Pagine

sabato 14 luglio 2018

I ♥ Telefilm | The Handmaid's Tale - Stagione 2

Tremate, tremate, le ancelle son tornate. Quanta strada hanno percorso, da dietro i paraocchi della loro inquietante tonaca rossa. Quanti consensi hanno mietuto, imponendosi nella stagione dei premi e in cima al meglio della scorsa annata. Si aveva sinceramente paura, dopo un ciclo di episodi perfetti, di scoprire quale sarebbe stato il passo successivo; come sarebbe stato, staccarsi dalla mano di una Margaret Atwood che ormai aveva finito il suo lavoro lì – il finale della prima stagione corrisponde infatti al finale del romanzo: dunque cosa inventarsi dopo? C'era tutto un mondo da scoprire, e l'impiego della prima persona ne limitava di molto fra le pagine gli scorci, i punti di vista, le vedute panoramiche. C'era da domandarci cosa sarebbe stato della tribolata protagonista dopo quell'ultimo sguardo in camera, all'indomani della fuga. Ci aspettavamo la rivalsa, per quanto banale potesse suonare; la ribellione. La disobbedienza di June, nella serie televisiva che avuto il buon cuore di regalarle un nome di battesimo, purtroppo dura poco: giusto il tempo di pentirsene, di piegarsi. Riposta la sua luciferina aria di sfida, di ritorno a casa Waterford, diventa Offred. Stanca di fare del male agli altri per colpa dell'egoismo di chi si è scoperta intoccabile, galeotta la pancia miracolosa che cresce e cresce. Stanca di scalpitare. Sembra vinta, a tratti, e dire che in chiusura avevamo fantasticato sulla sconfitta dei bastardi. La fuga, poi il ritorno. Le Colonie, poi il ritorno. La ribellione, poi, complice il senso di colpa, sempre e comunque il ritorno. Il fuori resta perciò poco esplorato. Le sollevazioni grandi e piccole non sono che tappe che riportano con violenza aggiunta allo status quo. Ancora meno agevole, ancora più provante che in passato, si ha l'impressione che ci sia troppo in soli tre episodi aggiuntivi che fanno la differenza, che pesano sulla bilancia. I piatti, così, sono meno in equilibrio. Oscillano sotto un peso che quest'anno non conosce nemmeno la tendenza a sdrammatizzare della voce off; l'ironia o il lirismo della colonna sonora rock 'n roll. Una volta pesavano ogni sopruso, ogni abuso, ogni perdita. Adesso si perde il conto dei cambi di ruolo e di umore di una Elisabeth Moss non così amabile; il numero dei tentati suicidi in nome della disperazione, dei falsi allarmi della gravidanza, dei personaggi introdotti e mai più rivisti, di Colonie sbirciate (con tanto di cameo della rediviva Marisa Tomei, a proposito di personaggi inutilizzati) ma alla fine inservibili a livello narrativo. Mancano all'appello i parenti, i mariti, le amiche che ce l'hanno fatta a raggiungere il confine canadese. Gli autentici momenti da brivido, le scene madri, se tutto ambisce invano a restare impresso – sulla pelle d'oca, nel Gotha della TV. Il ritorno di The Handmaid's Tale è ad ampio respiro, e forse per questo più romanzesco, più dispersivo, con sceneggiatori indecisi su quali dettagli o emozioni concentrarsi davvero. Arriva sempre forte, ma purtroppo meno chiaramente. Per le interferenze di storyline senza sbocchi e, tocca ammetterlo, di immani aspettative. Qualcosa cambia in positivo, a ben vedere, dall'ottavo episodio in avanti. Merito della lenta metamoforfosi di una Yvonne Strahovski da Emmy, combattuta fra la fedeltà alla Repubblica e la solidarietà femminile, fra orgoglio e sottomissione (è proprio lei a impugnare una penna rossa, infatti, e a porgerla a Offred, chiamandola finalmente June); delle sfide di una Bledel che non si spezza e della maternità dell'instabile Brewer, che mi ha commosso con una tenerezza che qualche volta guarisce; della fragile e crudele Eden, andata in moglie all'autista Nick, con un falso bigottismo a nascondere tutto l'avventato ardore dei suoi quindici anni. Le ancelle – non soltanto bestie da monta ma anche vacche da latte, in caso il Signore abbia fatto schiudere il loro frutto benedetto – si scambiano i nomi sottovoce. E ammettono fra le proprie fila quest'anno non soltanto il rosso, ma anche il blu, colore delle mogli trofeo di Galaad. Tutte insieme, allora, se vanno in schieramenti compatti e ordinati oltre il punto fermo messo trent'anni fa da una profetica Margaret Atwood. Ma a malincuore non riescono né a superarlo, né a superarsi. (7)

14 commenti:

  1. Eh già, aspettative altissime e non del tutto appagate, lo ammetto. Troppo via vai, troppi elementi inconcludenti. Però nel season finale c'è quel momento lì, quello con Serena e tu-sai-chi, che si mangia tutto e tutti.

    RispondiElimina
  2. Ma soprattutto: quanta noia in una stagione sola!
    Tanto mi era piaciuta la prima, quanto mi è sembrata inutile e ripetitiva questa. Elisabeth Moss che continua a scappare per ben 3 volte è stata in pratica l'unica idea di trama dell'intera season. I personaggi secondari sono stati buttati via in fretta, letteralmente soprattutto Eden. I personaggi maschili sono a dir poco ridicoli, Joseph Fiennes su tutti. Le frasi tormentone sono le stesse riciclate dalla prima stagione.
    Ogni episodio dopo 50 minuti incredibilmente lenti e lunghi tira fuori una scena madre per mandare in visibilio critici ed Emmy vari, però per me è troppo poco. Not blessed be the fruit. :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Per fortuna no, non mi sono annoiato, ma gli episodi da un'ora e quei tre episodi in più, come scrivo, si sono fatti patire più del solito. Manca la penna della Atwood. E manca un vero motivo, lo dice anche Stefania sopra, che spinga June e le altre a vagare qui e lì. Peccato per Eden, interessantissima e scoperta umanamente soltanto tardi. Sempre viva, però, la splendida Yvonne, che quest'anno per me asfalta anche gli sguardi parlanti di una Moss che ha già dato, che ha già preso.

      Elimina
  3. Secondo me, invece, questa volta i colpi arrivano più ammortizzati. Non che ci si risparmi, anzi, ma la violenza si perde in mezzo a un troppo che, a volte, porta poi a un nulla di fatto. Tutto bellissimo, tutti bravissimi, ma sceneggiatura rimandata a settembre (anzi, alla prossima primavera).

    RispondiElimina
  4. Il romanzo in effetti ti lascia "immaginare" il proseguo e resti quindi inappagato, però secondo me, andava bene quella fine.
    Infatti non sono ancora riuscito a trovare la voglia di vedere la seconda stagione, perché per me andava bene anche la fine della prima.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il finale tronco del romanzo, dunque della prima stagione, funzionavano perché rendevano il tutto straordinariamente verisimile. Sarò profano, per dire, ma io avevo pensato a June come a una futuristica Anna Frank tanto appariva realistica la sua testimonianza. Trovargli un seguito non è stata un'impresa persa in partenza, non è stata cosa da poco, ma qualcosa (la voce un po' beffarda della Atwood) manca.

      Elimina
  5. Io per ora sto guardando la prima stagione, bella, mi piace molto!
    Spero la seconda non sia male... Anche se mi pare di capire che non sia all'altezza delle aspettative... :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. La prima, diciamolo puro, capolavoro.
      Questa non delude le attese, in fondo, ma nell'inevitabile paragone perde un po'.

      Elimina
  6. La Atwood da quello che ho letto ha collaborato. Certo che bastavano una decina di puntate. E' stata comunque coinvolgente... adesso però basta subire: vogliamo una June sempre più incazzata!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. L'ho letto anch'io, Lucien, ma nonostante il suo beneplacito ho sentito la mancanza del tocco di chi sa colpire, struggere, senza appesantire inutilmente. Perciò più incazzature per June, sì, e soprattutto meno inutili andirivieni.

      Elimina
  7. Mi trovo perfettamente d'accordo con te. Un loop continuo di trame con un inizio e una non fine. Anche io non mi sono annoiato, ma c'è un largo margine dalla prima stagione.

    RispondiElimina
  8. devo ancora vederla per cui non mi sbilancio, la prima e il romanzo mi sono piaciuti molto, ma ho molta paura di questo proseguimento. Diciamo che tu mi fai ben sperare!

    RispondiElimina