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mercoledì 28 febbraio 2018

Recensione: Il tatuatore di Auschwitz, di Heather Morris

| Il tatuatore di Auschwitz, di Heather Morris. Garzanti, € 17,90, pp. 208 |

Preferisco ricordare a modo mio e, in previsione della Giornata della Memoria, mi tengo lontano anno dopo anno da letture e film sull'argomento. Soprattutto se si parla di ultime uscite: quelle sempre e da sempre guardate con fondato sospetto. Diffido per natura da chi ricorda, e scrive, a tavolino. Salto a pie' pari quei titoli tutti uguali su stelle a cinque punte, treni della disperazione, pigiami a righe, e per ovvie ragioni, ragioni umane, non si tratta da parte mia di disinteresse o insensibilità verso l'importanza del tema. Il mio problema sono gli appuntamenti editoriali da spuntare come voci della lista della spesa. Storia rispolverate e riproposte, a fine gennaio, più per amor di puntualità che di verità. Quando le ricorrenze diventano best-seller, apprezzabili più per il contenuto che per la forma, e ricordare assume un altro significato – promemoria sui taccuini, scadenze in redazione, in cerca a cadenza fissa di un altro La vita è bella. Il perché non lo so, ora non lo ricordo più, ma qualcosa – forse i pareri positivi all'unisono, un film in produzione, una storia d'amore memorabile perché difficile – mi diceva che Il tatuatore di Auschwitz, uscito immancabilmente il primo mese dell'anno ma recuperato in seguito per precisa volontà, potesse fare eccezione. Si parla di campi di concentramento inediti, ancora in costruzione. Si parla di un uomo che per sopravvivere fu costretto a lavorare per il nemico tedesco, con il rischio di essere accusato di collaborazionismo.

Salvare un essere umano è salvare il mondo.

Lale, prigioniero per tre anni, lascia la Slovacchia su un treno che lo porta volontariamente all'inferno, per risparmiare la stessa sorte a qualcuno della sua famiglia. Così fuori posto in giacca e cravatta, vestito come per un colloquio di lavoro, il ventiduenne – in un'altra vita, elegante commesso presso un grande magazzino – porta suoi luoghi dello sterminio l'incorruttibile sfrontatezza da viveur, la forza di chi è giovane e speranzoso, una fiduciosa ottusa che si scontra presto con la crudeltà della prigionia. I soldati delle SS, si promette fermamente, non vinceranno. Lale non piange, dà vita con scaltrezza a un piccolo giro di contrabbandono – introdurre dall'esterno cibo e medicinali, grazie al furto di gemme e monete dalle tasche dei giustiziati – e lavora fianco a fianco a chi perseguita la sua gente, sperando di fargliela sotto il naso. Scampato ai lavori più pesanti, il giovane ha infatti l'ingrato compito di marchiare gli ultimi arrivati. La mano delicata ma che trema, numeri d'ago e inchiostro per cancellare con gesti implacabili l'identità di zingari ed ebrei. Impossibile cancellare quella di Gita però: la bellezza della prigioniera, semplicemente il suo esistere, gli insegnano che l'amore è via di fuga, anche quando le ronde fra Auschwitz e Birkenau ti strappano la fede e i capelli dalla testa. Vissuta fugacemente in prima persona, nelle domeniche in cui alla luce del sole è possibile incontrarsi o sfidare a calcetto i tedeschi, la loro relazione inganna la tristezza e rallegra compagni di sventura che riescono a sorridere e scherzare anche sotto la cenere. Si descrivono con dovizia di particolari le mansioni e la quotidianità, in una catena di montaggio in combutta con la morte – gli esperimenti di medici sadici, i corpi sfruttati delle donne avvenenti, la costruzione dei rovi di filo spianto e dei forni crematori, l'ingresso all'inferno perfino di anziani e bambini.

Sono soltanto un numero, dovresti saperlo. Me l'hai dato tu.

Il tatuatore di Auschwitz ti fa tuttavia l'imperdonabile affronto di non emozionare nemmeno un po'. Mancano la passione di Lale e Gita; la disperazione di due amanti che ogni volta non sanno se e quando si rivedranno. Manca l'angoscia dei soprusi, dei tormenti della carne e dello spirito: manca il romanzo, se Heather Morris – che eppure lavora come sceneggiatrice, che eppure nella nota finale racconta di aver ascoltato per anni le testimonianze di un Lale realmente esistito – ha una storia potenzialmente vincente ma uno stile piuttosto mediocre. Al dolore, a ciò che davvero è stato, non sa dare peso. Alle articolate vicessitudini di Lale, fortunato e longevo come un gatto, non sa dare fondamento alcuno. Si fa semplicemente fatica, a tratti, a credere che sia andata così. Potreste dirmi che sono certe esistenze, certe epoche buie, ad essere incredibili nel bene o nel male. Fra le pagine del Tatuatore di Auschwitz però c'è sin dall'inizio qualcosa che non va: snodi frettolosi, comprimari appena abbozzati che all'improvviso salvano una situazione catastrofica, un protagonista – doppiogiochista per salvare sé e gli altri, sì, e chi oserebbe condannarlo – che non prendiamo mai a cuore. Colpa di una scrittura consequenziale, piatta e quasi sprovvista di dialoghi, con fatti nudi e crudi che non si curano minimamente della forma. Quella di chi vorrebbe parlare della verità non sapendo darle voce.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Adele - Love in the Dark

lunedì 26 febbraio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: La forma dell'acqua | The Post

Era il La La Land di quest'annata, per numero di nomination, fazzoletti stropicciati a Venezia e un romanticismo d'altre epoche, d'altro cinema. Se per l'impazienza di vedere il musical di Chazelle avevo macinato però chilometri il primo giorno di programmazione, per l'ultimo Del Toro – stimatissimo ma non sempre venerato, non sempre seguito a scatola chiusa nelle sue irruzioni nel blockbuster – ho aspettato quel tanto che bastava ad ascoltare qualche parere contro, a nutrire dubbi su quanto magico fosse. Leggevo, infatti, di una sceneggiatura tutt'altro che a tenuta stagna. Di citazioni spesso a confine con il plagio (vedasi le rimostranze di Jeunet) e di occhi asciutti all'arrivo dei titoli di coda. Toccava vederlo e basta, ho capito. Tolto il dente, tolto il dolore. Soprattutto, tolto il sospetto che potesse deludere, quando le porte del solito multisala mi hanno restituito a piogge da giudizio universale, tanto simili a quelle che qui infradiciano la Baltimora degli anni Sessanta, e rubato le parole di bocca. La bellezza della Forma dell'acqua – fosco, sanguinoso, dolcissimo – sul momento mi ha stordito. Non può parlare nemmeno Elisa, timida donna delle pulizie che condivide un appartamentino pittoresco con il sensibile Richard Jenkins, coinquilino omosessuale dai consigli paterni sempre pronti, e segreti governativi con l'irresistibile collega Octavia Spencer, nel classico ruolo della matriarca ciarliera e orgogliosa alla Octavia Spencer. Shannon e Stuhlbarg, caratteristi eccelsi quasi usciti dai mondi di spie sovietiche e tic nervosi dei fratelli Coen, hanno strappato dalla laguna, in catene, un mostro marino. La creatura, contesa da americani e russi in piena Guerra Fredda, sente. Mangia un povero gatto d'appartamento, ma glielo si perdona. Si rifugia malinconicamente nel cinema sotto casa, se si perde. In pausa pranzo ama le uova sode, il linguaggio universale della musica classica e le gentilezze della donna che vorrebbe restituirlo al mare – la straordinaria Sally Hawkins, eppure etichettabile come bruttina a un'occhiata superficiale, sa sedurre con un misto di candore e civetteria, attenta agli accostamenti della mìse e alle richieste private del suo corpo di donna, audace con le scene di nudo integrale e gli stratagemmi che le permettono di unirsi carnalmente all'ospite in un'incredibile stanza-acquario. La protagonista non ha branchie, ma cicatrici longitudinali all'altezza della laringe. Non parla, ma è talmente espessiva, talmente comunicativa quando sbraita o si impunta, da rendere vana la comparsa dei sottotitoli in sovraimpressione. Magnifica creatura anfibia che sa conquistare le acque e la terra, uccidere, ridere e fare l'amore, questo novello La Bella e la Bestia a spasso nel Favoloso mondo di Amélie è un gioiello dell'emozione che rinnova in poltrona il colpo di fulmine per la settima arte. Del Toro ruba qui e lì, come fanno i ladri e gli artisti gentili, e sulla scena del crimine, nella cassaforte vuota, lascia in pegno tutta la poesia e l'orrore di cui l'ho scoperto capace ai tempi del Labirinto del fauno. Voler dire troppo, tutte e niente, e non avere il dono delle parole giuste. Per fortuna si sopperisce con le mani, con il luccicore negli occhi. In un film in cui, se non lo si sa dire, lo si canta trasferendosi nel bianco e nero di un musical sognante. In una fiaba splatter in cui l'inserviente muta si innamora corrisposta di un Dio ricoperto di squame, e noi di loro. Altro non posso e non lo so dire, no. Quindi tuffatevi. A recuperare quella scarpetta rossa che se ne va piano, pianissimo alla deriva. A vedere come fa, un cuore di conchiglia in cui accostato l'orecchio puoi sentire battere e rombare il mare. (8,5)

Ogni anno c'è il film che mi pesa recuperare. Quello politicamente schierato. Quello, dicevamo, che si crede degno di lode soltanto perché indigesto. Già con il sopravvalutatissimo Spotlight non più appassionante ed esaustivo di una pagina Wikipedia, ma con un tema scabroso che ispirava comunque i travasi di bile, la rabbia – avevo mostrato la mia freddezza davanti al thriller d'inchiesta. Di solito pagine di storia poco indagate in passato, ma pur sempre pagine: informative, impersonali, freddissime. Anche quest'anno immancabile qualcosa come The Post, che immancabilmente non stupisce. Dramma giornalistico che nell'era Trump parla di presidenti truffaldini e libertà di stampa, il film del rigoso Spielberg – ritrovato in forma smagliante, lui sì, dopo il fiasco del Grande Gigante Gentile – segue i i giornalisti del Post alle prese con un caso di coscienza e uno scandalo presto scalzato via da Watergate. Quattro presidenti, il governo, hanno a lungo mentito sulla natura e la gravità della guerra in Vietnam. Tacere ed esserne complici? Denunciarli con tutte le ritorsioni personali del caso ma così facendo rilanciarsi, a discapito della concorrenza omertosa? Le decisioni spettano al caporedattore Hanks, per fortuna meno protagonista del previsto, e alla proprietaria del giornale – una Streep non particolarmente meritevole ma da al solito da manuale (basti guardare il modo in cui temporeggia al telefono, si tormenta bocca e mani), alla quale tocca riconoscere i pochi sprazzi di umanità in un cast che, per il resto, poco eccelle con i suoi inservibili volti televisivi. La guerra: mostrata solo nell'incipit. Il resto: dialoghi teatrali a raffica, ora alla cornetta e ora attorno a una scrivania, pieni di nomi, dati e date, che non annoiano soltanto da metà in poi, pur facendo costantemente pesare la mancanza di un Aaron Sorkin alla sceneggiatura. Tecnicamente inappuntabile, scorrevole grazie a una regia concitata, The Post ignora la dimensione individuale dei suoi protagonisti e, nel tentativo di risollevasi con una morale femminista altrettanto attuale, predilige alla fine la prospettiva della direttrice. La sola a mostrarsi in borghese, fragile e confusa davanti alla figlia Alison Brie, insieme a Sarah Paulson, moglie di Hanks lasciata ai margini. Questo e quell'altro politico bugiardo, ampie falcate da una redazione all'altra, dilemmi lunghi due ore, il rullo dei macchinari di un'inchiesta che infine va in stampa come risaputo. Non aggiungendo nulla alla verità, all'infinita filmografia di Spielberg, ai meccanismi raffinati dell'intrattenimento d'autore. Al pari un articolo bomba che, ormai, non fa più notizia. (5)

sabato 24 febbraio 2018

Recensione: Spontaneous, di Aaron Starmer

| Spontaneous, di Aaron Starmer. Dana, € 18,90, pp. 302 |

C'è qualcosa che non va in quel di Covington. C'è qualcosa che non va negli iscritti all'ultimo anno del liceo pubblico, pronti come Icaro a spiccare il volo e a bruciarsi. Letteralmente. Succede un giorno qualsiasi, all'ora di matematica. Qualcuno messaggia, qualcuno sonnecchia e qualcuno esplode come se niente fosse, schizzando in classe sangue, urla e domande esistenziali a proposito della vita, della morte e di quello che c'è in mezzo. Il motivo: l'autocombustione. Non è una leggenda metropolitana. Soprattutto, non è un caso isolato. Alla prima esplosione, alla prima vittima, ne seguiranno altre. A lezione, su un campo di football dagli spalti affollati, in gruppo o in solitaria. Fra i superstiti, tutti diciassettenni, ci si domanda come sentirsi e come no. Si mettono al vaglio tutte le ipotesi: sarà la Terra che ci si ritorce contro per l'uguaglianza razziale, le coppie gay, la legalizzazione del fumo; sarà una maledizione pronunciata dalla compagna di scuola eternamente bullizzata; saranno le acque inquinate, le cospirazioni governative, i prodromi di una futuristica invasione aliena. I media e i ciarlatani ci vanno a nozze, l'FBI manda in avanscoperta i suoi agenti migliori. Tutti sono sospetti, tutti fanno a gara di sensi di colpa e supposizioni. Ci si interroga notte e giorno su chi morirà, perché sì: ne moriranno in molti. Forse toccherà anche a Mara, narratrice freschissima, piena di vita e nitroglicerina. Se non fosse per lei, se non fosse per lo stile spigliato di Aaron Starmer – a rischio di antipatia però, con il linguaggio gergale tutto tormentoni e abbreviazioni dell'ultimo John Green –, Spontaneous sembrerebbe materia per un thriller sci-fi. In effetti non fa sconti di sorta. In effetti non pone un limite all'inquietante numero delle vittime.

Stavamo morendo tutti assieme. Un pianto ci stava. Ma ci stava anche una grassa risata.

Mara, che in un film di prossima uscita diretto dallo sceneggiatore di La Babysitter avrà il volto di Katherine Langford, vorrebbe ridere con la migliore amica Tess, fare l'amore con quel Dylan dalla fama losca, proteggersi dal fuoco incrociato di un'armageddon a misura di liceale. In teoria: temi in assonanza con quelli del prezioso e sottovalutato Fino alla fine del mondo. In pratica: toni e strade tutte diverse, all'insegna di una metafora – quella del raggiungimento della maturità – che qui sposa le stranezze del surreale. Young Adult a metà fra il romanzo umoristico e lo splatter, a lungo non sai se prenderlo sul serio. Ha infatti una galleria di personaggi troppo sopra le righe, troppo caduchi, per affezionarcisi davvero; schizzi di materia cerebrale e riflessioni sparsi a piene mani. Una bomba non è, nonostante per il Time sia stato il miglior YA del 2016. Così spontaneo, a onor del vero, neppure. Ma riesce a farsi apprezzare, al giro di boa, per gli enigmi e la sfacciataggine – perfino per lo slang e la colloquialità, sì, che all'inizio facevano storcere un po' il naso.

Lottare contro la morte potrà essere nobile, ma non è vita. Abbracciando Dylan mi resi conto di voler morire senza pensare alla morte. Volevo essere così distratta dalla vita da non sapere manco cosa fosse, la morte.

Le relazioni sono a tempo determinato, i corpi vanno a male, le menti sono un'arma di distruzione di massa pronta a far scintille. Se la fine verrà, e verrà, poco male. Meglio aspettarla su una spiaggia improvvisata, con un narghilè in mano e il tramonto – rosso, rossissimo, più del sangue versato – negli occhi. Gli studenti del quarto anno, con l'arrivo di settembre, rischieranno la stessa sorte? O le esplosioni a catena finiranno il giorno del diploma, come per magia? Il diffuso allarmismo porta alla chiusura delle scuole, alla quarantena. Qualcuno teme un contagio. Qualcuno vorrebbe mandare ogni cosa in malora, tanto esagerando con la sorveglianza quanto dandosi a un edonismo bacchico. Ma gli adolescenti non rinunciano alle cose di sempre, scoppiettanti per definizione. Studiare. Assumere droghe leggere o pesanti. Ingelosirsi. Tornare a innamorarsi. Far festa, con l'apocalisse dentro e fuori di noi. 
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Charli XCX – Boom Clap

giovedì 22 febbraio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Loving Vincent | Una donna fantastica

La scuola insegna. Se non tutto, qualcosa almeno. All'ora d'arte, al liceo, si parlava di moti e correnti, ma a restarci impressi erano inevitabilmente i dettagli pruriginosi. Come un orecchio mozzato portato in dono a una prostituta. Come un suicidio consumato fra il giallo del grano e i corvi in volo. Van Gogh, per fortuna non soltanto particolari scabrosi, ha sempre fatto eccezione fra i banchi. La barba fulva, lo sguardo triste e sfondi dai colori acquosi che sembravano invitarti a perderti nel loro vortice; muoversi pur restando immobili. Nella vita fatta di alti e bassi dei geni insuperati – a cui tocca essere infelici, pare, per lasciare un'impronta nel tempo –, il pittore olandese si avvicinò ai pennelli in tarda età. In otto anni dipinse ottocento tele. E, cosa nota, scrisse forse altrettante lettere. Finendo sempre così: con l'amore all'ultimo rigo. Lo scapestrato Armand, un giovane in cerca del proprio posto nel mondo, ha il compito di consegnare al fratello di lui, Theo, una lettera postuma. Il viaggio diventa a sorpresa materia per un mistery alla Agatha Christie. Il destinatario della missiva è morto, stroncato dal dolore e dalla sifilide. In paese le locandiere pettegole, i battellieri e i matti rivelano però che Van Gogh non morì sul colpo. Che, dopo aver sfiorato di nuovo l'abisso, aveva ritrovato l'equilibrio interiore nella quiete della campagna. I pettegolezzi parlano ora dell'amore sconveniente nutrito per Saoirse Ronan, ora dei dissapori con un medico invidioso e un fratello gravemente indebitato, ora della delusione per Gauigin che sembrava sempre bruciare. Quale aspirante suicida si sparerebbe una pallottola in pancia? Quell'olandese malato di malinconia sarà stato forse vittima di una cospirazione? Douglas Booth tenta di riabilitarne il ricordo a colloquio con alcuni dei migliori talenti britannici, prestati a cuor leggero a un capolavoro dell'animazione che di capolavori parla. Come raccontare Van Gogh, infatti, se non come avrebbe fatto lui, con un'arte che non smette di incantare? Dipinta interamente ed eccezionalmente a mano, l'atipica biografia diretta da Doreta Kobiela e Hugh Welchman brilla per un'armonia stilistica che davvero non si scorda. L'insuperabile bellezza di Loving Vincent fa sì che gli occhi si riempiano e che ci si distragga un po', vero, da una trama che su carta prometteva qualcosa di più: il pretesto di un giallo che in realtà ha in sé tutti i colori del mondo. Ma ne rispetta l'anima. Le parole scritte. Le sfumature. Dove di arte si vive e si muore, siamo quello che la gente dirà di noi. Gli sbaffi di sangue e vernice rappresi che restano sulla tavolozza sporca. E assieme a loro resta Van Gogh, un mistero che ancora brilla. Su una stella. Nei cieli vorticosi della sua notte dipinta. (7,5)

Dell'alcol, un po' di fumo, una notte di sesso. Accasciarsi al suolo poco dopo il risveglio: un ruzzolone per le scale, lividi dappertutto, e la diagnosi di ischemia cerebrale. Ad ascoltare le parole dei medici non c'è una parente di sangue, ma l'amante di Orlando – trent'anni di troppo, una famiglia alle spalle, morto sul colpo. La giovane Marina, di giorno cameriera in un suggestivo caffè affacciato sui caroselli del Luna Park e di notte aspirante soprano, si fa carico delle responsabilità e dei segreti del defunto compagno in nome di un amore che appariva sconsiderata perversione agli occhi dei più. L'appartamento, un cane, l'organizzazione della veglia funebre, e il passato di lui – la ex moglie, un figlio pieno di rancore – che alza la cornetta al primo squillo per muovere inevitabilmente offese e pretese. I biglietti per un viaggio di coppia ormai da archiviare, una chiave che apre chissà quale porta e il fantasma di Orlando, presenza tutt'altro che inquietante nello specchietto retrovisore o al centro di una discoteca affollata, che non reclama forse che l'ultimo bacio. Quello vissuto da una Marina sempre in fuga è un doppio dramma. La donna fantastica del cileno Sebastiàn Lelio – braccio destro di Larraìn, pronto quest'anno a conquistare gli Stati Uniti prima con il dramma saffico Disobedience, poi con il remake del suo Gloria – sembra spartire con “l'uomo solo” di Tom Ford il silenzio della perdita e una doppia vita, una doppia sessualità. Metà uomo, metà donna: una chimera, come mormora la vedova di Orlando non riuscendo neanche a reggerne lo sguardo. L'intensa Daniela Vega, autentica anima di un film che sprizza il suo stesso fascino androgino, è un misto di rabbia e delicatezza represse; una ragazza transessuale in una Santiago che, se si parla di dolore, vorrebbe usare due pesi e due misure. Il lutto, nell'impossibilità di un'elaborazione privata, si trasforma presto in indagine. Lui picchiava lei, domandano in commissariato, o lei picchiava lui? Le storpiano così il nome, il pronome, i sentimenti. La umiliano perfino quando vorrebbero aiutarla. Lo si diceva già a proposito dell'indipendente They, visto allo scorso Torino Film Festival: alcune storie devono rimanere sospese, come alcune identità. La ricercatezza della messa in scena, la bellezza di una regia che inquadra l'ordinario e lo straordinario, fanno quindi da contrappunto alla vita normale, e ai normali dispiaceri, di questa fantastica donna vissuta due volte. Nei rari sogni, nelle visioni stroboscopiche, la vita le riserva gli sprazzi e i lustrini dei musical. Il vento non la sposta. Il riflesso degli specchi non spaventa. Natural Woman alla radio sembra scritta apposta per lei, e Marina – Daniela – alza il volume, in macchina, e riprende a cantare. (7)

lunedì 19 febbraio 2018

Recensione: L'uomo di gesso, di C.J. Tudor

| L'uomo di gesso, di C.J. Tudor. Rizzoli, € 20, pp. 347 |

Bastano cinque amici, un'estate sospesa nella seconda metà degli anni Ottanta, un paese di provincia in cui all'apparenza non succede mai niente di che. L'attesa che arrivino i caroselli del Luna Park in piazza e la scoperta nei boschi, sotto un mucchio di foglie secche, di quanto possano essere criminali certe menti. Ad Anderbury, a dodici anni, tutto è un lungo gioco: crescere e imboccare strade diverse allo stesso bivio; perfino l'omicidio. Eddie, ai tempi soltanto un bambino, rievoca trent'anni dopo quella bella stagione di morte e misteri. Qualcuno bussa alla porta, una vecchia conoscenza in cerca di fama e verità, e il mite professore dalla lingua impastata – un amore per il collezionismo a confine con il disturbo ossessivo compulsivo, una casa da dividere con un'incantevole sconosciuta dal look gotico, rughe precoci al centro della fronte per la paura crescente di aver ereditato dal padre il sogno di scrivere assieme all'Alzheimer – accoglie suo malgrado flashback di una vita prima e fantasmi senza riposo.

Ci sono cose nella vita che puoi modificare – il tuo peso, l'aspetto fisico, persino il tuo nome. Certe altre invece non le puoi toccare in alcun modo, e non importa se ci speri e ci provi e ci lavori duro, con tutte le tue forze. Sono queste le cose che ci modellano. Non le cose che possiamo cambiare. Quelle che non possiamo cambiare.

Quando erano lui, Gav la Palla, Hoppo, le continue bugie di Mickey Metallo e i boccoli ramati di Nicky, l'unica ragazza della banda. Un bullo, Sean, e l'idea di sfuggirgli elaborando una specie di linguaggio segreto. Basta un pacco di gessetti per abbozzare sui muri omini stilizzati: ognuno disegnato in maniera diversa (cinque amici non troppo inseparabili, dunque cinque colori), ognuno con un messaggio (tutti al parco, incontriamoci, e magari un grassoccio punto esclamativo per indicare fretta, subito). Qualcuno di infido, però, si appropria del trucco dei ragazzini: l'orrore fa suo quel loro codice privato. Omini di gesso se un coetaneo annega nel fiume. Omini di gesso se un membro della comunità al di sopra di ogni sospetto viene ridotto in fin di vita. Omini di gesso, come in una caccia al tesoro, sulla tomba della Ragazza del Valzer: un'adolescente romantica e sfortunata al cui corpo smembrato manca un tassello significativo, la testa.

Abbiamo lasciato un segno nella Storia. Un piccolo segno, un omino disegnato con il gesso, penso con amarezza. Naturalmente, le vicende sono state abbellite nel corso del tempo, la verità pian piano è stata tirata e sfilacciata, si è consumata ai bordi. Ma anche la Storia con la S maiuscola in fondo è solo una storia, narrata da coloro che sono riusciti a sopravvivere.

Basteranno forse protagonisti fra passato e presente che fanno il verso ai Perdenti e l'effetto amarcord di Stranger Things per rendere lieto, se non memorabile, il soggiorno in un microcosmo in fervente attesa della venuta della mezza stagione e del peggio in agguato? L'uomo di gesso, esordio della britannica C.J. Tudor, convincerebbe comunque con pochissimo. Mi sarei lasciato tentare, infatti, da premesse che ricordano i migliori coming of age di Stephen King e dalla particolarità di una copertina ruvida al tatto, stile lavagna, che purtroppo in fotografia non rende. Così, essenzialmente, è stato all'inizio. Se non fosse che il romanzo – un thriller psicologico di quelli nostalgici, con sprazzi da incubo che attingono a piene mani dai macabri resti e dai deliri notturni del cinema horror – avrebbe poi finito per irretirmi grazie ai drammi degli abitanti e ai fragili castelli di carte dei protagonisti, nessuno completamente senza macchia. Si protesta con cartelloni alla mano e atti di vandalismo per l'apertura di una clinica favorevole all'aborto, ma nessuno punta il dito verso chi di quei figli illegittimi, di quelle giovani madri rassegnate, è il colpevole. Ci si accorge quando ormai è troppo tardi per dare fiato alla bocca che ogni azione, anche la più ingenua, ha generato una reazione collaterale; che ogni devianza, anche una piccola così, sa renderti il cuore più nero. Anderbury, novella Twin Peaks, è una Babele in miniatura di scandali, manie e avventure meravigliose perfettamente racchiusa, rubando le parole al protagonista, in una palla di cristallo. Di quelle che basta un colpo di mano, una scossa, per mettere tutto a soqquadro. Piovono così lacrime e brillantini su crimini impuniti che nel mentre diventano leggenda metropolitana e sui buchi nelle sceneggiature della nostra infanzia. La pioggia, nel romanzo della Tudor, non cancella rimpianti che il tempo ha trasformato già in sensi di colpa. Né il brivido beffardo di un nuovo sbaffo di gesso sull'asfalto.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Clash – Should I Stay or Should I Go

venerdì 16 febbraio 2018

Recensione: Una posizione scomoda, di Francesco Muzzopappa

| Una posizione scomoda, di Francesco Muzzopappa. Fazi, € 14.50, p. 221 |

Lavorare nell'industria del porno. Il sogno del maschio medio che a una certa età, quando non si immagina supereroe d'altre galassie, sogna a occhi aperti e chiusi i letti sfatti, le generose proporzioni e gli stessi ménage à trois di Michael Fassbender. Fabio farebbe eccezione, se non fosse che di sognare in realtà non ha mai smesso. In quell'industria di gemiti e prurigini, infatti, ci lavora da un po', ma non vede l'ora di uscirne. Il sesso, tanto, lo scrive, lo vede, ma non lo mette in pratica dal disastroso tracollo della sua ultima relazione sentimentale. Le descrizioni di scambi di ruolo, posizioni impossibili e amplessi eterni, soprattutto, non si addicono a uno con la sua preparazione: laureato a pieni voti in sceneggiatura al Centro Sperimentale, nonostante papà e mamma – l'uno ginecologo in pensione con il pallino per l'elettronica, l'altra pia casalinga dal famigerato pollice nero – sperassero per lui la carriera di medico. Per ironia della sorte, il nostro Fabio dall'anatomia non si è allontanato mica troppo, no. Ma cosa direbbe Gianni Amelio, maestro e mecenate, sapendo che il suo pupillo si è trasferito a Milano per lavorare alle fantasie – etero e gay, senza distinzioni – dell'italiano fedele a Federica, la mano amica? Cosa direbbero i compagni di corso che gli hanno fatto le scarpe – su tutti Giovanni, il traditore raccomandato – o, ancora, quei genitori in là con gli anni che considerano il loro unico figlio una specie di esemplare, attempato chierichetto? Protetto da un intuibile nome d'arte, Fabio consacra la mattina al dovere (i copioni delle raffinate parodie per adulti L'importanza di chiavarsi Ernesto, Analcord, Indovina chi viene a cena) e la notte al piacere (la stesura lunga due anni del Cielo di piombo, capolavoro nel cassetto alla vana ricerca di un produttore). Mentre sul secondo fronte tutto tace, è il porno – riempitivo in attesa di tempi migliori, carriera di cui vergognarsi – a procurargli gloria. Sceneggiatore dell'anno a Cannes, presso un festival a luci rosse che precede di pochi giorni appena le premiazioni ufficiali sulla Croisette, il trentenne – una verga d'oro fra le mani – cerca ingaggi alternativi, opportunità e vie di fuga. La paura costante di restare intrappolato in un sogno erotico diventato incubo davanti alla sorpresa di un plauso.

Il porno è stato solo un incidente di percorso.

Una posizione scomoda: quella di Fabio, che scopre che è tardi. Troppo? 
Una posizione scomoda: quella di Francesco Muzzopappa, chiamato di nuovo a farmi ridere con la riscoperta del suo esordio, dopo le esilaranti vendette del ben più riuscito Dente per dente. Il protagonista, snob e logorato da una vergogna crescente, affila aneddoti e citazioni per l'estasi dei cinefili – da applausi il capitolo dedicato all'intima gioia delle visioni domestiche, se nel buio della sala si nascondono disturbatori, critici, tubercolotici all'ultimo stadio. L'autore, senza ansia di prestazione alcuna, diverte con poco a suon di doppi sensi, titoli stravolti e gallerie trash di trans dal cuore d'oro, omaccioni depilati e strabordanti pin-up. Simpatico (vedasi il cognome in copertina), scorrevolissimo (vedasi le pagine, duecento appena, anche se le dimensioni davvero non contano), Una posizione scomoda è una commedia sexy su una generazione, la nostra, a cui manca il meglio: la fiducia. L'Italia raccontata fra le pagine non è un paese per giovani. Per segaioli, pare, sì. Le risate, un po' acide, sono di quelle sapientemente tinte di amarezza. Sarà per questo, forse, che non gli si perdona un finale troppo favola, troppo tarallucci e vino, quando negli studi Starlette – e nel dissacrante Muzzopappa uscito l'estate scorsa – non si simulano né l'allegria, né il piacere di un “happy ending”.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Betta Lemme – Bambola 

mercoledì 14 febbraio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Lady Bird | The Greatest Showman

Christine, non particolarmente fortunata, non particolarmente brillante, non particolarmente graziosa, vive dalla parte sbagliata delle rotaie nella sonnacchiosa Sacramento dei primi anni Duemila. Ha diciassette anni, quasi diciotto, e tutto sembra essere possibile. La fine del liceo – un'intransigente scuola cattolica con divise inamidate, il crocifisso in aula e una rigida divisione fra maschi e femmine – significa allontanarsi da casa, scegliersi da sé il destino e l'università. Invia così domande disperate a college fuori mano e fuori dalle sue modeste possibilità. Si barcamena fra l'allestimento di un musical scolastico in cui no, non ha il ruolo principale, e la scelta del vestito per il ballo di primavera. Si divide fra l'amore per Lucas Hedges, represso rampollo di buona famiglia, e quello per il chitarrista Timothée Chalamet, le cui pose da ribelle romantico sono un'illusione. Aspetta la perdita della verginità, l'ultima campanella, le risposte a tutti i suoi perché. Da un lato: l'amara realtà dei fatti. Dall'altro: il desiderio di allontanarsi a ogni costo da una provincia che le sta stretta. Come fare, senza però avere un talento particolare o il viso giusto? Irritante, difficile da voler bene, Christine si sente dappertutto fuori posto: come me. Ha un rapporto conflittuale con l'apprensiva Laurie Metfcalf, madre a digiuno di scene madri: come me. Fa di tutto per piacere agli altri, perfino fingere, per poi tornare a scegliere la vecchia migliore amica e la fidata compagnia della solitudine: come me. La protagonista, che si firma “ragazza uccello” per quel suo naturale desiderio di spiccare il volo, sfortunatamente somiglia alla gemella che non ho soltanto su carta. Manca per tutto il tempo l'empatia e, ogni tanto, ho rischiato di trovare questa Saoirse Ronan col rimmel sbavato – più leggera di quanto siamo abituati a vederla, non necessaria più brava – antipatica e basta. Succede il tutto e il niente di un certo cinema indie e l'acclamato Lady Bird, spesso, sembra girare a vuoto. Abbozzando situazioni e personaggi per poi troncarli malamente nel finale. Dirige e scrive Greta Gerwig, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, ma la musa dell'indigesto Noah Baumbach non cancella in novanta minuti le arie hipster che si porta dietro; gli strascichi del mio fondato pregiudizio. Una nomination per la miglior regia che sa tanto, troppo di politicamente corretto. Una miglior sceneggiatura originale che brillerà forse per onestà e freschezza, ma che originale proprio non sembra. Perché Lady Bird sì, mi domando infatti, e il sottovalutato The Edge of Seventeen, con una Steinfeld altrettanto intensa e scostante, no? Perché se lo avessi scoperto sottotitolato e misconosciuto su un sito streaming, senza grandi speranze, probabilmente lo avrei consigliato anch'io sottovoce? Commedia generazionale con una vetrina d'eccezione – quella del cinema d'autore – che non penso le spetti, la piccola Lady Bird vorrebbe puntare troppo in alto. Ho seguito il suo volo per un po', ma l'ho persa di vista. Mi sono perso io, forse. Non lasciando che, in cerca di un'altra casa, dell'ennesimo plauso scontato, facesse nido nel mio cuore scettico. (6)

Che belle, ho pensato con un briciolo d'invidia, quelle vite che sanno trasformarsi in musical. Quante possono? Quelle che devi inventare a tavolino, altrimenti sarebbero troppo simili alle nostre: senz'arte né senza colore. Quelle di chi visse un'avventura, una favola, che non poteva che diventare spettacolo spettacolare. P.T. Barnum, professione amabile canaglia, affabulava, ingannava e incantava. Imprenditore nella disincantata New York del tardo Ottocento, cacciatore instancabile di sogni nel cassetto, investì il denaro che neppure aveva prima in un museo delle cere, poi in un circo all'avanguardia, infine per salvaguardare il talento della cantante svedese Jenny Lind. Hugh Jackman – bello nella sua divisa da domatore, sorridente e nel suo – canta e balla sui tetti, e fra le lenzuola appese ad asciugare e le stelle vede un destino alternativo per due bambine che non dovrebbero crescere a digiuno di speranza; per una Michelle Williams non troppo convinta, non troppo convincente, strappata a una famiglia facoltosa e condannata a un'esistenza approssimativa in nome dell'amore. Sempre cantando, sempre ballando, si convince quel Zac Efron di cui, dopo High School Musical, è proprio un piacere risentire la voce a fare a metà. Si cerca fra i reietti, i diseredati, i diversi, e si dà loro la libertà di esprimersi. Di farsi deridere, ma da un pubblico pagante: mostri con un cuore e un talento tutto da svelare. Se romantici ma osteggiati, ed è il caso di un Efron vittima del fascino esotico di Zendaya, ci si innamora di una trapezista di colore anche a costo di riscrivere le stelle – il loro coreografico duetto a mezz'aria è forse il momento musicale più emozionante e riuscito assieme a This is me, commovente inno di una donna barbuta che diventa un po' anche il nostro. Se accecati dai riflettori, e invece è il caso di un Jackman non senza macchie, si pretende di più: perdendo di vista gli obiettivi iniziali e la magia che tutto muove. Vagamente disneyano, The Greatest Showman non convince proprio allora. Quando scopre una punta di disincanto, i matrimoni messi in crisi da una Ferguson capricciosa (e doppiata), la vita vera che a un musical conciliante proprio perché leggerissimo poco si addice. Fluido nei volteggi della macchina da presa e dei corpi, nel montaggio, orecchiabilissimo e sfarzoso ma tutt'altro che memorabile, il film dell'esordiente Gracey non è un ritorno al Moulin Rouge né sa bissare il miracolo del novello La La Land. Però poco importa: che scenografie, che luci, che facce, che voci. Quanta gentilezza, quanto incanto, in questo freak show. Posso farne parte anch'io?, domandi. Trovandolo grande comunque, anche se non all'altezza del superlativo del titolo: una bugia bianca, con stile, come quelle di mastro Barnum. (6,5)

lunedì 12 febbraio 2018

I ♥ Telefilm: Shameless VIII | Lovesick III

Lo scorso inverno avevamo lasciato i Gallagher in forma smagliante, nonostante piangessero (ma non troppo) la morte di un loro familiare. Una pecorella smarrita tornata all'ovile giusto il tempo di esalare l'ultimo respiro e, con la sua eredità, metterli per l'ennesima volta nei pasticci. Fedelissimi perché senza alcuna possibilità di fuga, rieccoli. Con situazioni sentimentali ora in pausa, ora archiviate, e il pensiero fisso di diventare indipendenti svoltando. In quell'angolo di Chicago, però, il terreno resta infertile; gli impulsi sbagliati. Se ne vanno così in cerca di soluzioni alternative, con le buone o con le cattive. Di altri polli da spennare. La famiglia Gallagher perde il pelo, ma non il vizio. Non perde lo smalto, no, ma qualcosa comunque non funziona con la solita scorrevolezza. Frank, ripulito e nato a nuova vita, scopre che la legalità e il posto fisso hanno le ore contate; Fiona, imprenditrice improvvisata, riscuote affitti, combatte contro truffe furbissime e inquilini maleducati; Ian, ufficialmente single, diventa accanito attivista della comunità gay per riconquistare un ragazzo impossibile; Lip, meccanico, fa da sportello d'ascolto agli alcolisti anonimi, a volte con successo e altre meno; Carl, invaghito, potrebbe precludere il suo futuro alla scuola militare; l'antipatica Debbie, a onor del vero non più così antipatica, impara a prendersi le sue responsabilità di ragazza madre e perfino Liam, il piccolo di casa, comincia ad avere diritto a una storyline tutta sua. Fuori, all'Alibi, Kevin e Ronnie continuano intanto il triangolo di sesso e sopraffazione con la mitica Svetlana, pronta sfortunatamente a dare forfait, pare, nella stagione che verrà. Scritto bene, interpretato da attori ormai inscindibili dai loro svergognati personaggi, Shameless resta godibilissimo. Ma, questa volta, ho lasciato che i dodici episodi si accumulassero un po' svogliatamente. Ma, questa volta, la serie che non ha vergogna rischiava di non avere davvero grosse novità. La formula resta la solita, e probabilmente al solito mi piacerebbe, ma dopo otto anni insieme inizia a farsi sentire una certa ripetitività; una certa stanchezza. Shameless mi farà sempre ridere da matti. A modo suo, ne uscirà sempre bene: canaglia che cade, ma in piedi. “Sempre”, però, è un tempo troppo lungo per uno spettatore incostante come me. Anche se si parla di qualcuno come i Gallagher, sospetto. (7)

Erano stati necessari due anni, un cambio radicale di titolo ed emittente, affinché le ex ragazze di Lovesick – precedentemente noto come Scrotal Recall – tornassero ad ascoltare le confessioni di Dylan. Un romantico inglesino dalla chioma bionda e il cuore d'oro che le aveva amate tutte, a modo suo, nonostante il sospetto di aver trasmesso una malattia venerea a più di qualcuna di loro nel mentre. Della prima stagione, originalissima, avevo sentito subito la mancanza. La seconda, eppure così attesa, mi era parsa ripetitiva, strascicata: una delusione bruciante. La terza non la aspettavo, almeno non tanto presto. Su Netflix, ritroviamo i soliti volti noti. Il simpatico ma patetico Angus, che si innamora facilmente e facilmente viene abbandonato a sé stesso. Luke, il dongiovanni bisognoso che, per forza di cose, si scopre cotto di quell'amica di letto che non vuole legami. Dylan ed Evie, finalmente insieme dopo sette anni di amicizia e tre stagioni fatte di lunghi tira e molla, di tempismo sbagliato. Ci si ritrova insieme nella stessa casa. Con coppie che scoppiano, segreti di famiglia, ricordi a cadenza casuale. Delicato ma stanco, purtroppo quasi noioso, l'ormai anonimo Lovesick è divententato definitivamente accompagnamento di sotttofondo. Non fa ridere, non fa piangere, ma conserva la vaga simpatia che ispirano certe compagnie quando sono ben assortite. Il protagonista, in cerca della cura, del perdono, dell'anima gemella, non ha più la clamidia. Non ha più i fantasmi delle donne del Natale passato. Non ha più, su lungo tratto, quell'umorismo british che ai tempi mi era parso irresistibile; bassi pruriti, o ulteriori dettagli da aggiungere. Guarito dalla sua infenzione, dal suo mal d'amore, è congedato qui senza una visita di controllo. Senza, con tutta la simpatia di questo mondo, ulteriori chance. Scomparsi i sintomi, scomparsa l'originalità. (5,5)

venerdì 9 febbraio 2018

Recensione: La cercatrice di corallo, di Vanessa Roggeri

| La cercatrice di corallo, di Vanessa Roggeri. Rizzoli, € 18, pp. 318 |

Ci sono autori che, romanzo dopo romanzo, diventano amici del blog. Ci sono appuntamenti in libreria che, anno dopo anno, aspetti. Vanessa Roggeri, conosciuta con l'apprezzatissimo esordio Il cuore selvatico del ginepro e felicemente ritrovata l'estate successiva alla presentazione di Fiore di fulmine, è decisamente una di questi. Cresce, cambia – editore, questa volta, passata da Garzanti a Rizzoli, ma meta mai. Un altro viaggio alle origini, perciò, in quella Sardegna del passato che fa un po' da terra a sé. Tradizioni vetuste ma irrinunciabili, la legge dell'onore e del taglione da applicare in privato, un mare splendido e crudele che elargisce e affama. Fra la costa e l'entroterra, dopo averci raccontato i marchi del pregiudizio e quelli della tempesta, l'autrice cagliaritana lascia consumare le piccole e grandi tragedie della famiglia Derosas: protagonista di una guerra civile prima per odio, poi per amore. Nel primo dopoguerra, Fortunato e Dolores, l'inconsolabile vedova di suo cugino, si sono giurati eterna inimicizia. Il primo: orgoglioso coralliere legato alla terra e alle onde, a un denaro che non compra tutto. L'altra: mamma di otto figli e di campi infecondi, in cerca dell'aiuto economico che il parente acquisito le nega e della giusta occasione per riscattarsi. Il denaro, diceva l'imperatore Vespasiano, non puzza. Così Dolores, personaggio di straordinaria tempra morale che ruba con poco la scena agli altri, fa fruttare il guano di una miniera invasa dai pipistrelli improvvisandosi imprenditrice di successo. Non dimentica. Sottrae i figli alla fame, li allena alla rivalsa. Del secondogenito, Achille, fa uno strumento di vendetta. Deve sedurre e abbandonare Regina, la figlia illegittima dello storico rivale. Una diciassettenne tutt'uno con il cielo e la natura, che ha un fiuto speciale per i coralli e quasi le pinne ai piedi. L'adorata Regina, magica vedetta sulla coralliera di Fortunato, si innamora inevitabilmente dello straniero. Un ragazzo che legge fino a farsi venire le febbri e l'ispirazione e che, nonostante un apprendistato mirato all'annientamento, sa amare a sua volta.

Io sono il mare. Il mare è in me.

Le lettere tracciate sulla sabbia e appuntamenti fugaci su una spiaggetta inaccessibile saranno l'alfabeto segreto di due amanti con le stesse antipatie di Montecchi e Capuleti e, soprattutto, lo stesso cognome. Per imparare a leggere. Per imparare a nuotare. 
Il rischio c'era, accentuato dalla discutibile copertina rosa confetto: per fortuna, però, Vanessa Roggeri sa come non finire alla deriva in una regata di melassa. Ben scritto, dettagliatissimo, il suo ultimo libro ha un faticoso lavoro di ricerca alle spalle e un intreccio romanzesco, shakespeariano, che tuttavia non regala svolte inattese. In un romanzo con sentimenti da dramma in musica, con ambientazioni d'altre epoche, la forza della prima parte deve purtroppo fare i conti con la prevedibilità della seconda. Troppi soliloqui enfatici tra sé e sé, dialoghi non sempre all'altezza della perfezione della ricostruzione storica, personaggi che sbucano macchinosamente ora per trattenere i novelli Romeo e Giulietta, ora per tentare di separarli.

Il mare toglie, ti strappa anche l'anima, ma prima o poi ti ridà il doppio.

La loro storia è scritta nelle stelle, le contraddizioni di questa terra sono già state belle che rievocate negli affreschi storici precedenti, ma l'eleganza dell'autrice – riletta con la solita attenzione, ma senza trovare sorprese – rende comunque un piacere ritrovarsi. Affacciati entrambi sulle profondità del blu. La vendetta, il karma, avvolgono le passioni di La cercatrice di corallo in un turbine che mira all'abisso. Ad acque che celano i tranelli di bombe inesplose, relitti di un conflitto ancora vicino. Al miraggio impossibile dei coralli bianchi. Nel dubbio, sapete, non getterei l'ancora qui.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine – What The Water Gave Me

mercoledì 7 febbraio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: I, Tonya | Wonder

Sfrecciava leggiadra sulle lame dei pattini, portandosi dietro scie di sangue. Si gettava con così tanto impeto nell'impresa impossibile di un triplo axel da apparire, complice la velocità, una figura indistinta al centro della pista. Giravano lei, il mondo, e quella figura sfocata appariva ora un'icona di stile, ora un mostro: una creatura bicefala. Tonya Harding, la pattinatrice. La mandante, o così si raccontò negli anni Novanta, del pestaggio di una collega rivale. Sulla sua vita, sulla sua verità, hanno ricamato a piacimento i media. I, Tonya racconta come fosse una lunga e incensurata intervista, un documentario bizzarro, l'ascesa e la caduta – soprattutto, i chiacchierati misfatti – di un nemico pubblico col vestito glitterato e il fiocco fra i capelli. Il risultato è la biografia politicamente scorretta che non ti aspetti. L'altro lato della medaglia. Bambina prodigio, spremuta come un limone sin dalla tenera età, la protagonista cresce nella violenza fisica e psicologica. Si affida ciecamente all'esempio della volgare mamma manager (un'irresistibile Janney in odore di vittoria, già genitrice degenere nella sit-com Mom), a un compagno manesco (il baffuto Sebastian Stan), all'imprevedibile volubilità del pubblico (che ora la acclama, ora la chiama campagnola); infine, ai servigi di un manipolo di sicari stupidissimi da cui non potevano dipendere né vite né reputazioni, no. La Harding si esibiva su note assordanti, portava lo smalto colorato in barba alle regole, indossava vestitini succinti cuciti personalmente a macchina la notte prima. Tecnicamente insuperabile, non piaceva ai giudici: in cerca di campionesse di pattinaggio, e di moralità. Su Netflix, lo esemplificavano già gli incontri a tavolino di Glow: una nazione di patrioti bellicosi, di benpensanti, ha bisogno di personaggi rivali nello sport; della battaglia fra bene e male. Tonya, suo malgrado, al contrario della dolce Nancy, era il male incarnato. Perché, cosa inammissibile, aveva una personalità. Amareggiata, sempre fuori posto, indesiderata, cerca allora la gloria che le spetta – e che in fondo merita – con le cattive. Il montaggio e la colonna sonora, pazzesca, sono martellanti. Craig Gillespie, alla regia, si muove come un David O. Russel rock n' roll. Una quasi irriconoscibile Margot Robbie, pronta a tutto per scollarsi di dosso l'etichetta di pupa bella e innocua, sorprende per una maturazione avvenuta dalla notte al giorno – al di là di un allenamento fisico che deve averla molto provata, di sedute estenuanti di trucco e parrucco che nemmeno riescono a imbruttirla troppo, ammiratene l'intensità dei pianti e dei sorrisi forzati allo specchio del camerino, a pochi minuti dal verdetto finale. La campionessa sovversiva ha un'interprete alla sua altezza, un film che la rispecchia. Fatto di sudore copioso, sangue pazzo e glitter ovunque. Di grazia su ghiaccio e ingiustificata barbarie. Per la tendenza tutta americana a non vedere sfumature, a non ammettere gradi di colpevolezza, c'è gente da amare e gente da odiare: punto e basta. Tu, Tonya, qui puoi finalmente essere amata. (7,5)

Sulla scia dell'entusiasmo generale, ai tempi, ho provato e riprovato a leggere quel romanzo con la copertina pastello che parlava di diversità e altruismo. Apprezzo sinceramente le storie che sanno rivolgersi a grandi e piccini, ma bastavano poche pagine appena per trovare insopportabile l'eppure apprezzatissimo Wonder. Questione di stile, forse. Questione di romanzi a tesi, a tavolino, che sanno di lacrime facili e furberia. L'ho aspettato al cinema senza aspettarlo mai per davvero. Un po' di curiosità per Chbosky, autore e regista di cui avevo perso notizie dopo il successo di un cult intitolato Noi siamo infinito; un po' di curiosità per il ritorno di Jacob Tremblay, il bambino prodigio in Room, in un adattamento che lo vuole ancora alle prese con la scoperta del mondo esterno e ancora coprotagonista, sebbene molto più in sordina, della stagione dei premi – il film, accanto alla nomination all'Oscar per il miglior trucco, ha ricevuto più di qualche menzione agli scorsi Critics Choice Award. Arrivato in sala sotto festività che dovrebbero addolcire di per sé, Wonder è il primo giorno di Auggie alle scuole medie. Un bambino che ama Star Wars e lo spazio profondo, parla di Halloween come della sua festa preferita e, a soli dieci anni, fa i conti con una malformazione al viso che l'ha reso oggetto di derisione. Si nasconde dietro un casco da astronauta, sotto il cappuccio della felpa, ma mamma Roberts e papà Wilson lo spingono delicatamente a uscire dal guscio; a crescere. Fra sfottò, pranzi in solitaria, amici che tali non sono, le ore di lezione – e di questo film – vanno come previsto. Qualcuno si ravvede in vista di un epilogo troppo buonista e qualcun altro impara la semplicità del perdono, la famosa bellezza interiore e la necessità, a volte, di un pugno sul naso ben assestato per zittire le risate di scherno. Dalle parti di Diario di una schiappa e Dietro la maschera, il piccolo Elephant Man del sempre dolce Tremblay è un prodotto in stile Giffoni, un inno alla gentilezza che a volte si perde nella stucchevolezza di una famiglia perfetta e nelle evitabili lungaggini del finale. I cosiddetti ragazzi normali sono forse risparmiati dall'agonia del crescere, del rapportarsi? Pur lontanissimo dalla meraviglia del titolo, Wonder piace allora. Quando, a punti di vista alterni, si apre ai comprimari – una sorella maggiore alla scoperta dell'amore e del teatro, un amico che ha tanto da farsi perdonare, un'adolescente meno superficiale di quanto non dicano le sue ciocche rosa – e alla segretezza delle loro battaglie. Scritte, ma non sulla faccia. (6)

lunedì 5 febbraio 2018

Recensione a basso costo: Una cosa piccola che sta per esplodere, di Paolo Cognetti

| Una cosa piccola che sta per esplodere, di Paolo Cognetti. Minimum Fax, € 9, pp. 138 |

Non mi affeziono ai racconti e pensavo che nemmeno Paolo Cognetti potesse fare eccezione. L'ho conosciuto l'anno scorso in territorio neutrale, un romanzo breve che di lì a poco avrebbe vinto lo Strega, anche se a lui restavano le sue amate montagne e a me il disorientamento iniziale dei ragazzi di città, pronto però a trasformarsi in commozione grazie a scritture che scaldano lo stomaco e a boscaioli di stentate parole. L'ho rincontrato sul Kindle un paio di mesi dopo con Sofia si veste di nero: ufficialmente raccolta di racconti, sì, ma con l'inarrivabile ragazza del titolo – ora protagonista, ora raccontata da qualche amante dal cuore infranto – a fare da filo conduttore. Mi hanno riportato da lui il desiderio di concedermi qualcosa di bello dopo tante delusioni e un libro piccolo così, dal titolo lungo lungo e la copertina pastello. Di nuovo racconti – cinque, per la precisione –, e questa volta non c'erano trucchi, inganni, o ragazze come il prezzemolo abbigliate a lutto. Forse la prova del nove? Senza paracadute ma senza cattive sorprese, ho ritrovato felicemente il mio Cognetti. Giovane ma sempre bravissimo, che qui proprio di giovani contro (controcorrente, controluce) vuol parlare. 

Nel sangue di ogni figlio scorre una malattia ereditaria: è una storia scritta apposta per te e cerca di educarti, indicarti la rotta, condannarti al destino dei padri.

Margherita, detta Margot, è una diciassettenne scheletrica e irrequieta. In una clinica sorrentiniana all'ombra delle alpi svizzere – un istituto senza specchi alle pareti, assiepato di altre adolescenti scheletriche e irrequiete di cui Margot è l'indiscusso capobranco –, la protagonista considera sacre le gerarchie e mistico il digiuno. Le ripetizioni di matematica all'ultima arrivata, Lucia, e il corpo che si ribella asseconderanno il ritorno della fame. Di qualsiasi cosa, in fondo, la si abbia.
Diego e Simone, sedici anni, vivono di spaccio e furterelli, di pesca e motorini scassati, nel grigio acciaio di certe province italiane. Non vogliono crescere e allontanarsi come invece sta accadendo. I due se ne vanno a zonzo sui luoghi dell'infanzia – una fabbrica in disuso, profanata dalla scoperta del sesso e del fumo – e lontano dagli sbagli dei grandi. La meccanica dell'età adulta: complicata come le auto moderne. La loro, finché è durata: facile e perfetta come il motore a due tempi.
Mina, esplosiva come il titolo della raccolta, ha la sindrome d'abbandono e la stoffa della scrittrice. Suo padre è andato via, lasciando il resto della famiglia in mezzo ai dubbi e ai debiti. Si è presa cura di lei, di loro, Antonia: maestra diabetica, in pensione, che le farà a lungo da tata, amica e confidente. Ascoltandole tutte, dalla prima all'ultima, quelle storie assurde su un papà avventuriero, agente segreto, giocatore d'azzardo, dongiovanni. Su un papà che, almeno nella fantasia, aveva le sue buone ragioni per lasciare a casa quella piccola e sconsolata Mina vagante.
Pietro passa l'estate dei suoi dodici anni in montagna. I genitori in crisi matrimoniale, un padre che non li raggiunge mai nei fine settimana. In un campeggio abitato da donne e bambini, il ragazzino asseconda la sua sete d'avventura leggendo Twain e progettando una capanna sulle rive del fiume. Ad aiutarlo, soltanto Tito: solitario e laconico custode di mezza età a cui manca un figlio, proprio come a un figlio, Pietro, manca il padre. Il cielo minaccia all'ultimo piogge, alluvioni, lacrime. L'estate che finisce in fretta e furia, insieme all'illusione dell'innocenza.
Gli anni Sessanta: la Beat, l'esercito degli hippy, la rivoluzione sessuale. Anita, ragazza di campagna, si lascia alle spalle la nebbia, le risaie, la buona eduzione puntando ogni mattina al suo liceo al centro di Milano e all'esempio di un'amica ribelle, Tania. A raccontercela, un figlio che si fa domande, e prende a farle anche agli altri. Anita attraverso le foto in bianco e nero, i ritratti e le parole dei vecchi genitori. Anita attraverso gli anni migliori.

Dice la nonna che la vita degli adulti comincia con una bugia. L'adolescenza, per quanto la riguarda, è solo un'invenzione borghese. C'è un'età dai segreti innocui, ma quelli cadono come i denti da latte, e i segreti che crescono dopo sono minati da una carie inconfessabile. Sesso. Perciò ecco dimostrato il suo teorema: la vita degli adulti è arte del mentire.

Il degrado della prima Avallone, così, viene salvato dalla purezza dell'aria di montagna; dalla delicatezza di una prosa che è un fiume pieno di appigli. Un Cognetti di squarci, attimi e lampi di Polaroid, da cui lasciarsi condurre a occhi chiusi fuori dalla cornice. Sequenze rapide, assaggi di adolescenze indigeste, parole d'un fiato. Un Cognetti più sbarbato e arrabbiato, più misurato e chirurgico; insomma, una specie di sperata eccezione. Sui padri e i figli, le mamme mute, le amicizie formative, un passato non lontano. Sui campi minati di vite ai margini, soprattutto, e il ticchettare che annuncia l'innesco delle nostre emozioni inesplose.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicali: Ghemon – Un temporale