Pagine

sabato 23 luglio 2016

Mr. Ciak: Veloce come il vento, The Shallows, La felicità è un sistema complesso, Grimsby, Segreti di famiglia

Un infarto e un'esistenza che si ferma a bordo pista. Un funerale e una famiglia senza madri che, vestita a lutto, si ricompone per l'occasione. Una morte per tre vite separate. Quella di Giulia e del piccolo Nico, che lì conosco Loris: figliol prodigo che si è bruciato la chance di brillare, galeotto un incidente automobilistico, e il buon senso, per via, stavolta, di stupefacenti che l'hanno reso scheletrico e mezzo matto. Momenti di convivenza obbligata, attimi in cui ci si stringe tutti insieme, tempi duri: in ballo, il casolare in cui sono cresciuti. Lo può riscattare solo Giulia, pilota impavida e scontrosa, che raggira i creditori e gli sponsor con l'aiuto dell'improbabile capofamiglia: quel fratello maggiore che non sa prendersi cura di sé, come può badare ai piccoli di casa? Cosa può fare con la tecnica della campionessa che, a diciassette anni, tutti già danno per vinta? Veloce come il vento, storia di corse a perdifiato e rapporti di sangue, è il terzo tassello di un cinema che – prima con le vite private messe a soqquadro da uno smartphone, poi con i supereroi delle borgate romane – mai come quest'anno vuole lasciarci a bocca aperta per la reattività dei suoi parametri vitali. Alla regia, Matteo Rovere, già arrivato – stilisticamente parlando – ai tempi del radical chic Gli Sfiorari, ma con a disposizione, alla sua terza regia, personaggi più amabili e intrecci di cui, fino in fondo, ci importa davvero. Nel cast, un ottimo e stravolto Accorsi e la semiesordiente Matilda De Angelis: bella come la Lawrence (e intonatissima: ascoltate il suo singolo), con tanto da imparare ancora ma tutte le potenzialità del mondo per riuscire. Il genere, a noi estraneo, è al contrario fortemente connotato all'estero. Buoni sentimenti, rivincite, cadute e resurrezioni, la minaccia di perdere tutto: l'abc delle “americanate”. Ma a me l'americanata fa fesso – penso al pugile dal cuore infranto di Southpaw – e questa americanata con accento romagnolo, dalla trama già collaudata e con sequenze di pura adrenalina, ha qualcosa in meno e tanto in più. Gli occhi diversi coi quali la si guarda, per esempio, e al diavolo i complessi di inferiorità. Un comparto tecnico di tutto rispetto: ci importa poco dei paragoni, perciò, così come la consapevolezza che Veloce come il vento, della nuova gioventù del nostro cinema, sia la pellicola realizzata meglio ma scritta con più approssimazione. Ha il ritmo, il cuore come un tamburo, i sorrisi. La passione che trascina anche me nel fuoco della gara – io che eppure, davanti alle corse su Italia Uno, cambio canale in automatico. Due interpreti duttili e calati nella parte, che ci ispirano fiducia: chi dà peso alle ingenuità di cui è puntellata la sceneggiatura, allora? Intrattenimento fiabesco e sorprendente, è sulla buona strada per fare grandi cose. Darsi a sensazionali imprese. Come su consiglio di Loris, scriteriato ma saggio, si pensa già a quel che sarà. Alla prossima curva.  E ci si augura che Veloce come il vento, riuscitissimo nonostante gli esiti scontati e le emozioni facili, non sia stato che un giro di rodaggio. (7+)

Nancy, studentessa di Medicina in vacanza in Messico, fa un viaggio della memoria sui luoghi che la madre, recentemente venuta a mancare, amava così tanto, in gioventù. La sabbia bianca, le onde perfette, una spiaggia che è un segreto per pochi eletti: il surf al mattino e, a largo, uno squalo che, fiutato l’odore del sangue della bionda, non abbandona la preda designata. Rifugiatasi prima sul dorso di un cetaceo dilaniato, poi su uno scoglio, Nancy ha una pinna acuminata che le disegna cerchi tutt’intorno, ferite profonde e le ore contate, prima che l’alta marea – e il predatore degli oceani – la ingoi. The Shallows – da noi a fine agosto, con il titolo Paradise Beach – è un survivor nella media, che ammicca al cult da brivido di Spielberg e, con una protagonista solitaria e alla deriva, a un Open Water. Non destinato neanche per un secondo a divenire cult generazionale e sprovvisto del taglio autoriale della presunta storia vera di Chris Kentis, ha però una Blake Lively messa a dura prova e costantemente in bikini (il che, diciamolo, è cosa buona e giusta); la direzione dell’esperto Jaume Collet-Serra che, prima di darsi alla collaborazione cuore a cuore con Liam Neeson, aveva diretto l’ottimo Orphan e La maschera di cera; tutta la leggerezza che, in questo periodo, è accettata di buon grado. Di un già visto che, soprattutto per i mari inesplorati e le eroine valenti e pettorute, è gradevole rivedere, è un onesto prodotto di genere, senza infamia né lode, che ha – tra i pregi – un uso modico della computer grafica, una chiusa meno esagerata di altre e una protagonista, in cerca ancora del film della grande svolta, a cui donano l’abbronzatura, le cicatrici e la solitudine dei sopravvissuti. A fine visione, non si rinuncerà a un rigenerante tuffo al mare per la troppa paura, ma se le ferie non sono nei vostri piani imminenti e siete, piuttosto, tipi da montagna, The Shallows – avventura turbinosa e fatale – vi suggerirà freschezza e una certa cautela. (6)

Uscito in sordina lo scorso novembre, poi riscoperto all’indomani della rinnovata giovinezza del nostro cinema, La felicità è un sistema complesso è una commedia dolce-amara un po’ sui generis. Parla di Enrico, uomo cinico e solitario, che fa una professione unica al mondo: quando necessario, con mezzi leciti e non, convince gli industriali in erba a rinunciare all’impresa di famiglia; a vendere. Qualcosa, però, non va per il verso giusto, questa volta. Oppure sì? Enrico, che ha tutto sotto controllo e non si affeziona ad anima viva, si trova ad ospitare in casa una giovane straniera, piantata in asso con una misera scusa dal pavido fratello di lui. E se, nella vita quotidiana, fa i conti con una bellissima, giovane donna che dorme sotto il suo tetto – e, cocciuta, sul pavimento del salotto - , a lavoro gli toccano due giovani orfani, eredi di un nutrito patrimonio. E se prendesse a cuore la loro causa? Cosa sarebbe, poi, della sua risaputa professionalità? Diretto da Gianni Zanasi – noto ai più per Non pensarci, con lo stesso eccelso Mastandrea nel ruolo principale -, il film è una produzione particolarissima ma, vuoi uno script un po’ superficiale che compensa alle falle con idee formalmente brillanti, per me non del tutto riuscito. Ha personaggi che fanno i lavori strani dei film di Cameron Crowe, gli occhi del cinema indie e più di qualche scena che resta impressa – il protagonista in giacca e cravatta che soffia bolle di sapone; lui e lei sospesi sul letto, come d'incanto. Non ho apprezzato il finale, però, troppo semplicistico, e quel piglio un po’ “sorrentiniano” che, al contrario, avrà conquistato i più. Resto cordialmente un non-fan del Paolo nazionale, infatti, e la mancanza di vie di mezzo tra i lunghi silenzi e le frasi ad effetto, gli aforismi e sequenze da videoclip in cui la musica parla più forte dei personaggi, lo rende prezioso e difettoso. Sarà difficile il raggiungimento di questa fantomatica gioia, dunque, e altrettanto difficili sono i guizzi osati dal buonissimo Zanasi; il resto, però, è più essenziale di ciò che c’è dietro. Un About a boy tra le righe. Per chi, nonostante tutto, è convinto che le piccole cose – purché siano tanto elaborate – ci rendano felici. (7)

Nobby e Sebastian non si vedono da quasi trent’anni. Dopo la morte dei genitori, sono stati presi in affido da famiglie diverse e, da allora, l’esistenza dei due monelli di periferia è cambiata. Cos’è stato del loro volersi profondamente bene? Il maggiore ha scelto per sé la sorte peggiore, diventando un panciuto e rozzo scansafatiche, in un quartiere squallido ma caloroso: padre di undici figli, assiduo frequentatore di pub e hooligan all’occorrenza. L’altro, sofisticato e tutto un muscolo, fa l’agente segreto, ma un malinteso – colpa di quel fratello ritrovato – ed ecco che lo scambiano per nemico pubblico da eliminare. La collaborazione, e l’incontro li porterà in Africa, in un apprendistato lampo e in un lungo giro sul viale dei ricordi, tra flash di un’infanzia tenera e demenziali qui pro quo. Grimsby – Attenti a quell’altro (o, più semplicemente, The Brothers Grimsby) è l’ultima avventura al cinema di un Sacha Baron Cohen che fa scompisciare, disgusta e, questa volta, trova un pubblico poco ricettivo in sala. Inaspettato insuccesso, la commedia di Louis Letterier – che, tra le altre cose, ha confezionato un bel giocattolo come Now You See Me – si è rivelato parzialmente immeritevole del flop. La gente ne ha le scatole piene di grassissime risate, umorismo sconveniente e di un personaggio sopra le righe come Sacha, che per me non ci è ma ci fa? Così pare. Onestamente, tra siparietti politicamente scorretti (un proiettile vagante che colpisce un povero malato di HIV, e gli schizzi del suo sangue che infettano gli urlanti sosia di Radcliffe e Trump) e trucidume a fantasia (testicoli avvelenati, elefanti nella stagione degli amori, missili dove non batte il sole), Grimsby mi ha voluto schizzinoso, catapultato in sequenze d’azione assai ben dirette e divertito, molto: complice la grande ignoranza, i sentimenti in fondo buoni e la compagnia, sull’altro sofà, di un fratello che di missione segrete non ne fa. La comicità è di quella che ci faceva ridere da bambini – pupù, liquidi corporei, mutandoni e pance prominenti. La regia è di uno che la sa lunga, la canzone, e Mark Strong, di solito ottimo e sottovalutato caratterista, serissimo per natura, è un compagno di merenda alla mano e un’inaspettata spalla comica. Trashamente senza ritegno: come se, poi, fosse una grave colpa. (6,5)

Ha sfidato le bombe, per poi morire in un incidente stradale in una città senza pericoli. Una mamma che torna a casa – una fotografa di guerra – e la sua scomparsa improvvisa: i suoi piccoli uomini lasciati soli, in preda alle domande; i suoi mondi interiori; i suoi segreti. Louder Than Bombs – titolo bello ed evocativo, tradotto da noi con il dimenticabile Segreti di famiglia – è un dramma indipendente dalla regia raffinatissima e, tutto sommato, con un buon quartetto di protagonisti. Scritto come un romanzo psicologico, e forse proprio per questo non così immediato e scorrevole nella visione, si confronta faccia a faccia con il vuoto, la perdita e i piccoli misteri di una donna che, all’improvviso, muore. Incidente o suicidio? Perché una professionista affermata, coraggiosa, sopravvissuta al peggio, doveva desiderare lo schianto contro un camion, una notte? A chiederselo, il marito e i due figli. Il maggiore, da poco padre, brillante trentenne, si avvicina a un’ex nel momento del bisogno; il minore, timido e tra le nuvole, cerca l’amore di una cheerleader al di fuori della sua portata e scrive confessioni al computer che un po’ ricordano quelle del Charlie di Noi siamo infinito, e un po’ quelle degli adolescenti inquieti che, a scuola, fanno massacri. A volte si proteggono dalla verità, altre volte la cercano; i segreti non sono dei più imprevedibili – amanti, insoddisfazione, sogni pieni di simbolismo – e il ritmo, purtroppo, non è dei più sostenuti. A una storia intima e realistica, dunque, ma senza picchi, fanno fronte una Huppert in absentia, un discreto Byrne e un Eisenberg, al solito, antipatico. Rivelazioni, però, il giovanissimo Devin Druid, fratello turbolento, e Joachim Trier, regista danese non di mia conoscenza ma dalle impressionanti intuizioni formali. C’è del buono, molto d’interessante, ma tra sentimenti pieni di rigore e emozioni filtrate, cerebrale e poco emozionante, Louder Than Bombs non era senz’altro la visione da proporre in mesi di disimpegno. (5,5)

15 commenti:

  1. Visti solo Veloce come il vento e La felicità è un sistema complesso.

    Il primo piaciuto tantissimo, mi è piaciuto il personaggio di Loris e la recitazione di Accorsi, mi ha a tratti fatto venire i brividi.

    Il secondo pure piaciutissimo, un film parecchio strano, ma validissimo

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Entrambi molto validi, concordo, ma gli sceneggiatori questa volta hanno dato un po' forfait.
      Si può sempre fare meglio.

      Elimina
  2. veloce come il vento, imperfetto si, ma quanto mi é piaciuto! Paradise Beach senza infamia e senza lode, in giro c'è di peggio, ma confesso di aver fatto il tifo per lo squalo!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ma Blake Lively aveva il "maritino" Deadpool a salvarla, eh ;)

      Elimina
  3. Il cinema italiano negli ultimi tempi domina, c'è poco da fare.
    Per Veloce come il vento ottima la definizione di americanata con accento romagnolo! :)

    A differenza delle americanate, il film resta comunque quasi sempre ben poco politically correct (spettacolari gli insulti di Accorsi al bambinetto) e dimostra come dalle nostre parti ci sia più coraggio e personalità nel raccontare una storia per certi versi già portata sullo schermo più volte.

    La felicità è un sistema complesso poi come già sai l'ho adorato.

    Blake Lively contro lo squalo non me la perderò di certo. :)

    Grimsby quasi quasi...
    Segreti di famiglia mi sapeva già di poco adatto per la stagione più disimpegnata dell'anno, quindi mi sa che per adesso me lo risparmio.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Su quello sì, concordo. E' la questione della casa pignorata a ricordarmi le americanate a fantasia: non che non succeda anche da noi, eh, però questo attaccamento al nido è molto a stille e strisce (be', c'era anche nei Malavoglia, ma non penso che Rovere abbia preso ispirazione da lì).
      Grimsby è becero, sboccato, volgare. Dirty Grandpa, in confronto, è figlio di Oxford. Però fa il suo sporchissimo dovere!

      Elimina
  4. ...e ora che c'abbiamo pure la nostra Jennifer Lawrence, chi ci ferma più? :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ma, ti dirò, a me piace più la De Angelis (la mia antipatia per la Lawrence, ormai, si sa).
      Aspettiamo pure i suoi selfie?

      Elimina
  5. Veloce e Grinsby devo vederli, la felicità è un sistema complesso non mi era piaciuta la gestione registica con rallenties e scimmiottamenti pseudo internazionali, poi una trama con ottime potenzialità forse sfruttata male pure nel finale...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. A me, nonostante le riserve, tutto il contrario, invece.
      Bellissima regia - forse, un po' troppo autocompiaciuta - e poca sostanza (però bene impacchettata). :)

      Elimina
  6. Quanto cuore in Veloce come il Vento!
    Tralasciando thrillerini, commediole e arie di pesantezza, mi devo proprio vedere questo La felicità è un sistema complesso, magari in una settimana italiana di pieno agosto :)

    RispondiElimina
  7. Oggettivamente, è il trionfo del putridume e del trash, ma è così ben diretto che ci si lascia il beneficio del dubbio: sarà voluto? Mi sono detto di sì. :)

    RispondiElimina
  8. Anche io porto in cuore Veloce come il vento, uno dei tre film italiani nel mio listone top dell'anno.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ho trovato che Genovese e Mainetti avessero più personalità, dalla loro, ma Veloce come il vento si difende bene.
      Virzì non l'avevi visto? Pure bellissimo.

      Elimina