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lunedì 26 settembre 2022

Recensione: Il cardellino, di Donna Tartt

Il cardellino, di Donna Tartt. Rizzoli, € 17, pp. 890 |

Ho iniziato a leggerlo ad agosto, su un treno per il Salento. Quel tomo ingombrante, dalla copertina avorio, aveva attirato le attenzioni di più di qualcuno – compreso il controllore che, stupito per la mia buona volontà, si era complimentato per la scelta. Era un grande fan di Donna Tartt. Avevo letto altro dell'autrice Premio Pulitzer? Sì, avevo risposto, Dio di illusioni: affascinantissimo, mi aveva irretito nella prima metà e deluso nell'ultima. A distanza di anni ricordavo una penna di sconfinata classe, atmosfere torbide e affascinanti, ma un mistero dalla gestione un po' goffa. Potrei scrivere lo stesso del Cardellino: straordinario all'inizio, ma destinato a una parabola discendente – rocambolesca, delirante, retorica – mai completamente metabolizzata. Arrabbiato, a fine lettura avevo richiesto confronti con alcuni lettori. Cercavo il romanzo dell'estate, infatti, ma la frustrazione del momento lo aveva trasformato nella mia memoria in qualcosa di ben peggiore di un'esperienza mediocre: una lettura – di quasi 900 pagine, per di più – destinata a scontentare proprio sul più bello. Come aveva potuto Tartt fidelizzarmi per poi lasciarmi in balia di un epilogo febbricitante, dove l'azione avviene fuori scena e la morale della storia è condensata in uno spiegone grossolano? All'epoca del viaggio, però, non potevo saperlo. E con il controllore avevo scambiato impressioni entusiastiche sulle disavventure d'altri tempi di Theo Decker: un orfanello di dickensiana memoria che, dopo la morte della madre amatissima durante un attentato terroristico, si muove tra benefattori e carcerieri, tragedie e fortune esagerate, in città piene di bellezze insidiose.

Tutto ciò che sopravvivere alla Storia dovrebbe essere considerato un miracolo.

Prima ospite della famiglia Barbour nella signorile New York, poi affidato al padre e alla nuova compagna in una Las Vegas indimenticabile nella sua dissolutezza, Theo potrò contare su una manciata di costanti in un'esistenza per il resto raminga: il negozio di antiquariato di Hobie, sua guida e maestro; l'amore platonico per Pippa e l'amicizia autodistruttiva con Boris, adorabile “lucignolo” dall'inconfondibile accento russo; soprattutto, il dipinto-feticcio di Carel Fabritius, rubato e mai restituito nella confusione dell'attentato terroristico iniziale. Conoscerà la ricchezza e la misera più sfrenate, sperimenterà droghe leggere e pesanti per fuggire al disturbo post-traumatico da stress, diventerà genio e criminale per mezzo delle sue naturali capacità seduttive. Soprannominato Potter per via degli occhiali a fondo di bottiglia e della frangia impettinabile, si fa voler bene proprio come il personaggio di J.K. Rowling: eroe di un'epopea varia, coinvolgente, totalizzante, in cui l'assoluta libertà del protagonista diventa anche specchio della sua struggente solitudine. Come l'uccellino immortalato dal pittore fiammingo, Theo trasmette insieme energia e inquietudine: benché il suo petto sembri continuamente pulsare di vita, è prigioniero del proprio trespolo. Esiste, per lui, via di fuga? Bisogna forse ricercarla nella bellezza, nell'arte, nell'amore? Il cardellino fallisce quando prova ad abbozzare risposte, a cercare un senso al girotondo del suo primattore, ad arginare il suo caos – cosmico e narrativo – in una struttura da thriller americano. La scrittura di Donna Tartt è sconvolgente: l'esplosione di una bomba. Ma quando prova a mettere ordine, a trarre una morale di fondo, compie il medesimo errore di Fabritius. E mette un capolavoro in una cornice laccata; una catena d'argento alla zampa della sua creaturina piumata, condannandola, infine, alla cattività.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead – Karma Police

giovedì 15 settembre 2022

Recensione: La notte scorsa al Telegraph Club, di Malinda Lo

La notte scorsa al Telegraph Club, di Malinda Lo. Mondadori, € 20, pp. 456 |

Come in Carol, lo splendore intramontabile degli anni Cinquanta fa da sfondo all'amore proibito fra due donne. Come in Victor Victoria, la maggiore attrazione di un nightclub è una cantante che si esibisce in abiti maschili e, seducente, ammicca alle spettatrici sedute in prima fila. Come nella Fantastica Signora Maisel, la vita notturna della città offre sorprese e talenti: peccato che i raid della polizia siano all'ordine del giorno. Risulta semplice immaginare il frusciare delle gonne a campana, l'odore della lacca, le luci e le ombre delle insegne al neon. Ma siamo nella multietnica San Francisco, in una famiglia cinese tutta d'un pezzo. Allevata con rigore per diventare una brava donna di casa, la diciassettenne Lily sogna le dive del cinema e di andare sulla luna. Ritaglia fotografie di Katherine Hepburn sui giornali, occhieggia le donne prorompenti sulle copertine dei romanzi rosa, custodisce gli articoli sulla artista di punta del Telegraph Club. Bravissima nella resa di un contesto storico attendibile e dettagliato, Malinda Lo firma una storia per giovani lettori che racconta i primi palpiti, le gioie del contatto fisico, lo sconcerto dello scoprirsi diversi dagli altri. Per farlo si affida ai suoi personaggi, lasciandosi guidare alla scoperta della loro identità – di genere, sessuale, culturale. Ma talora ne risentono i ritmi, piatti soprattutto nella seconda metà, e appesantiti da qualche tematica di troppo. Accanto ai classici espedienti del genere (il ballo scolastico da organizzare, una migliore amica da sostenere per un concorso di bellezza a Chinatown, l'attrazione ricambiata per una coetanea con il mito di Amelia Earhart), infatti, ci sono gli sconvolgimenti politici (la minaccia di russi e giapponesi, la caccia ai simpatizzanti comunisti) e i flashback sugli immigrati di prima generazione (i genitori di Lily, la zia paterna). Combattuto al pari della sua protagonista fra senso d'appartenenza e desiderio di ribellione, La notte scorsa al Telegraph Club è la cronaca discontinua ma toccante dell'ultimo anno di libertà prima del college. Cosa comporta uscire dai confini angusti del proprio quartiere? Cosa significa, oggi come ieri, sentirsi parte di una minoranza? Bisogna spingersi fino a Marte, colonizzare un altro pianeta, per trovare il coraggio di mostrarsi senza maschere? In un momento storico in cui appariva più plausibile un'odissea nello spazio che la parità – nel 1969 Armstrong volerà sulla luna, ma bisognerà aspettare il nuovo millennio per la legalizzazione delle unioni omosessuali –, Lily scoprirà con meraviglia che non è necessario spingersi troppo lontano per liberarsi dalla forza di gravità e dalle convenzioni sociali. Basta un bacio in un vicolo deserto. O la luce rivelatrice di un torbido locale notturno.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Ronettes – Be My Baby

lunedì 5 settembre 2022

Recensione: Il senso di una fine, di Julian Barnes

Il senso di una fine, di Julian Barnes. Einaudi, € 11, pp. 150 |

Siamo davvero le brave persone che millantiamo di essere? Tony Webster – un pacato inglese sulla sessantina, divorziato ma in ottimi rapporti con l'ex moglie, padre e nonno – ha sempre immaginato di sì. Bontempone nostalgico ma non senza ironia, mette tutto in discussione quando il passato torna a bussare alla porta sotto forma di un lascito misterioso. E allora che, scoperchiando un vaso di Pandora ormai dimenticato, riallaccerà i rapporti con una vecchia fiamma di gioventù, la timida ma spregiudicata Veronica, e diventerà il protagonista di un enigmatico amarcord. Nessuna identità, infatti, è abbastanza solida da restare incolume dopo lo scrupoloso esame di coscienza firmato da Julian Barnes.

Sì, certo, eravamo presuntuosi, se no a che serve essere giovani?

Lo scrittore britannico, vincitore un decennio fa del Booker Prize, accumula aneddoti color seppia, corrispondenze via email, interrogativi sul mistero di Finn – il migliore amico di Tony – e sul conto del suo stesso protagonista. Si sposta, così, dalla routine sonnacchiosa del pensionato – rianimata, all'improvviso, dal sopraggiungere di una nuova ossessione – alla rievocazione palpabile della Swinging London, quando i personaggi filosofeggiavano di sesso, vita e morte ai tempi d'oro dell'università. Cosa accadde nel weekend trascorso a casa dei genitori di Veronica ben trent'anni prima? Perché tutti, insegnanti compresi, si contendevano così accanitamente le attenzioni di Finn – talentuoso e dannato in parti uguali? Soprattutto, di quale colpa si macchiò Tony, messo sotto processo dal lettore in persona? A metà tra L'attimo fuggente ed Espiazione, ma decisamente meno memorabile di entrambi, Il senso di una fine sfodera un amato-odiato narratore inaffidabile e un intreccio bipartito, dove la nostalgia lascia presto spazio a un profondo rimorso.

Non è affatto vero che la storia è fatta delle menzogne dei vincitori, come sostenni una volta disinvoltamente, con il vecchio Joe Hunt; adesso lo so. È fatta più dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti.

La verità, benché addolcita dal tempo, è comunque destinata a riemergere con il suo carico di amarezze e tragedia. L'irruenza della gioventù è forse un'attenuante? Le parole hanno un peso specifico. E a volte, se usate a sproposito, generano anatemi. Barnes, al contrario, sa usare quelle più giuste: sintetico e rigoroso, anche se sin troppo algido per i miei gusti, è abilissimo nell'infarcire la voce del suo narratore tanto di sentenze sgradevoli quanto di poetiche perle di saggezza. Il suo è un superbo esercizio di stile, perfetto nella forma ma incerto nelle intenzioni. Sul finire mi sono trovato spesso a domandarmi quale fosse il punto della storia: lo scoppio di un amore tardivo, un inno alle seconde occasioni, un giallo in tocco e toga, o tutto insieme? Vizi e virtù di un thriller dei sentimenti prolisso, perfino con i suoi infiniti non detti.

Il mio voto: ★★★

sabato 3 settembre 2022

Al blog ancora non l'ho detto

Sono cambiamenti solo se spaventano”, cantavano i Subsonica nella loro Domenica. Spaventato, ho preferito metabolizzarli gradualmente in un'estate di latitanza: ho letto poco e scritto meno ancora. Questi cambiamenti, in realtà, sono cominciati nella prima metà dell'anno. Correva il mese di febbraio quando il Ministero dell'Istruzione, dopo due anni di fermo a causa dell'emergenza sanitaria, ha deciso di ripristinare dall'oggi al domani il concorso ordinario. Ho avuto un mese scarso per prepararmi e per raggiungere le sedi dall'altra parte d'Italia. Cinquanta domande a risposta multipla su tutto lo scibile umano, cento minuti. Al concorso per insegnare alle scuole medie sono stato bocciato. Scoraggiato, dieci giorni dopo sono salito nuovamente per quello per le superiori: si è svolto lo stesso giorno del mio ventottesimo compleanno e, a sorpresa, l'ho passato con un ottimo punteggio. Per l'orale ho avuto altri due mesi: ventiquattro ore prima della discussione ho estratto una traccia – la mia era di letteratura italiana, sul poeta triestino Umberto Saba – e in una giornata al cardiopalma ho preparato un'unità di apprendimento lunga trenta slide (comprensiva di normativa scolastica, studiata dal nuovo proprio per l'occasione). Ho atteso la pubblicazione dei risultati con una Tennent's ghiacciata, in un cortile a settecento chilometri da casa mia, mentre il mio destino imprevedibilmente cambiava. Il primo settembre, alle otto in punto, ho firmato la presa di servizio. Per farlo ho saltato il matrimonio di alcuni fra i miei amici più cari. Con la penna in mano, ho avuto un attimo di titubanza ma poi ho barrato la casella esatta: docente a termo indeterminato. Sono professore di ruolo nel liceo di Orbassano, Torino: discipline letterarie e latino. Mi sono trasferito in Piemonte ormai da qualche giorno. A volte mi manca il mare della mia piccola città, altre mi autosaboto dicendomi che non sarò mai all'altezza – avrò venti ore settimanali, un totale di cinque classi. Con il tempo che scarseggia, mi è più facile raccontarmi grazie all'immediatezza della pagina Instagram, ma ho intenzione di mettere radici quanto prima e di tornare a scrivere a tempo pieno anche su Diario di una dipendenza. Avrò bisogno di voi, miei compagni d'avventura da un decennio, e del coraggio che naturalmente infondete. Al blog, sapete, ancora non l'avevo detto.