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sabato 27 maggio 2017

Mr. Ciak: 7 romanzi al cinema

Tom, sopravvissuto alla Grande guerra, si trasferisce a Janus in cerca di silenzio. Dalla terra ferma, incantata dai suoi modi d'altri tempi, lo segue la fedele Isabel. I bambini non vogliono arrivare. Il mare ha la soluzione: una scialuppa alla deriva e, a bordo, una bambina senza identità. Perché lasciare che tutto quell'amore vada sprecato? L'apparizione della madre biologica, però, rompe l'idillio. La bambina è di chi l'ha messa al mondo o di chi ha avuto cura di lei? L'estate scorsa queste stesse domande mi toglievano il riposo in spiaggia: sotto l'ombrellone, tentavo di stringere i denti. Avevo amato la potenza di La luce sugli oceani e, da lontano, invidiato chi lo aveva visto in anteprima a Venezia. Le prime recensioni, però, suonavano tutt'altro che rassicuranti. Personalmente, voce fuori dal coro, mi piace scoprirmi talmente immerso nella finzione da prenderla come una questione personale. Così, mesi dopo, mi trovo a remare contro l'aridità della critica. La luce sugli oceani non è un film da luci della ribalta: vuole il pomeriggio perfetto e la casa vuota. La sa lunga Derek Cianfrance in fatto di coppie scoppiate e bocconi indigeribili. Alla stregua del regista di Blue Valentine, anche Alicia Vikander mi ha sempre in pugno: è destino, infatti, che mi faccia disperare ogni volta. Con lei una ritrovata Rachel Weitz, che con pochi tocchi svela i retroscena di un'altra pena e di un'altra donna. Ma ago della bilancia e giudice dall'ingrato compito, un laconico e straordinario Fassbender. La luce sugli oceani è una parabola classica, sulle sfumature dell'amore e dell'acqua. Sul peso specifico del perdono. Fedele al materiale di partenza, viscerale, a tratti è così pieno che sì, potrebbe sopraffare i naviganti. Potevano privarlo delle tante lettere, dei molti pianti, dei troppi tramonti. Eppure, dalle onde della sua emotività, mi sono lasciato volentieri travolgere. Senza guardare mai l'orologio. Senza additare i sentimenti, e i melodrammi, come fuori stagione. (7,5)

Siccome cinquanta non erano abbastanza, le Sfumature raddoppiano con un sequel. Si scuriscono, virando al nero. La James, ai ferri corti con la precedente regista, si affida a uno sceneggiatore di fiducia – adatta, infatti, il marito in persona – e al tocco del solido Foley. Si riparte da dove eravamo rimasti. La rottura tra Anastastia e Christian si rivela soltanto un breve litigio: i due tornano insieme, qui, e si godono i pregi di fare la pace. Ci si mettono in mezzo il capo di Anastasia, che attira spasimanti come se ce l'avesse solo lei; una stalker psicolabile; la tardona Kim Basinger. Nella prima ora, tra balli in maschera e giochi ammiccanti, è una commedia sexy che non dispiace: palesa le assurdità già assodate e una maggiore complicità tra Jamie Dornan e Dakota Johnson. Mostrare bella gente nuda, però, poco ha a che fare con l'erotismo. A stuzzicare ci pensano fascette, perle e divaricatori, ma i protagonisti – incaprettati, bendati, vulnerabili – finiscono sempre per ripetere la stessa coreografia: lei sotto, lui sopra col sedere in mostra, dissolvenza. Il trash è godibile quando dura poco, si sa. Nella seconda parte il film vorrebbe farsi prendere inutilmente sul serio, e allora dà il peggio del peggio. La colonna sonora è radiofonica, i comprimari meglio definiti sono gli addominali di Dornan e la natica sinistra di Dakota, lo si segue divertiti perché ormai abituati al nonsense. E' così raffazzonato e insipido, alla fine, che troppo male non gli si vuole. Più dignitoso del precedente perfino, anche se per un pelo. E, se si parla di vedo-non vedo, di spogliarelli e lingerie, saprete bene che anche un pelo fa la sua. (5)

Al cinema uccidete tutte le persone che volete, ma non toccatemi gli animali. Pensiero ricorrente, questo, perfino davanti all'horror più sanguinoso. Figuriamoci se si tratta dell'ultimo film di Lasse Hallmstrom – lo stesso di Chocolat, svariate trasposizioni di Nicholas Sparks e, soprattutto, Hachiko. Dopo il trauma legato all'Akita che non si arrendeva alla perdita del suo padrone, assecondare la tristezza con Qua la zampa. Sabotato lo scorso inverno dagli animalisti, nonostante accuse pare belle che cadute, la commedia a tinte fantastiche dello svedese parte da uno spunto originalissimo: raccontare non una, ma le tante vite di un cane speciale. Bailey, infatti, è destinato a reincarnarsi senza dimenticare il proprio passato – e nell'edizione italiana, purtroppo, la voce narrante di Gerry Scotti. A volte nasce maschio, a volte femmina. A volte campa a lungo, altre si spegne presto. Lo ospitano famiglie sul punto di disfarsi, coppie felici e coppie scoppiate, l'unità cinofila e un canile da cui scappare alla prima occasione. Abbandonato, usato, amato, cerca uno scopo e non si disfa del pensiero di Ethan, il suo primo padrone (il KJ Apa di Riverdale che crescendo diventa Dennis Quaid). La sceneggiatura non approfondisce un'idea vincente. Un cane che accompagna varie generazioni, che sperimenta varie esistenze: perché non mostrare attraverso i suoi occhi un po' di storia americana, come in un Forrest Gump a quattro zampe? La storia del Paese resta ai margini. Si accenna alla crisi dei missili, la radio passa Take on me, i capelli si ingrigiscono. I trailer anticipano troppo. Da copione Bailey morirà non una, ma innumerevoli volte. C'è un limite ai pianti di uno spettatore dal dichiarato cuore di pastafrolla? Qua la zampa, invece, è un intrattenimento per grandi e piccoli che intenerisce, diverte, e di lacrime, purtroppo o per fortuna, non fa esagerato abuso. (6)

Una reunion. I corridoi del liceo che ispirano ricordi a ogni passo. Sono immancabili quelli legati allo Svedese: un giovanotto che eccelleva in doti atletiche e carisma. Ha fatto una fine indegna di lui. Pastorale Americana è la storia della famiglia che costruì ma non seppe tenere unita. La maggioranza delle recensioni lette lasciavano intuire un gran pasticcio. Un dramma in cui il troppo stroppia. Mi ritrovo a essere in disaccordo, benché tanto faccia la mancata lettura del romanzo di Roth e la passione per le famiglie infelici a modo loro. Come condensi un capolavoro di cinquecento pagine in un film di un'ora e quaranta senza sacrificare qualcosa? Temevo mi scivolasse addosso. Peggio: temevo di non affezionarmi, nell'annunciato riassunto di una moderna pietra miliare, ai suoi personaggi. Pastorale Americana, per me, è un dramma classico e arduo, perciò coraggioso. A sobbarcarsi l'impresa, così come il suo personaggio ingurgita e metabolizza i dolori di tutti gli altri, un Ewan McGregor che interpreta e per la prima volta dirige. I doppi impegni lo provano e un po' ne risente la recitazione. Stanco ma credibile, spinge a rimarchevoli exploit la Connelly e una antipaticissima Fanning. A fine visione, ho avuto più voglia ancora di scoprire il romanzo. A fine visione, soprattutto, io che temevo un film senza peso, ho sentito la pena inconcepibile di questo uomo buono a cui succedono cose cattive. Calmo in superficie, Pastorale Americana indugia nei dettagli essenziali abbastanza da lasciarti intravedere il mare che si agita sul fondo e il sentore vago della sua originaria bellezza. (7)

Sophie, orfana a Londra, viene sottratta al collegio e alla solitudine dalle mani di un premuroso gigante. Attraverso balzi chilometrici, il mostro la conduce in una terra di insidie. Peccato che sia in realtà il più minuto della sua specie. Maltrattato dai propri simili, imbottiglia sogni e protegge Sophie dai fratelli. l GGG, classico di Dahl purtroppo mai arrivato nella mia libreria, trova un nuovo adattamento. Dirige Spielberg, avvalendosi di una computer grafica non sempre inappuntabile e della voce di un Mark Rylance fresco di statuetta (qui in versione “Spacco botilia, ammazzo familia”): subito si mettono in conto nostalgia e occhi lucidi. Dahl, eppure portato al cinema infinite volte, questa volta lascia annoiati e delusi: le guance asciutte, al contrario che nel recente remake del Drago Invisibile, e un senso di irritazione verso un'eroina antipatica come poche. Il minutaggio, eccessivo, sfiora le due ore; i toni cupi e i peti da cinepanettone turberanno i piccoli, lasciando sostanzialmente insoddisfatti anche gli adulti; la storia, mi dicono fedelissima all'originale, decolla tardi e lascia straniti in un finale grottesco. Anche più del Canto di Natale secondo Zemeckis, Il GGG risulta pesante e artificioso. Non abbastanza modesto da passare inosservato. Non abbastanza importante da meritarsi la tripla “G” dell'acronimo. (4,5)

Nella Toscana degli anni '50, un'infermiera cerca di scoprire le ragioni del mutismo di un bambino. Alla morte della madre, infatti, ha smesso di parlare. La casa scricchiola e i muri parlano. Raccontano una storia di amore e perdita che è destino si ripeta. I domestici sono un enigma, il padrone di casa vede nella protagonista una nuova musa, gli abiti da cocktail della pianista defunta le stanno a pennello. Qual è il desiderio del fantasma di Caterina Murino: vendicarsi dell'ospite o cercare qualcuno che riempia il vuoto che ha lasciato? Tratto da un romanzo di Silvio Raffo, Voice from the Stone è una ghost story che ha i suoi pregi – gli unici, a malincuore – nello splendore delle donne e dei suoi scorci naturali. Ibrido svogliato e confusionario tra Jane Eyre e Giro di vite, ha poche ombre e l'aria di una fiction Rai. Un mistero su carta che, passando ai fatti, mistero non è. Il film non decolla: ben confezionato, ma recitato con la noia addosso. Incapace di intrigare, nonostante la presenza di un inquietante Girone, sfocia frettolosamente nel melodramma. Scene di passione percepite nel dormiveglia e il nudo artistico della star di Games of Thrones – bella come una ninfa di Botticelli, ma impacciatissima quando si tratta di darsi a pianti o vaneggiamenti vari – non bastano a trovare un senso a quello che le pietre non dicono. (5)

Louis è un bambino sfortunato. Protagonista di incidenti grandi e piccoli, è sempre stato salvato in corner dal sonno eterno. Fino a quando, festeggiando il suo compleanno su una scogliera, non cade da una rupe: è in coma, ma tutt'intorno a lui – nella sua mente, perfino – il mondo continua. Pare non si sia trattato di un incidente, questa volta, ma di un tentato omicidio. Colpa di quel padre violento, fuggito chissà dove? Tratto da un romanzo finito automaticamente in whishlist, The 9th Life of Louis Drax è un ibrido sui generis, inclassificabile, a metà tra il thriller e la favola. Dirige il discontinuo Alexandre Aja – esordì in Patria, anni fa, con il bellissimo splatter Alta tensione – e, lesinando questa volta sulla violenza, conferisce alla trasposizione un'anima francese. Se da un lato il film ha le canoniche indagini del dottor Jamie Dornan, qui vittima del fascino e della lacrime di Sarah Gadon, dall'altra troviamo gli interventi di un narratore trasognato e un po' crudele, che ha qualcosa dei bambini prodigio di Jeunet e un patrigno sospetto, che somiglia proprio a Aaron Paul. Chi desiderava il silenzio del bambino, e perché? Pieno di volti familiari e stranezze, irrisolto ma molto interessante nel suo essere di tutto un po', The 9th Life of Louis Drax è un Hitchcock ad altezza bambino, che all'inizio confonde e alla fine potrebbe anche deludere. Loquace e nerissimo com'è, però, mi ha stranito: cosa non da poco. E la nona vita del piccolo protagonista – l'ultima, forse – ha in serbo qualche altra sorpresa. (6,5)

16 commenti:

  1. di questi, ho visto LA LUCE SUGLI OCEANI - beeellooo!! - Fantastici loro due, incantevoli i paesaggi, commovente la storia.

    Tra i restanti, sarei curiosa di vedere Pastorale Americana!!

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    1. Pastorale Americana penso proprio che ti piacerà.
      Io non vedo l'ora di recuperare il romanzo.
      Ripenso ai personaggi da un po', nonostante pare che i fan non abbiano apprezzato...

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  2. ma che ridere la parte sulle 50 sfumature!:D

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    1. Figurati che prima era più lunga e più scema.
      Ritieniti fortunata, vi ho graziati coi tagli!

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  3. "La luce sugli oceani" devo vederlo. Troppi bravi attori per perderselo.
    Concordo punto per punto su "Cinquanta sfumature di nero". E' così trash che c'è da rimpiangere il libro, lì almeno un po' di tenerezza abbozzata la trovavi e la provavi. Comunque non capisco la pudicizia-a-tutti-i-costi di questa cinematografia, sia Foley che la precedente Taylor-Johnson coprono e dissolvono, dimenticano forse che il pubblico ha già visto cose parecchio più scabrose come "Basic Instinct" o comunque più audaci, come "Lezioni di piano"? Mah.

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    1. Delle Sfumature ho iniziato a leggere il primo parecchie estati fa, ma ho abbandonato presto. Non per la storia, ma per come è scritto. Concordo anch'io sulla pudicizia-a-tutti-i-costi, anche se il film mostra pochissimo e a tratti è volgare comunque. "The Dreamers", "Love", "Shame", "Shortbus". Foley e company, guardate questi qui.

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  4. mi intriga voice from the stone!

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    1. Intriga anche me, molto, ma i buchi nella sceneggiatura proprio non aiutano...

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  5. La luce sugli oceani non è mi dispiaciuto, però io ogni tanto un'occhiata all'orologio l'ho data.
    Bellino e loro bellissimi, però mi aspettavo un coinvolgimento emotivo maggiore...

    American Pastoral invece non mi ha coinvolto proprio per niente. Per me delusionissima. Troppo, troooppo classico.

    Cinquanta sfumature di nero, per quanto una porcata, è divertente, come si sente anche dalla tua rece (io ora voglio leggere la versione integrale di cui parli nel controcommento di sopra a Mari!)

    Il GGG è una delle più gigantesche schifezze viste di recente. Persino le Cinquanta sfumature al confronto fanno la loro porca figura. :)

    Qua la zampa mi sa che non ce la posso fare a vederlo, mentre Voice from the Stone potrei fare lo sforzo unicamente per Emilia Clarke.
    Louis Drax quasi quasi...

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    1. Emilia Clarke, soprattutto come se posa come la Winslet in Titanic, è sempre una ragione valida: recupera pure.

      Qua la zampa, secondo me, non ti dispiacerebbe. C'è anche una parte teen molto carina con Britt Robertson, pure lei molto carina.

      Louis Drax un po' pasticciato, però affascinante. Ha anche qualcosina di A Monster Calls.

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  6. Devo recuperare Pastorale Americana: ho un debole per Ewan. :-)
    Ciao da Lea

    P.S: Il ggg non mi è piaciuto per niente, anzi ad un certo punto mi sono addormentata.

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    1. Ricordo che avevamo parlato, ai tempi, dell'indigeribile Spielberg. Ma quanto è noioso e pesante?

      Recupera Pastorale Americana. A McGregor voglio anch'io particolarmente bene, tra Big Fish, Moulin Rouge, Trainspotting e chi ne ha più ne metta. ;)

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  7. La Luce Sugli Oceani.
    Ho trovato il film "lento" come il romanzo, ma non è un lento negativo. L'autrice si prende i suoi tempi, la regia anche, ma alla fine ho preferito la trasposizione cinematografica, anche solo per la Vikander. L'Isabel del libro, come sai, non l'ho amata particolarmente.

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    1. Isabel è un personaggio molto particolare, effettivamente, ma io l'ho capita subito. A me, forse, romanzo e film sono piaciuti allo stesso modo. C'era la stessa angoscia, e pure tanta bellezza.

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  8. Arrivo tardi, ma arrivo saltando a piè pari le sfumature che non mi avranno mai e il cane dalle mille vite troppo ruffiano a scatola chiusa.
    Felice di non essere l'unica ad aver apprezzato l'esordio -solidissimo e tragico- di Ewan dietro la macchina da presa, compito ingrato ma portato a casa, discordiamo invece su La luce degli oceani, polpettone indigesto che a Venezia mi annoiò non poco, come sai.
    Louis Drax lo avevo adocchiato e messo da parte per tempi più liberi, e nonostante il voto non altissimo, una chance gliela darò.
    La Clarke all'italiana e la pessima rappresentazione del GGG della mia infanzia, no, grazie.

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  9. Come sai, La luce sugli oceani non l'ho digerito molto bene :P abbiamo appurato che quando il drama è troppo drama (?) ne risento!
    Per quanto riguarda le sfumature... io mi sa che sono una delle poche persone sul pianeta che non ha né letto i libri né visto i film XD ma sto bene così direi...
    Non sapevo invece che avessero tratto un film dal romanzo Dalla parte di Bailey! L'ho acquistato circa un paio di annetti fa, e ancora latita sui miei scaffali... chissà che il libro non sia migliore del film :P

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