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Il Gattopardo, di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, €
13,
pp. 304
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L'ho portato con me in Sicilia. Mancavo da vent'anni. Come il Gattopardo, sono sempre stato un nostalgico. Il Principe Fabrizio è una bestia mansueta. Incombe placidamente su uomini, donne e feudi. Su di lui, in salotti splendidi ma già polverosi, ci sono volte affrescate con pappagalli e bertucce, angeli e dei. Fuori dal suo palazzo, invece, si estendono giardini dai profumi stordenti: la dolcezza dei fiori di pesco, tuttavia, non nascondere il tanfo di putrefazione che sale intanto dal corpo di un soldato, morto proprio sotto le fronde di casa Salina. Ambientato tra l'arrivo dei garibaldini e il primissimo Novecento, il capolavoro di Tomasi di Lampedusa è una saga familiare sulla fine di un'era e l'inizio di un'altra; lo spaccato di un ceto, quello nobiliare, sprovvisto di qualsiasi sapere pratico e ottusamente chiuso al progresso; il gioco strategico di un grande pater familias, che riversa le sue ultime ambizioni nel nipote Tancredi pur di non conoscere l'oblio. Anche a costo di spezzare il cuore alla figlia Concetta.
Ma Lei sa meglio di me, principe, che anche le stelle fisse veramente fisse non sono.
Ogni capitolo ci apre per circa un giorno le porte della residenza di Donnafugata. È una scenetta dal gusto teatrale, in una commedia in costume e di costume. Amarissima, ma pur sempre una commedia. Qui, un narratore dalla sensibilità contemporanea fa gustosamente il verso alla fiorita prosa ottocentesca, ma delinea con mal celata ironia l'opulenta mollezza del palazzo. Perfino la bellissima Angelica, figlia di un parvenu da spennare, è sorpresa nell'atto di togliersi del cibo tra i denti con la forchetta. E il budino al rum prediletto dal padrone di casa? Diventa un fortino minacciato dalle forchette dei commensali, simbolo della disfatta in agguato. Tra tedio e intrighi matrimoniali, si spettegola delle prime femministe che protestano per il diritto al voto e della smania di collezionismo di taluni. Irresistibile e chirurgico, Tomasi di Lampedusa ci rende partecipi di una rivoluzione politica e familiare; di un risveglio dei sensi, a cui seguirà poi un timido risveglio delle coscienze.
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.
La Sicilia, troppo avvezza agli invasori per temere grandi cambiamenti, sonnecchia nella furia del solleone. Gli anziani rosolano al sole, il basilico contrassegna la casa delle prostitute, le suore custodiscono le ricette dei mandorlati. Laggiù, a differenza che sulla terraferma, ci si racconta che niente cambierà. Circondato dal suo affezionato e polveroso ciarpame rococò, non si farà illusioni il Gattopardo: un protagonista indimenticabile, con il difetto di avere una mente troppo veloce in un paese che troppo lentamente, invece, imbocca la strada del progresso. In un momento chiave del romanzo, il principe ricercherà l'aria aperta e le epifanie che garantisce. Di ritorno dal valzer, reso leggendario dal film di Visconti, rinuncerà alla carrozza e tornerà a piedi. Lui incombe su tutti, ma su di lui incombe a sua volta il cielo. Il principe ha provato spesso a venire a capo dei misteri del firmamento. Ma l'ha colto in contropiede la verità delle stelle fisse, che a ben vedere davvero fisse non sono. La limitatezza di un nobiluomo che accetta finalmente l'illimitatezza celeste si intrecciano così alla bellezza allo squallore, allo sfarzo e alla miseria, in un ballo degli opposti che celebra gli ultimi sospiri di un mondo in fin di vita. E brevemente ma per sempre, su carta, ne arresta così l'estinzione.
Il mio consiglio musicale: Giuseppe Verdi - Va', pensiero