, e la storia dei due cowboy innamorati mi faceva ridacchiare. Se solo fossi stato a conoscenza, invece, delle lacrime e dei nervi, ogni volta, in agguato... Era il duemilacinque. Grandi attori avevano rifiutato il ruolo, troppo forte l'imbarazzo, e il dramma declinato al maschile di Ang Lee era stato sottoposto a una censura tanto inspiegabile quanto spietata. Tante cose sono cambiate, per fortuna, anche se il film, vietato ai minori di quattordici anni, con l'America che ha detto sì e Facebook che si è tinto di arcoboleno per qualche giorno, è tutt'ora destinato a repliche in tarda serata, su canali secondari. 
Quando invece vent'anni fa, dunque dieci anni prima, un altro cowboy romantico ci aveva mostrato, anche se con toni più melensi, qualcosa di simile: l'acre faccia del rimpianto. I ponti di Madison County, come il più impegnato Brokeback Mountain, è il ritratto dell'amore che, a un bivio, aspetta che la vita – lenta, inesorabile come un camion dal carico pesante – liberi il passaggio a due che, da un lato e l'altro della strada, si guardano senza potersi raggiungere. In mezzo, un mare di pedoni che giudicano senza clemenza e schiere di coniugi che non possono chiudere un occhio una volta di troppo. Sergio Leone, parlando di Eastwood, lo diceva dotato di due espressioni messe in croce: con e senza il cappello. Ennis Del Mar ha un cappello per tutte le stagioni, invece, e una sola espressione – è rassegnato; è stato un bambino triste e un adulto a metà – ed è perciò che strazia quando, nei suoi occhi, spunta un luccichio, nella scena in cui – dopo quattro anni – rivede Jack. Lo aspetta con addosso il completo buono: un jeans senza toppe, una camicia stirata a puntino da Alma, la moglie. Lo chiama piccolo mio, in quell'intimità spiata da una partner giustamente sospettosa, giacché non conosce tenerezze, burbero e pragmatico com'è, se non quelle che rivolge alle sue figlie. E' giusta la sua tristezza? E' giusta quella di una moglie che lo ama – una dolcissima Michelle Williams – ma che deve accettare di condividerlo con un altro? Heath Ledger, qui, e per questo la sua scomparsa è così dolorosa, è come il giovane Eastwood secondo Leone, ma migliore. Laconico, scostante, fedele come un cane pastore. Sembra mettersi meno in gioco, non tenere altrettanto a quel Gyllenhaal chiacchierone e solare; meno angosciato senz'altro, quest'ultimo, da una sessualità che, probabilmente, per lui non era un mistero da un po'. Il Jack Twist sempre in moto, sempre innamorato. Bisognoso di certezze e piani di riserva – ad esempio, una compagna intelligente e capace come quella Anne Hathaway in carriera. Ma, come gli rivela nell'ultimo, indimenticabile confronto, è per Jack che Ennis ha messo in pausa matrimonio e lavoro. 
Per potere scattare alla porta, pimpante e puntuale, sentendo scricchiolare il suo camioncino sulla ghiaia del vialetto di casa. Allora non resta che l'eco di quella dannata armonica scordata e due camicie, appese sulla stessa gruccia, mai lavate, che sopravvivono, insieme a una cartolina, alla maledizione dei compromessi e perfino a loro stessi. Fu pioggia di candidature e qualche statuetta guadagnata – anche se sembra eccessiva quella a un Ang Lee con un progetto sì coraggioso, ma una regia, purtroppo, poco più che modesta; i pugni chiusi di Heath Ledger, straordinario, meritavano indubbiamente riconoscimenti più del resto – per un film storico: una delle ingiustizie più grandi commesse dall'Academy – quell'anno, gli preferirono il dimenticabile Crash – e tra le storie d'amore più commoventi del decennio passato. Alla sua base, il racconto asciutto, rapido e indolore di un'autrice Premio Pulitzer. Un'attenta descrizione di quello che succede intorno a loro, fuori, ma non di inquietudini laceranti e battiti mancati. Più cronaca che narrazione, dunque, laddove abbondano le descrizioni paesaggistiche e scarseggiano, sfortunatamente, gli stati d'animo. Scene in rapida sequenza; dialoghi calzanti, ripresi per filo e per segno nel lungometraggio. Ma non ci si sbilancia, non si dice altro che non si sappia già. Li ha sentiti più Lee – a cui tanto si può rimproverare, ma non un'emozione latitante: in caso contrario, fatevi controllare il cuore; c'è qualcosa che non va – che la Proulx. Valida narratrice, non aiutata da quelli che per me sono i pochi pregi e i molti difetti della dimensione del racconto. C'è però la verosimiglianza. La realtà rude che il cinema poi finisce per abbellire – vedi i protagonisti, scelte secondarie della produzione, quasi ultime ruote del carro, che sono (o erano) tra gli attori più corteggiati e richiesti – e il sentimento che la grazia dell'immagine e la forza di interpretazioni maiuscole, poi, acuisce. E' così breve, è cosi veloce, che – leggendolo – non si immagina di trovarsi davanti a una storia grande, entrata immediatamente, di petto, nell'immaginario collettivo. Avendo visto già il film, sembra un riassunto. Un racconto basato su una sceneggiatura, e non viceversa. Se la lettura non è imprescendibile, la visione sarà al contrario necessaria – stessa cosa, lo scorso anno, avevo detto parlando del deludente romanzo che aveva ispirato, negli anni novanta, il triste randez vous tra Eastwood e la Streep. La vita è breve, l'amore è lungo. Ma, accanto alla persona sbagliata, nel letto sbagliato, accade il contrario. Gli aggettivi si invertono. La vita si allunga a dismisura – e come passarla, se sei condannato a una gioia clandestina? - e l'amore si accorcia – in incontri tra amanti pieni di vergogna, e in sprazzi di libertà che ti fanno sentire contento e colpevole. Non sprecate un attimo, perciò.
Per dire “Jack, io giuro”, usate questa vita. Usate questo amore.
Il libro: ★★★ Il film: 8
Il mio consiglio musicale: Gustavo Santaolalla - The Wings

lunedì 19 ottobre 2015

Recensione a basso costo: Io non ho paura, di Niccolò Ammaniti

I mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri.

Titolo: Io non ho paura
Autore: Niccolò Ammaniti
Editore: Einaudi
Numero di pagine: 216
Prezzo: € 10,00
Sinossi: In questo romanzo Niccolò Ammaniti va al cuore della sua narrativa, con una storia tesa e dal ritmo serrato, un congegno a orologeria che si carica fino a una conclusione sorprendente: e mette in scena la paura stessa. Michele Amitrano, nove anni, si trova di colpo a fare i conti con un segreto cosi grande e terribile da non poterlo nemmeno raccontare. E per affrontarlo dovrà trovare la forza proprio nelle sue fantasie di bambino, mentre il lettore assiste a una doppia storia: quella vista con gli occhi di Michele e quella, tragica, che coinvolge i grandi di Acqua Traverse, misera frazione dispersa tra i campi di grano. Il risultato è un racconto potente e di assoluta felicità narrativa, dove si respirano atmosfere che vanno da Clive Barker alle Avventure di Tom Sawyer, alle Fiabe italiane di Calvino. La storia è ambientata nell'estate torrida del 1978 nella campagna di un Sud dell'Italia non identificato, ma evocato con rara forza descrittiva. In questo paesaggio dominato dal contrasto tra la luce abbagliante del sole e il buio della notte, Ammaniti alterna, a colpi di scena sapienti, la commedia, il mondo dei rapporti infantili, la lingua e la buffa saggezza dei bambini, la loro tenacia, la forza dell'amicizia e il dramma del tradimento.
                                              La recensione
Ricordo che, da piccolo, si andava dai miei nonni una volta all'anno. Ci fermavamo di più rispetto ad ora – due settimane, spesso anche un mese – e che il viaggio dalla Sicilia alla Campania era un'odissea di curve brusche e chilometriche attese. Qualche volta prendevamo la nave e, tutti insieme, ci stringevamo in una cabina: io e mio fratello lottavamo per il secondo piano del letto a castello e, di notte, durante la traversata, guardavamo il mare dall'oblò. Per anni, ovviamente, i miei ci hanno protetto dall'epilogo di Titanic – in ballo, le nostre preoccupazioni e i loro nervi. Durante uno degli ultimi viaggi, prima di trasferirci, durante una cena in famiglia – al tempo ero buono buono e tali ricorrenze non mi annoiavano; noi bambini sedevamo a un tavolino a parte, vicino al camino – i miei cugini avevano iniziato a parlare dell'ultimo film che avevano visto al cinema, accompagnati dalla scuola. Che invidia! L'anno prima, con la maestra, eravamo andati a vedere, dalle mie parti, il Pinocchio di Benigni: perfino all'epoca, lo avevo trovato bruttissimo. Avevo rovinato l'entusiasmo di bambini che avevano visto, chissà dove, la magia. I miei cugini – e anche la più piccola di loro, che era addirittura una femmina: somma ingiustizia – erano stati a vedere Io non ho paura. Quanto avevo sperato di vederlo anch'io, quel film o, nell'attesa che passasse in tivù, di leggere il romanzo: non ero ancora un gran lettore, ma mamma – abbonata a Mondolibri – mi aveva letto a voce alta la trama su uno dei loro opuscoli pubblicitari. Da amante dei racconti da brivido, spettatore a tradimento di horror che non avrei dovuto guardare, mi si era ficcata in testa quella storia: un protagonista con il mio nome – e, quando vivevo in Sicilia, nessuno si chiamava come me; forse, solo il proprietario dell'alimentari all'angolo – e la scoperta di un segreto più grande di lui. Ero convinto che l'altro Michele, che aveva nove anni come me e viveva al Sud come me, sarebbe stato in pericolo per – mia ossessione a quell'età – le sette sataniche. Al telegiornale si parlava tanto delle Bestie di Satana, dodici anni fa, e, al mio paese, animali fatti a pezzi e minacce sparse non si sapeva bene se fossero colpa della criminalità locale o di Lucifero in persona. Nelle ronde in bici con i miei compagni di classe – anche noi, come i protagonisti, ci spingevamo oltre il seminato, padroni di un boschetto di ortica e fiori che puzzavano come carogne – ci sfidavamo a chi diceva più parolacce e a mostrare coraggio da leoni. Anche in quel caso, ruoli che si ripetevano: un bullo come Scheletro, che ridacchiava alle mie spalle, in seconda elementare, minacciando di annegarmi nella piscina comunale; un migliore amico come Salvatore che, però, non mi ha tradito mai, anche se la vita e la lontananza ci hanno divisi; l'unica ragazza del gruppo, tormentata dai maschi come Barbara, ma assai più graziosa e assolutamente ben disposta ad affrontare maliziose penitenze; il fratello minore che ti fa perdere il ritmo della sfida – nel romanzo è una sorella, Maria – e che puoi insultare solo tu, guai gli altri. 
E restavo io, Michele, simile a Michele lui: quello curioso, anche a costo di farsi male, come il gatto del detto popolare; quello meno svelto e meno capace degli altri, anche se era abile nel dissimularlo. Il più sveglio. Con una mamma bellissima e che correva – e picchiava: quante punizioni e quante “cucchiarelle” rotte? - forte, un papà carabiniere – dall'altra parte della barricata, dunque, ma spesso assente, in anni di fuoco che lo volevano impegnato altrove – e un fratellino zavorra, portato appresso sotto minaccia: se non porti Diego, tu non esci: capito? Io non ho paura l'ho visto una volta sola, qualche anno dopo, ma lo ricordo molto bene: è uno di quei film che, se sei così fortunato da essere nato nell'anno giusto, da essere giovane ma non troppo – io c'ero negli anni novanta, non negli anni settanta, ma ho visto videoregistratori, musicassette, serate passate a giocare a nascondino o a "un due tre stella" prima che sparissero, come i dinosauri –, un po' ti segnano. Perciò non ho mai sentito il bisogno di leggere il racconto che lo aveva ispirato, prima di quest'anno: quando la bella stagione mi ha fatto scoprire che Niccolò Ammaniti mi piace tantissimo e che, in programma per l'autunno, c'era Anna, il nuovo romanzo. Storia di meridionali e bambini soli al mondo. In attesa di poterlo dire mio – gioia immensa quando l'ho trovato a metà prezzo su Libraccio; santi che volano, invece, se Libraccio, come in questo caso, ti cancella l'ordine – ho portato con me, in un weekend stranamente silenzioso, quel libricino che avevo in casa da dieci anni buoni e che, in copertina, aveva il bollino con il prezzo – appena cinque euro, nell'edizione I Miti Mondadori – e il giallo dei campi. 
Il segno di una estate in mutande e canottiera sottile che vorresti non finisse mai, oppure sì. Il colpo d'occhio, di chi ha talento vero, con cui si coglie un periodo di passaggio mentre sta passando. Quando capisci che l'uomo nero non esiste, ma che i mostri sono reali. Siedono al tavolo della tua cucina. Dormono nel letto che è di tua sorella: ospiti. Imprigionano i bambini come te nei buchi, in attesa del riscatto o del Paradiso. La storia degli innocenti di Acqua Traverse – frazione fantasma con sei case e sei famiglie; acqua che ti va di traverso e ti strozza; questione di Mafia o 'Ndrangheta, non di diavoli, il che è peggio – corre come una bici sgangherata nei mari di spighe; come un brivido che, addosso, ti lascia una sensazione che permane. Ti racconta, per voce di chi la vive, l'amicizia commovente con un mostriciattolo tenuto in cattività che non apre gli occhi, farnetica di orsetti lavatori (ma esistono davvero?) e città del nord (dov'è, il nord?); di una paura – ma Michele non ha paura, quella del titolo è una promessa a sé stesso – che in combutta con le pieghe nere dell'immaginazione trasforma la natura notturna in un inferno dantesco. Soprattutto, della dolcezza con cui una vittima può scambiare uno dei suoi diavoli per l'angelo custode. Allora niente, davanti a due mani tese, sarà più lo stesso. Letto in un pomeriggio, d'un fiato, più che una nuova lettura, Io non ho paura è stato una specie di seconda visione. Un film che avevo già visto, e che ho rivisto – per magia – attraverso le parole vivide di un Niccolò diverso dal solito. Conciso e nostalgico, quando lui invece è prolisso, pulp e fortemente ironico: abituato alla narrazione in terza persona – qui, invece, usa la prima – per porterti dire, dei suoi tanti personaggi, vite e peccati. E io che, da sempre, immaginavo che Ammaniti fosse questo. Io non ho paura, invece, è una parentesi agrodolce che dura un'estate. O forse la meta finale del viaggio? La verità, senza fronzoli, è che Ammaniti ha fede nei bambini, anche se sono condannati a soffrire. Ha fiducia nel domani, anche se pare pioverà. Ma sono i piccoli a insegnare qualcosa ai grandi, nelle sue storie di ordinario orrore: il coraggio, l'amicizia. Il coraggio dell'amicizia. 
E si potra uscire a giocare, anche con il cattivo tempo - e l'orco - fuori. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ezio Bosso – Rumba verso il buco 

venerdì 16 ottobre 2015

Recensione: Il favoloso libro di Perle, di Timothée de Fombelle

Le storie ci fanno cambiare. E certi incontri ci rovesciano sul dorso, come succede alle tartarughe. Ci costringono a lasciarci sopraffare.

Titolo: Il favoloso libro di Perle
Autore: Timothée de Fombelle
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 308
Prezzo: € 16,00
Sinossi: Olia è una fata che ha rinunciato ai suoi poteri per amore di un principe cadetto. Ma quando finalmente si ricongiunge a lui, scopre che è stato assassinato. Oppure no? Infrangendo il confine tra i mondi, il giovane llian è scivolato in un'altra realtà. Non meno pericolosa perché il ragazzo smarrito viene accolto nella famiglia Perle proprio mentre sul futuro degli ebrei francesi si addensano nere nubi temporalesche. Intanto la fata è condannata a stargli accanto e insieme lontana, per anni e anni, per tutta una vita umana. Questa è la storia che il narratore piano piano ricostruisce, a partire dal muro di valigie che un bizzarro collezionista cela nella sua casa tra le paludi, là dove il fiume scompare nelle pieghe delle mappe. Dentro ci sono segreti, risposte, prove. Di cosa? Basta una vita intera per trovare la strada del ritorno?
                           La recensione
La felicità è quella danza in cui ci si avvicina e ci si allontana, senza perdersi.
In libreria, tappa fondamentale al centro commerciale, anche con il portafoglio vuoto e il tempo che scarseggia, faccio giri veloci tra le corsie, sbircio quel libro e quell'altro, soppeso - tra le mani - la consistenza di romanzi che, dal vivo sono più leggeri o più pesanti, più sottili o più doppi di quanto pensassi guardandoli al computer. Faccio in fretta, di solito, per perdermi in un punto in particolare del negozio. Io e le buste della spesa, la sezione dei libri per l'infanzia. Lontani dai best seller, racchiusi in una bolla per pochi, sono immensamente avventurosi e delicati nelle loro copertine splendide e in trame che non conoscono la volgarità o il contingente. Per questo, magici come tutto ciò che, per sua stessa natura, è incorruttibile. Mi distrae, ogni tanto, un cellulare che vibra, una certa ora che si avvicina, il pensiero che – con me che indugio, con il naso all'insù – i surgelati si scongelino e le uova si schiudano. Ma quanto sono belle quelle illustrazioni; quanto? Quanto potenti le promesse di quelle storie romantiche e fantasiose che – quando avevi l'età – ti eri negato e, per recuperare il tempo perduto, leggi adesso, con occhi incantati e animo placido? Tanta indecisione – quale comprare e a quale grande bellezza rinunciare - e il ricordo di un consiglio fidato. Eccolo lì, l'ultimo Timothée de Fombelle, sull'ultimo ripiano: quarantenne francese, creatore di storie universali i cui titoli, in quei momenti fatidici, mi sfuggivano, ma facevano senz'altro rima con l'imperativo categorico: “leggilo, leggilo”. Il favoloso libro di Perle – dopo le serie Tobia e Vango – è una fiaba contemporanea e autoconclusiva, un magnifico racconto tripartito che nel titolo, dal passaggio all'italiano, trova un meritato aggettivo à la Jeunet e la copertina più bella apparsa quest'anno su un qualsiasi scaffale al mondo. L'illustrazione di Mariachiara Di Giorgio coglie, a colpo d'occhio, tutto quello che c'è da cogliere e, davanti a una simile cura, le parole a che servono? 
Il favoloso libro di Perle è la meravigliosa favola che la sua veste grafica promette: parigina e notturna, misteriosa e emozionante. Giocare alle ombre cinesi e, alle porte del crepuscolo e del sogno, mimare alberi antichi e erbe alte, muri di valigie e siepi, castelli e bistrot. Tre sagome – per tre grandi personaggi – che si sfiorano senza toccarsi. Quella di Olia e Ilian, una fata e un principe separati dal male e uniti dalla speranza, e di un narratore anonimo, forse lo stesso de Fombelle a caccia di lucciole e ispirazione, che ricostruisce lentamente i tasselli del loro breve amore e i cocci del loro addio. Esiliati “nell'unico tempo e nell'unica terra dove non si crede né alle favole né alle fate”, condannati come Orfeo ed Euridice a essere vicini ma a non guardarsi, riusciranno a provare l'esistenza di un regno impossibile prima che sia troppo tardi? De Fombelle incanta all'istante, complice una prosa che è un'autentica carezza, e cattura pian piano, mentre la trama si infittisce ma tutto si fa chiaro. All'inizio, ci sono vicende che non si incastrano a pennello: costruite con tessere di un puzzle diverso – una ambientata in mondi paralleli, l'altra nella Francia sotto assedio – incuriosiscono e intrigano, perché è forte il desiderio di sapere cosa abbiano i comune quei Romeo e Giulietta di fantasia, il figlio adottivo dei coniugi Perle – ragazzo dalla doppia esistenza e dal doppio nome - e un adolescente innamorato che fotografa ruderi e rane. 
E c'è una tale simmetria, una tale precisione che, facendo due calcoli, potrei quasi giurarvi che a ognuna di quelle storie sia dedicato lo stesso spazio. Anni e attimi, capitoli e frasi, in cui si parla dei viaggi per mare di un collezionista instancabile – eroe di guerra, orfano, pasticciere – che cerca le prove del mondo da cui proviene per spezzare un antico incantesimo. In bagagli di cuoio e cartone, assurde pareti di una capanna non segnata sulle carte geografiche, i frammenti di una Atlantide condannata all'oblio – una biglia, la squama di una sirena, un pezzo di culla, i ricordi di un amore minacciato da un sovrano crudele – e le infinite mete di un protagonista che, come il mitico Forrest Gump, passeggia nella storia dell'occidente e nei mulinelli turbinosi dei giri di vite. Il favoloso libro di Perle parla di un bacio maledetto dalle stelle – e i passi degli innamorati che sono costretti a dirsi addio sono i più belli, perché sembrano una danza – e del dovere morale di affidare la propria storia a qualcuno, per morire senza sparire. Quello sono gli scrittori d'ogni dove: medium, ambasciatori, intermediari con altri mondi. Con Timothée de Fombelle, così bravo da non crederci, non è scrivere un romanzo, la questione, ma raccontare una storia nella maniera più nobile. Non è riempire una pagina vuota, ma recuperare l'arte persa degli aedi – e i castelli usurpati dai traditori – che non scrivevano, ma cucivano insieme scampoli di storie. Con filo e inchiostro. Per un lapsus, prima, ho scritto cucinavano e Word mi ha prontamente corretto. Ma, se di cucina si parlasse, l'imprevedibile storia di Olia e Ilian sarebbe una delizia da cuocere a fuoco dolce. Un magico elisir in cui la tecnica acquisita e la tanta pazienza fanno la differenza; l'eredità di una nonna un po' maga. E finché ci si crede, nelle leggende popolari e in cibi che stravolgono il tuo umore da così a così, certe tradizioni, e certe fate, poi non muiono. 
E chi non muore – però si ama – alla fine si rivede.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Christina Perri – A Thousand Years

mercoledì 14 ottobre 2015

Recensione: La cacciatrice di bugie, di Alessandra Monasta

Dentro certe storie è importante entrare in punta di piedi.

Titolo: La cacciatrice di bugie
Autrice: Alessandra Monasta
Editore: Longanesi
Prezzo: € 14,90
Numero di pagine: 328
Sinossi: "Tu sei incredibilmente empatica": è la frase che la protagonista si sente ripetere fin da quando è bambina, a scuola come a casa. Per lei, all'inizio, è complicato capire in cosa consista veramente questa qualità. Di certo sa solo che è un talento e, forse, anche una condanna. Quando, anni dopo, il suo dono viene notato da un importante magistrato, per lei si aprono inattese porte professionali... e personali. Perché quel suo talento va ben oltre l'empatia: lei ha un orecchio assoluto per la verità, e soprattutto per la menzogna. Capisce, intuitivamente, tutto ciò che si cela dietro i racconti e dentro i silenzi delle persone. Diventa perito fonico forense, addestrandosi e affinando quel talento naturale, e nel giro di poco tempo si ritrova a lavorare sulle intercettazioni dei casi di cronaca più sconvolgenti, quelli sulla bocca di tutti, quelli che finiscono su giornali e telegiornali... Ma viverli dall'interno è una cosa diversa: tanto entusiasmante a livello professionale quanto capace di mettere a dura prova la sua resistenza emotiva. Per svolgere un lavoro così delicato, deve imparare ad ascoltare analiticamente le voci, a identificarle e a distinguere in chi parla i momenti di lucidità da quelli di autentica follia. È una cacciatrice di bugie, sì... Ma a quale prezzo? Diventa sempre più complicato conciliare il piano professionale con quello personale. È sempre più arduo "uscire" dalle storie dopo ore e ore di ascolto delle intercettazioni...
                                         La recensione
Una matita spezzata in due, un blocco d'appunti e gli immancabili post-it gialli tutti intorno, macchie d'inchiostro e rimasugli di caffè, un paio di cuffie e un registratore per ascoltare – come nel capolavoro del cinema tedesco – le vite degli altri. Ma anche un elegante anello di fidanzamento, occhiali da vista alla moda e un po' di confusione per dire che la vanità – insieme al disordine più studiato – è donna. Quanti, davanti a questa scrivania a soqquadro, hanno pensato ai tavoli autoptici con i morti, i cioccolatini, i piccoli indizi e i rossetti d'emergenza di Alessia Gazzola? In quanti, leggendo che di un esordio si trattava e che Alessia e Alessandra Monasta hanno in comune un'interessante professione data in eredità alle loro protagoniste, si sono domandati se La cacciatrice di bugie fosse greve o leggero, un giallo anche un po' rosa o, al contrario, un poliziesco in piena regola? Curioso per via di una trama che mi diceva una cosa e una copertina che me ne diceva un'altra ancora, mi sono avvicinato quasi per caso a una storia che mi sono divertito a inquadrare man mano. Dubbioso sui toni, incerto sulle intenzioni. Prima ancora di scoprire Alessandra Monasta scrittrice – e lei, perito fonico forense, ha una prosa sobria e precisa, con qualche guizzo personalissimo qui e lì -, poche pagine appena per notare come La cacciatrice di bugie fosse totalmente diverso da quel che avevo – avevamo - immaginato. La copertina trarrà molti in inganno, prendendo in contropiede chi cerca un nuovo chick lit a tinte gialle, anche se – per le storie di Alessandra – non potrei davvero immaginare qualcosa di alternativo. Si parla, infatti, di intercettazioni, relazioni sentimentali e diecimila caffè. Indispensabile, allora, il materiale d'ufficio, sprazzi di quotidiano, i sottobicchieri che mancano e le scrivanie ingombre: i casi giudiziari – come gli amori – vanno e vengono e la capacità di leggere nelle voci altrui incertezze e verità si rivela esecrabile difetto e somma virtù. Quale uomo potrebbe liberamente lasciarsi andare davanti a una come Alessandra, donna che ti legge come un libro aperto? 
Quale procuratore, tuttavia, commetterebbe l'errore grossolano di lasciarsela sfuggire, se – con pazienza e professionalità – è nota per consacrare giorni e notti al suo lavoro? Più che un romanzo, l'ultimo libro Longanesi sembra una biografia: il diario di una professione di cui ci interessa sapere di più. L'autrice, sin dall'inizio, non fa nomi: lecito pensare che sia la stessa Alessadra a raccontare; a raccontarsi. La narrazione prende avvio in medias res: una chiamata urgente e la protagonista – quarantacinquenne dalla lunga carriera e con una sezione dell'armadio piena di completi neri perché, in un mondo al maschile, deve fare i patti con la sua avvenenza – si prepara a fornire la sua consulenza per l'ennesimo caso di cronaca, in una suggestiva Firenze criminale. Un salto indietro e, dal prologo ambientato lo scorso anno, si passa agli anni novanta: momento assai difficile per iniziare una carriera come perito fonico, con la Toscana sotto assedio – fin lì, infatti, si sono allungati i tentacoli del terrorismo, senza dimenticare lo spaventoso modus operandi del Mostro che che ogni innamorato del tempo temeva. Procedendo in avanti, conciliare incarichi e privato si fa impossibile – ma Alessandra è una donna che ama le missioni impossibili, vedrete – e, ogni tanto, in vacanze a Stromboli durante le quali staccare la spina, ci si rivede con gli amici d'infanzia e si parla dei nipoti che crescono, dei genitori che si ammalano, di ciò che va via e poi ritorna, secondo le regole del Karma. 
In un piccolo e personale memoir sull'Italia, tra artificio e spassionata verità, si parla di abuso di potere, isolati casi di razzismo, stalking, stupro, mentre la cronaca nera fa prepotentemente capolino – di grande impatto, ad esempio, la rievocazione del delitto di Erba o della strage dei Georgofili – le delusioni amorose si sommano ai trionfi professionali. Racconti polizieschi di lunghezza variabile che spiccano perché visti da una prospettiva inconsueta; slegati, se non fosse l'esperienza di Alessandra – personaggio e scrittrice – a farvi da particolare cornice. I difetti: l'attesa ingiustificata che, sul finale, questa struttura ad incastro genera; il fatto che – raggiunta la verità – i destini dei colpevoli restino in bilico. La cacciatrice di bugie è un orginale poliziesco ad episodi, se proprio tocca dare definizioni, che si legge come buona narrativa, velocemente e con interesse, pur sfuggendo ai generi. Una narrazione intrigante e disordinata per precisa volontà, con un personaggio decisamente affascinante. Ho pensato a The Mentalist, che legge nei volti; al Will Graham di Hannibal che, dotato di forte empatia, immagina di vestire i panni dell'assassino per arginare i continui fiumi di sangue. Consulenti delle forze dell'ordine dalle doti straordinarie – questa volta, accurata e intelligente l'attenzione ai sali e scendi delle voci, ai timbri, ai colori degli accenti – attorno ai quali potrebbe ruotare un'intera produzione televisiva. E io una serie su Alessandra – proprio come sulla mitica Alice Allevi, prossimamente su Rai Uno con il sorriso della bella Alessandra Mastronardi – la seguirei come un fedelissimo, ad oltranza.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Denmark + Winter – Enjoy The Silence (Depeche Mode)