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venerdì 20 maggio 2022

[Strega 2022] Recensione: Spatriati, di Mario Desiati

| Spatriati, di Mario Desiati. Einaudi, € 20, pp. 288 |

Inizia alla maniera dei film che piacciono a me: lui incontra lei. Non sono semplicemente due esseri umani profondamente diversi tra loro – quindicenni, per la precisione, e dunque già separati dall'abisso che intercorre tra i maschi e le femmine nel corso dell'adolescenza –, ma fronti opposti pronti a generare tempeste tropicali. Lui, Francesco, vive una giovinezza oscura e noiosa, fatta di campi riarsi e pomeriggi all'oratorio. Lei, anticonformista e raminga, abbaglia con una cascata di capelli rossi e il look da maschiaccio. A unirli sono la profonda provincia pugliese, di una bellezza arcaica e soffocante; la relazione adulterina fra i rispettivi genitori, clandestini eppure liberissimi; un'amicizia elettiva, spesso a confine con l'amore, lunga tre decenni. A separarli, invece, sarà tutto il resto. Colti nel corso del loro infinito viaggiare, incapaci di intrecciare le loro solitudini al pari degli amatissimi protagonisti di Sally Rooney, Francesco e Claudia macinano chilometri in fuga dalla peggiore delle guerre: quella contro loro stessi.

A volte si leggono romanzi soltanto per sapere che qualcuno ci è già passato.

Lei, girovaga estranea a qualsiasi senso di smarrimento, sonderà negli anni Milano, Londra, Berlino: andrà in esplorazione e, tra chiamate Skype ed email, aggiornerà l'altro sulle emozioni della musica techno, sugli amanti innumerevoli, sulle tappe di una carriera ondivaga. Lui, invece, destinato a ingrigirsi sempre più per via della totale negazione di sé stesso, ascolterà e si struggerà in silenzio. Esiste una patria comune in cui è possibile non soltanto essere una coppia, ma perfino una famiglia? Mario Desiati, con una prosa vibrante di smania e malinconia, sublima i sogni e le paure di una generazione in un romanzo inquieto, selvaggio, intimamente mio (che da quando ho visto The Dreamers invidio la dissolutezza pornografica delle capitali europee, ma fantastico, d'altra parte, di trasferirmi in trullo a leccarmi le ferite). Erigere la propria identità richiede costanza e lavori graduali di manodopera: lo stare fermi, giacché senza fondamenta si è destinati inevitabilmente a crollare. Imporsi nel mondo significa vegliare sui progressi di un cantiere imperituro – il nostro.

Ero un'erbaccia selvatica, ferrigna e cocciuta, ma estirpabile senza proteste da un momento all'altro. Eravamo migliaia così, anelavamo alla casualità dell'umido e della pioggia, con la gioia di chi si trova nell'unica patria possibile, quella in cui non rispondiamo a nessuno di ciò che siamo.

Si può costruire qualcosa scappando? s'interroga Spatriati. E ispira il suo autore, così, nella messa a punto di una lingua franca a metà strada tra i dialetto e il tedesco: l'esperanto della ritirata. Siamo lavori in corso e foto uscite mosse. Siamo cervelli in fuga e cuori in avanscoperta. Abbiamo il terrore di ricominciare altrove e di restare dove siamo. Non sapremmo vivere in un posto senza il mare, ci diciamo, né vivere un'esistenza intera nei panni stretti in cui siamo cresciuti. Forse il trucco è chiudere gli occhi, lanciare un dado e giocarci il futuro a sorte: assumere vitamina D in pastiglie per sopravvivere all'estero alla mancanza di sole. Forse, se questa vita è un abito tagliato male – un travestimento da impostori in cui, ormai, non ci riconosciamo più –, l'unica salvezza è spogliarsi nudi da capo a piedi. Come San Francesco d'Assisi. Come i depravati felici nei fetish bar di Berlino.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Madame feat. Sangiovanni – Perso nel buio

martedì 10 maggio 2022

Recensione: I giudizi sospesi, di Silvia Dai Pra'


I giudizi sospesi, di Silvia Dai Pra’. Mondadori, € 20, pp. 492 |

Negli anni Novanta, gli stessi dell'avvento Berlusconi, i magnifici Giovannetti vivono in una cittadina residenziale a venti minuti da Roma. Si fregiano del loro cognome come di una medaglia al merito. Ambiziosi, attraenti e talentuosissimi, si professano comunisti ma si tengono ben stretti, intanto, i loro privilegi; si dichiarano non tabagisti ma, calata la sera, eccoli con una sigaretta fumante stretta tra le labbra. Benché ormai in pace con le contraddizioni, i non detti e le bugie della propria stirpe – rigorosamente composta da accademici figli di accademici –, i protagonisti della sorprendente Silvia Dai Pra' non sono abbastanza lungimiranti da prevedere la perdita della loro aura. Sempre a un passo dal crollo, destinati a invecchiare precocemente e a vivere cristallizzati nel passato, si tormenteranno per trenta lunghi anni con lo stesso interrogativo assillante: di quale colpa si sono macchiati in un'altra vita per meritarsi tutto quel male?

Penso che i miei genitori, in quella solitudine affollata che gli altri chiamano famiglia, fossero in fondo una bella coppia; penso che non si meritassero ciò che hanno vissuto, se mai qualcuno merita quello che accade, se, da qualche parte, in qualche modo, in tutto questo c’è un senso.

L'annientamento, per loro, ha le fattezze di James Tocci: affascinante e diabolico sin dall'adolescenza, collezionista di donne e guai al pari del peggior Nino Sarratore, seduce e abbandona a momenti alterni Perla, la primogenita della famiglia. Preziosa di nome e di fatto, la ragazza manderà alle ortiche un avvenire radioso alle ortiche per scimmiottare lo struggimento amoroso della poetessa Sylvia Plath e vivere di espedienti. Cosa ha sbagliato l'adorato papà, che da sex symbol del corpo docente del liceo classico si trasformerà in un derelitto dalle scarpe bucate? Dove ha fallito la madre, mite insegnante d'arte che, al contrario del consorte, si rifugerà in un’ambiziosa ascesa lavorativa? A raccontarli è Felix – la pecora nera, il figlio minore dal sette in condotto – che, con la scusa di rimettere insieme i cocci dei Giovannetti, rimanda a domani le scelte importanti. Eterno Peter Pan, cinico e disincantato, resta prigioniero della propria adolescenza – stessi luoghi, stesse cotte, stessi sogni infantili – pur di modificare ciò che è stato. Libero dalle aspettative altrui, si rifugia in tradimenti seriali e in horror di serie B. Prova repulsione al pensiero di diventare padre, ma si occupa degli altri, intanto, con commovente devozione.

Occuparsi del dolore degli altri è il modo più economico per non avvertire il proprio.

Alle prese con un convincentissimo punto di vista maschile, abile tanto nell'indovinare i giusti equilibri quanto nel proporre dialoghi squisitamente cinematografici, l'autrice parte da un evento piccino – la nascita di un amore contrastato – e costruisce una saga familiare ad ampio respiro, amara e speranzosa insieme, in cui gli incubi dell'attualità (ci sono tutti: dalla violenza di genere al lockdown) fanno puntualmente capolino in chiusura. Che fine ha fatto Perla, che da macchina di trionfi scolastici è diventata un nome da pronunciare mordendosi la lingua – un lutto in vita, una vergogna? I giudizi sospesi parte come Pastorale americana, si sporca del crime di Tre manifesti a Ebbing, Missouri e si rifugia, infine, nella dimensione sospesa del suo bel titolo. Né commedia né tragedia, è tutto ciò che c'è nel mezzo. Come in un film di Paolo Virzì. Come nelle irresistibili famiglie infelici a modo loro – e a modo nostro.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sally - Vasco Rossi

sabato 7 maggio 2022

Recensione: Giorni felici, di Zuzu

| Giorni felici, di Zuzu. Coconino Press, € 25, pp. 448 |

Claudia ha circa la mia età e qualche volta perde il controllo. All'apparenza identica ai miei coetanei, tanto negli sfrenati sogni ad occhi aperti quanto nello struggente smarrimento generazionale, spesso abbandona i tratti umani per trasformarsi in una sfinge con tanto di ali, coda e artigli. Le capita nei momenti di massima alterazione, quando il sesso, la gioia o la rabbia mandano il suo autocontrollo a fanculo. Eccessiva e teatrale nei modi, vorrebbe fare della propria esuberanza un mestiere. Eccola, quindi, salutare con un bacio l'amorevole fidanzato Piero e tornarsene a Roma per un provino: come reggere l'ansia da prestazione se nel frattempo ci mette lo zampino anche un ex di vent'anni più grande mai realmente dimenticato? Le novità e i ricordi minacceranno di mandarla in pezzi.

Insegnami come si fa... a parlare con le pietre.

Raccontata tra passato e presente – fino ad annullare qualsiasi dimensione spazio-temporale grazie a un poetico slancio d'ali –, l'irrequietezza tutta contemporanea di Claudia viene immortalata attraverso le campiture disordinate e i tratti volutamente infantili di Zuzu. La fumettista casertana, appena ventiseienne, firma un graphic novel rosso sfacciato di cui ogni pagina – intima, dolente, stranissima – minaccia lacrime come il season finale di Fleabag. Giorni felici cita un capolavoro drammaturgico di Thomas Becket – Claudia, al provino, si cimenterà con un monologo indimenticabile del personaggio di Winnie: una donna sopraffatta dalle tragedie, eppure sorprendentemente felice di stare al mondo – e tratta con approccio surreale le relazioni tossiche, gli attimi di autocommiserazione, la speranza mista a terrore di fidarsi di un'altra persona. Dolcemente complicata, a tratti respingente per via dell'efferatezza di alcune immagini, la lettura mi ha conquistato con la sua schiettezza animale e mi ha emozionato con la consapevolezza, tutt'altro che banale, che spesso ènecessario trovare un centro di gravità per non volare via. Cos'è l'amore? Zuzu interroga sé stessa e i suoi protagonisti; perfino le pietre. E ci dice che a volte è un inferno in terra; altre una crostata con crema e fragoline di bosco così deliziosa da farci dimenticare, d'un tratto, l'obiettivo di puntare alla luna. L'importante è trovare una persona così buona da scambiare il nostro strabordante caos interiore per coraggio. Beato chi non la capirà, Claudia. Beato chi così fuori (posto, dal mondo, di testa) giura di non essercisi mai sentito.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Carmen Consoli – Parole di burro