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lunedì 25 settembre 2017

Recensione: Gli anni del nostro incanto, di Giuseppe Lupo

| Gli anni del nostro incanto, di Giuseppe Lupo. Marsilio, € 16, pp. 156 |

Una metropoli che cresce. L'indiscreta poesia del bianco e nero.
Su una Vespa, quando ancora non c'erano i caschi obbligatori o la paura di cadere, scorazzano stretti stretti i membri di una famiglia italiana. Immortalati in una foto d'epoca, bellissima perché inaspettata. Lì, al crocevia della vita. L'affermato Giuseppe Lupo, che ho il piacere di leggere qui per la prima volta, è da questa foto che ha immaginato una breve saga familiare tra passato e presente. Chi sono i soggetti? A descriverceli, negli anni del boom economico, la piccola di casa, Vittoria: quella che, nel traffico, è un fagotto di neppure dodici mesi sulle gambe di mamma. Quella mamma che, vittima di un misterioso terremoto emotivo, ora giace in un letto d'ospedale e non ricorda niente: nemmeno loro. La stessa che, mentre infermieri e medici parlano di come si piazzerà l'Italia ai Mondiali, reagisce solo davanti a un rettangolo di carta sbiadito.

«Piano piano la spazziamo via questa montagna che ti pesa.»

Appena ventunenne, nata dalla gioia di far pace dopo musi lunghi giorni e giorni (tutta colpa di un misterioso sbaffo di rossetto sulla camicia del capofamiglia), Vittoria è la sorella minore di Bartolomeo, detto Indiano, che ha gli occhi tristi e una spiritualità vacillante. Come sono usciti due figli simili, cupi e insicuri, da una coppia di innamorati che ai tempi d'oro sognava di sfidare il mondo a passo di danza? Gli anni del nostro incanto sono quelli della Cinquecento per far visita ai nonni, più a sud; del luccichio irresistibile della Rinascente e dei primi pensieri per i danni dello smog; dell'uomo a passeggio sulla luna in uno tutone immacolato. Quando Milano era una promessa rosea, senza manifestazioni giovanili e senza terrorismo, con i capelli ben fissati dalla brillantina e genitori che continuavano ad amarsi di un amore che, nei figli, suscitava insieme invidia e imbarazzo. Come se non ci fossero mai state le liti per un agosto altrove o la cucina da comprare dal nuovo, le mezze parole che lasciano intatta la minestrina a cena, i dolori che ti pietrificano di punto in bianco davanti alla tivù. Mamma, soprannominata Regina, fa la parrucchiera: è una veneta testarda, signorile, un po' distaccata. Papà Louis, "terrone" giunto in Lombardia per la leva militare, fa l'operaio: lo sguardo sollevato verso un cielo atomico, le braccia da boxeur dilettante, il pallone di domenica pomeriggio.

«Siamo venuti a Milano per essere all'altezza di questi anni. Tu capisci? All'altezza di questi anni.»

Lupo, con una sensibilità sorprendentemente femminile, firma 150 pagine – poche, uno direbbe – in cui eppure stanno a pennello il generale e il particolare, la cronaca e Sanremo, i drammi di Vittoria e i nostri. Emozionante, intimo, con la prodigiosa memoria degli elefanti. La migliore forma del raccontare, infatti, è il ricordo. Non c'è una parola superflua, così. Non c'è un'esistenza – si retrocede nelle generazioni, perfino – lasciata indietro. E non c'è vigile urbano a fischiarli, in quella domenica mattina in cui si festeggia la sbarluscenza della Madonnina. Alla ricerca della via Gluck. Di Dio, vivo o morto che sia. Delle scie sovietiche nel blu dipinto di blu. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Città Vuota

6 commenti:

  1. Mi attira tantissimo, deve essere mio. Grazie della dritta e della bella recensione :)

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  2. Sembra una di quelle saga famigliari italiche stile La meglio gioventù (o forse più La prima cosa bella di Paolo Virzì) che possono piacermi parecchio...
    Il fatto poi che non abbia tremila pagine è un ulteriore incentivo per recuperarlo. :)

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    1. Effettivamente, i paragoni sono calzantissimi.
      E le pagine, certo, aiutano. :)

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  3. Segno, segno! Mi sembra molto interessante e molto nelle mie corde :)

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