Pagine

lunedì 19 marzo 2018

Recensione: A misura d'uomo, di Roberto Camurri

| A misura d'uomo, di Roberto Camurri. NN Editore, € 16, pp. 168 |

Lo definiscono romanzo per racconti, ma tra me e me ho elaborato una definizione alternativa per letture che somigliano a questa. Quelle che entrano nella tua quotidianità a piedi scalzi, in silenzio, confondendosi con te, gli stipetti della cucina, le mattonelle a fiori del bagno e le foglie secche in giardino. Quelle a cui vuoi bene comunque, come si fa con chi in fondo c'è sempre stato. Costantemente, banalmente, per routine. Ci sono persone che restano, e ci sono romanzi davanti ai quali non ti dici mai nel mentre, ecco, che bella pagina, che signor momento, quanto cazzo mi sta piacendo. Romanzi di poche parole, li chiamo io, come se uno scrittore – che con le parole crea immagini, gioca – potesse essere laconico. Un controsenso, no? Poi penso a Kent Haruf e ai suoi discorsi diretti, non preannunciati mai dai due punti e le virgolette. Penso a Nickolas Butler, con una scrittura emozionantissima perché ridotta all'osso, e alle sue amicizie maschili in cui parlano i gesti pratici: i tacchi degli stivali piantati a terra, nella polvere della perifera, di chi ha imparato a restare. A misura d'uomo, esordio narrativo di Roberto Camurri, è una di quelle storie che stranamente, da qualche anno a questa parte, mi si addicono. Semplici e concilianti. 
Uomini che bevono, uomini che fumano, uomini che masticano liquirizia per smettere, uomini che fanno lavori disprezzati e debilitanti in mancanza d'altra speranza.

Io però Garibaldi non l'ho mai amato, aveva continuato Giuseppe, ho sempre detto in giro che mi chiamavo Giuseppe come Mazzini, perché a me son sempre piaciuti più quelli che ci provano di quelli che ci riescono.

Io ho ventitrè anni, non fumo, non bevo, non ho problemi di donne e non grandi amici. Vivo in una città piccola, sì, ma da cui ogni mattina partono treni che mi mostrano che esiste, volendo, una scappatoia. Ci sto così bene, eppure, in compagnia di personaggi tutti vizi e fragilità, diversissimi da me. Mi piace da morire sedermi sulle sedie di plastica in piazzetta, davanti all'unico bar aperto. Ascoltare il disincanto che ancora non so, cedendo dopo i vari dai, dai ad aspirare tossendo un tiro di Lucky Strike. La provincia italiana spezza i sogni e imbianca precocemente i capelli. A trent'anni, a malincuore, si è già vecchi. Lo sanno Valerio, Davide e Anela, al centro di un'amicizia che decenni dopo si fa triangolo sentimentale. Lo sanno i deliri di Mario, che grazie alla perseveranza della compagna Elena sperimenta la lenizione dell'amore. Lo sanno gli incartapecoriti Giuseppe e Bice, da un lato e l'altro di un vecchio bancone, legati da un sentimento che non si sono mai confessati e dalla vergogna per un paese che, nel suo giorno di festa, rivela un'indole ignorante e razzista. Insieme a loro Maddalena, che sceglie un figlio e la solitudine; lo scrittore Luigi, di origine eritrea, che assieme a Mario, da ragazzino, pendeva dalle labbra degli inseparabili Valerio e Davide; una coppia scoppiata perché sterile che, in sosta sull'autogrill, magari si salva grazie a una provvidenziale cagnetta di nome Salvo. 
Uomini che perdono il pelo ma non il vizio. Uomini che non piangono ai funerali, si sentono in colpa, e alla fine si sciolgono in lacrime per la visione delle margherite in inverno. Uomini che si presentano ubriachi a casa degli amici d'infanzia, ma che cosa vuoi farci: metti in caldo la cena e offri loro il divano-letto. Cattivi compagni che bevono, fumano, ma portano le loro donne al mare. E tanto basta per baciargli a letto anche le cicatrici, anche gli sfregi.

Gli sembra che quella pianura, il giallo dei campi, il verde del foraggio, il marrone della terra dissodata sia tutto quello che ha, sia, in fin dei conti, quello che è.

Nell'emiliano Camurri, in quel di Fabbrico, non esistono colpi di testa o incontri folgoranti. Ci si conosce da tutta la vita. Si va. Si viene. Qualche volta si torna per restare. Ci penso, e penso a una mostra fotografica a cielo aperto. Istantanee sui pali della luce, negli scheletri polverosi delle cabine telefoniche, sui tronchi degli alberi e i segnali stradali. Istantanee con le pinze colorate ai fili del telefono, come lenzuona stese ad asciugare. I racconti di Roberto Camurri – parte microscopica e vitale, in realtà, dello stesso identico quadro – altro non sono che un andirivieni di storie in ordine sparso, di facce che diventano presto familiari, di discese e risalite che ti portano inevitabilmente lì. Su una via di casa lungo la quale è meraviglioso attardarsi al tramonto. Dove appartieni. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Diodato feat. Roy Paci - Adesso

10 commenti:

  1. poetico e intrigante come sempre...

    RispondiElimina
  2. Aspettavo questa tua recensione! E come al solito mi hai fatto venire voglia di leggerlo... Bravo, bravo, bravo.

    RispondiElimina
  3. Davvero un'ottima recensione! Mi è piaciuta tanto leggerla :)

    RispondiElimina
  4. Recensione stupenda, posseggo il libro e mi hai proprio messo addosso la voglia di recuperarne la lettura :) Grazie!

    RispondiElimina
  5. Sembra una di quelle storie da provincia emiliana che fanno molto (troppo?) Ligabue.
    Siamo sicuri che l'abbia scritto Camurri e non lui? :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Anche se Ligabue non mi piace (anche se i suoi film m'ispiracchiano, ma non li ho mai visti), il paragone a ben vedere ci sta.

      Elimina