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venerdì 29 settembre 2017

Recensione: Le venti giornate di Torino, di Giorgio De Maria

| Le venti giornate di Torino, di Giorgio De Maria. Frassinelli, € 17,50, pp. 150 |

Torino. Più di ottocentomila anime e un passato denso di storia.
A dominarne le mappe, una perfezione che ha dell'inquietante. Vedendola dall'alto, pare, potresti tracciare le geometrie di un pentacolo a rovescio. Dario Argento ci ha girato non a caso molti dei suoi film migliori, nell'epoca d'oro che fu. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, gli abitanti – educati e discreti, notoriamente ritrosi – hanno tremato, e non per le minacce del terrorismo d'estrema sinistra. Un lungo brivido di paura li ha scossi per venti notti. L'insonnia collettiva, grida di guerra da un capo all'altro della città, statue che facevano a cambio di piedistallo, un insopportabile sentore acetoso nell'aria. Infine, gli omicidi: uomini battuti come clave contro gli alberi, i monumenti, altri uomini. Un decennio dopo, l'Italia ha fatto del suo meglio per dimenticare. Mancavano i mezzi e il coraggio per sondare l'insondabile. Sono sopraggiunti gli anni di piombo e una crisi economica vaga, che ricorda tanto la nostra.

«Lei sa cosa segue di solito nello storie dopo che uno dice: quando all'improvviso...»
«Succede qualcosa di sorprendente, altrimenti che storie sarebbero, mi dica lei?»
«Non sarebbero delle storie.»

Un aspirante giornalista fa domande; indaga a costo della vita. Di lui non sappiamo niente, neanche il nome. Suona il flauto dolce, sbarca il lunario con un lavoro d'ufficio sottopagato e, a tempo perso, cerca piste e indizi. Su un male senza perché, senza inizio e senza fine, che sa insediarsi abilmente nei vuoti – quelli del potere di un Paese allo sbando, quelli della solitudine del cuore umano. Elegante e sospeso, Le venti giornate di Torino è un horror d'annata – un mockumentary, diremmo, se fosse cinema – che è impossibile giudicare con il senno di poi. Pubblicato la prima volta quarant'anni fa e presto destinato all'oblio, è stato rispolverato prima dalla curiosità di un editore statunitense, poi dalla nostra Frassinelli. Cos'è accaduto in quella Torino decadente, quasi post-apocalittica, in cui intervengono prodigiosi giochi premonitori e forze oscure che sarebbe meglio non scomodare? Cos'è stato di Giorgio De Maria, scrittore e musicista piuttosto prolifico, che tuttavia non toccò più penna dopo questa strana inchiesta a metà tra esoterismo e riflessione antropologica?

«Diceva che entro di lui lo spazio era sparito, non ne aveva più per muoversi, per girarsi; disse anche questa frase terribile: se anche volessi uccidermi non troverei lo spazio per morire.»

Ci vogliono un centinaio di pagine per scartabellare tutte le testimonianze e, a una a una, spuntare le domande. In mezzo a malinconici nottambuli che infestano le strade, in cerca della pace del sonno o di un pezzo mancante, e alle sinistre litanie dei Millenaristi. Il tutto, all'ombra dei segreti della Biblioteca: un edificio blindatissimo che custodisce confessioni, segreti, pensieri; intuizione straordinaria che, a modo suo, anticipa quella voglia di lavare i panni sporchi in pubblico, di attirare l'attenzione di tutti e di nessuno, tipica degli odierni social network. Cosa lascia nell'anima un soggiorno scomodo sotto forma di lettura? Un po' di stordimento per il troppo senso di irrisolto. La suggestione sperimentata finora solo con il found footage. L'impressione che, con simbologie e metafore da sciogliere, la lettura della postfazione a cura di Giovanni Arduino, il Félicien Rops in copertina da interpretare, la ricerca sia appena cominciata. 

mercoledì 27 settembre 2017

I ♥ Telefilm: BoJack Horseman IV | The Sinner

Fuggiva via dalle costrizioni e dagli impegni, nel finale della scorsa stagione: al galoppo. Metteva la macchina in folle e, da lontano, ammirava le corse degli altri cavalli nel deserto. In quel sogno di libertà impossibile, in quella finestra sospesa, BoJack – star degli anni Novanta condannata all'oblio – ha vissuto per un anno. Ha ignorato i messaggi in segreteria. Ha lasciato che i pettegoli sparlassero. Al suo rientro, all'alba di un nuovo ciclo di episodi, trova la casa a soqquadro, un'adolescente ribelle che cerca suo padre e una città in sollucchero per l'elezione del prossimo governatore (è testa a testa tra Mr. Peanutbutter e un'esilarante Jessica Biel). Restano l'accuratezza dei colori pastello, le gioie di un nonsense affidato a un Todd dichiaratamente asessuale, quel realismo che lascia ancora attoniti e commossi. A Holliwoo ci sono insegne monumentali a cui manca la consonante finale; personaggi dello show business con nient'altro che una notorietà insoddisfacente. Cosa conta, se un ruolo da Oscar non aiuta a dormire meglio? Di cosa mettersi in cerca, quando i copioni prendono polvere in un angolo della nostra villetta con piscina? In una stagione intergenerazionale meno cinica e più femminile, insospettabilmente delicata, gli autori esplorano l'arte del racconto e del farsi da parte. Messe un po' ai margini, perciò, quelle spalle comiche di cui non sentiamo troppo nostalgia. Forse meno vanesio, meno egocentrico, perfino un attore in lotta con le sue radici familiari, per una volta, e non con il ruolo della rivalsa. Si riparte, così, dal bilancio di un viaggio in solitaria che non ha portato la pace sperata. E si decide che è tempo di comportarsi da adulti, anche se belli che cresciuti. Per venire a patti, come Diane e Peanutbutter, con i pregi e i difetti della vita in due. Per appendere un fiocco azzurro o rosa alla porta, ed è il caso di una Princess Carolyn in attesa di una cucciolata. Per riscoprirsi figli (da lacrime il penultimo episodio: struggente retrospettiva sulla vita di mamma Horseman, affetta da demenza senile) e improvvisarsi genitori, in attesa dei risultati del test dei DNA e delle fitte dei colpi di scena. (8)

Il sole brilla. Splendida giornata per darsi a una gita al lago. Due innamorati si mettono le mani dappertutto e ascoltano ad alto volume una canzone. Perché, tutta intenta a sbucciare una pera, una tranquilla casalinga si avventa contro il lui della coppia e lo pugnala sette volte? Cora, una sottovalutata Jessica Biel tornata all'intensità dei Bambini di Cold Rock, giura di non saperlo. C'è la scena del crimine. Ci sono i testimoni. C'è la colpevole, che in tribunale non grida invano la propria innocenza. Indaga un ritrovato Bill Pullman, detective in crisi matrimoniale dalle segrete tendenze sadomasochistiche. L'assassina è già in manette, nel thriller antologico ispirato al romanzo di Petra Hammesfahr. Sulle braccia ha i buchi dei tossicodipendenti, ma non saprebbe cosa farsene, dell'eroina. Negli attimi in cui il suo lato bestiale ha la meglio, complice un innocuo brano da falò, commette gesti inconsulti. Si viaggia nei ricordi rimossi di lei – primogenita in un'angosciante famiglia cattolica, con una sorellina confinata a letto a cui spiegare l'amore e il mondo in differita – e lungo i sentieri battuti ora dal marito Cristopher Abbott, ora dallo stesso Pullman, che non si accontentano dell'apparenza delle cose. Inquietanti uomini mascherati, un cadavere scarnificato, i ghirigori di una carta da parati, sesso, un blackout della memoria lungo due mesi. Storia torbida e sanguinosa, mai eccessiva ma affatto edulcorata, The Sinner ha un mistero e una morbosa forma di curiosità (per le perversioni dell'agente di turno e le prime esperienze di una giovane Biel fuori dal nido) da appagare. I contro: scarsa visibilità, in un'estate che ha portato a una disattenzione generale; il fumo negli occhi di una scrittura che rivela trucchi e limiti a un passo da una conclusione in cui, in ballo, c'è poco meno di quanto ci si saremmo aspettati. I pro: le ottime prove dei protagonisti, un sottovalutato caratterista e un'ex icona adolescenziale non più al “settimo cielo”; otto episodi che sanno come non disperdere la suspance e quando fermarsi; il giusto equilibrio tra giallo e viaggio della psiche, tra eleganza e abiezione. (7)

lunedì 25 settembre 2017

Recensione: Gli anni del nostro incanto, di Giuseppe Lupo

| Gli anni del nostro incanto, di Giuseppe Lupo. Marsilio, € 16, pp. 156 |

Una metropoli che cresce. L'indiscreta poesia del bianco e nero.
Su una Vespa, quando ancora non c'erano i caschi obbligatori o la paura di cadere, scorazzano stretti stretti i membri di una famiglia italiana. Immortalati in una foto d'epoca, bellissima perché inaspettata. Lì, al crocevia della vita. L'affermato Giuseppe Lupo, che ho il piacere di leggere qui per la prima volta, è da questa foto che ha immaginato una breve saga familiare tra passato e presente. Chi sono i soggetti? A descriverceli, negli anni del boom economico, la piccola di casa, Vittoria: quella che, nel traffico, è un fagotto di neppure dodici mesi sulle gambe di mamma. Quella mamma che, vittima di un misterioso terremoto emotivo, ora giace in un letto d'ospedale e non ricorda niente: nemmeno loro. La stessa che, mentre infermieri e medici parlano di come si piazzerà l'Italia ai Mondiali, reagisce solo davanti a un rettangolo di carta sbiadito.

«Piano piano la spazziamo via questa montagna che ti pesa.»

Appena ventunenne, nata dalla gioia di far pace dopo musi lunghi giorni e giorni (tutta colpa di un misterioso sbaffo di rossetto sulla camicia del capofamiglia), Vittoria è la sorella minore di Bartolomeo, detto Indiano, che ha gli occhi tristi e una spiritualità vacillante. Come sono usciti due figli simili, cupi e insicuri, da una coppia di innamorati che ai tempi d'oro sognava di sfidare il mondo a passo di danza? Gli anni del nostro incanto sono quelli della Cinquecento per far visita ai nonni, più a sud; del luccichio irresistibile della Rinascente e dei primi pensieri per i danni dello smog; dell'uomo a passeggio sulla luna in uno tutone immacolato. Quando Milano era una promessa rosea, senza manifestazioni giovanili e senza terrorismo, con i capelli ben fissati dalla brillantina e genitori che continuavano ad amarsi di un amore che, nei figli, suscitava insieme invidia e imbarazzo. Come se non ci fossero mai state le liti per un agosto altrove o la cucina da comprare dal nuovo, le mezze parole che lasciano intatta la minestrina a cena, i dolori che ti pietrificano di punto in bianco davanti alla tivù. Mamma, soprannominata Regina, fa la parrucchiera: è una veneta testarda, signorile, un po' distaccata. Papà Louis, "terrone" giunto in Lombardia per la leva militare, fa l'operaio: lo sguardo sollevato verso un cielo atomico, le braccia da boxeur dilettante, il pallone di domenica pomeriggio.

«Siamo venuti a Milano per essere all'altezza di questi anni. Tu capisci? All'altezza di questi anni.»

Lupo, con una sensibilità sorprendentemente femminile, firma 150 pagine – poche, uno direbbe – in cui eppure stanno a pennello il generale e il particolare, la cronaca e Sanremo, i drammi di Vittoria e i nostri. Emozionante, intimo, con la prodigiosa memoria degli elefanti. La migliore forma del raccontare, infatti, è il ricordo. Non c'è una parola superflua, così. Non c'è un'esistenza – si retrocede nelle generazioni, perfino – lasciata indietro. E non c'è vigile urbano a fischiarli, in quella domenica mattina in cui si festeggia la sbarluscenza della Madonnina. Alla ricerca della via Gluck. Di Dio, vivo o morto che sia. Delle scie sovietiche nel blu dipinto di blu. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Città Vuota

giovedì 21 settembre 2017

Mr. Ciak a reti unificate - Aggiungi un post(o) in sala

Sai che c'è di nuovo, di giovedì? 
Che la rubrica a quattro mani di Pensieri Cannibali e White Russian - uno sguardo sui film in arrivo in sala, settimana dopo settimana - ha voglia di cambiare un po'. Le frecciatine fra il Cannibale e Mr. Ford, così, fanno spazio a un ospite. Per inaugurare post uguali ma diversi, guarda un po', hanno fatto posto proprio a me. Onoratissimo, mi siedo in mezzo ai due litiganti. Adesso arriva il bello, e lì li voglio sentire: ragazzi, che si va a vedere nel weekend?

L'inganno
Cannibal Kid: Quale modo migliore per aprire la rinnovata rubrica sulle uscite settimanali, se non il nuovo film della migliore regista del mondo? Sofia Coppola torna con un nuovo attesissimo lavoro e spero che Mr. Ink mi appoggi dagli attacchi del bruto Mr. Ford, che cercherà di convincere il mondo che la Coppola Jr. dopo Bling Ring sia un'Autrice finita, ma non è vero. Se proprio dobbiamo attaccarla, facciamolo per quella cacchiata natalizia di A Very Murray Christmas. L'inganno dovrebbe comunque segnare un ritorno alle sue origini, quelle del capolavoro assoluto Il giardino delle vergini suicide, nonostante il fatto che si tratti di un remake mi lasci un po' perplesso. Il film originale, La notte brava del soldato Jonathan, ho anche provato a guardarlo, ma devo ammettere di aver abbandonato la visione per noia dopo pochi minuti. Sarà che io già non sono un grande fan del Clint Eastwood regista, ma certo che come attore era (ed è) proprio una cagna maledetta, ahahah! Il film è tratto inoltre da un romanzo, che però manco Mr. Ink ha letto. E se non l'ha fatto lui che legge 3 mila libri al giorno, mi sa che non l'ha fatto nessuno né in questo mondo, né sulla città dei mille pianeti.
Ford: Sofia Coppola è per me un'incognita. È riuscita, negli anni, a tirare fuori film sopravvalutati e radical chic - Lost in translation -, produzioni decisamente interessanti - Marie Antoinette e Il giardino delle vergini suicide - e schifezzine inutili - Bling ring -. La notte brava del soldato Jonathan è un classico totale ed un thriller pazzesco e semisconosciuto, che ovviamente io adoro - la coppiata Siegel/Eastwood garantisce -, dunque un remake potrebbe scavare la pietra tombale per la figlia d'arte qui al Saloon, ma chissà. Quello che è certo è che la presenza di Mr. Ink potrebbe spostare gli equilibri di una rubrica troppo spesso rovinata dagli assurdi commenti di Cannibal Kid.
Mr. Ink: Riaprirò un’antica ferita del Cannibale, e chiedo perdono, ma a me Sofia Coppola non è mai piaciuta. Certo, ci sono Le vergini suicide e i fiumi di parole di Lost in Translation, che somiglia tanto a quelle commedie indie che dico io. Certo, dove lascio il buon gusto dell’irriverente Marie Antoinette? Sulla scia della noia di Somewhere, sotto gli zerbini dello stupidissimo Bling Ring. Vorrei dichiararmi scettico, ma L’inganno e il suo cast ispirano. Non abbastanza da recuperarsi quel romanzo troppo datato né da riscoprire il film con un giovane Eastwood che come attore no, non brillava di certo, ma tanto da fiondarsi al cinema.

Valerian e la città dei mille pianeti
Cannibal Kid: Non sono un patito di sci-fi come quel nerd di Ford e Luc Besson mi piace solo a tratti. Questo Valerian che qualcuno (stranamente non io) ha definito uno Star Wars sotto LSD mi attira però parecchio, complice un gran bel cast (Cara Delevingne + Dane DeHaan + Rihanna + Clive Owen + Ethan Hawke) e il fatto che sia una francesata e non un'americanata. Il rischio cacchiata è altissimo, però I want to believe.
Ford: ho sempre detestato Besson. Da prima che iniziassi a detestare Cannibal Kid. Cosa accadrà dopo questa settimana a Mr. Ink? Per scoprirlo non si dovranno girare mille pianeti, ma arrivare a leggere tutta la nuova versione della rubrica.
Mr. Ink: Correva l’anno 1994. Gli estimatori di Forrest Gump e Pulp Fiction guerreggiavano, in tempo di Oscar – scommetto che, almeno per quella volta, il Cannibale e Ford stavano dalla stessa parte della barricata. Da qualche parte, nascevo io. E, crescendo, mi sarei defilato dalla diatriba a modo mio: se penso a quell’annata, infatti, penso a Léon (mio fratello, sapete, non si è chiamato così per un soffio) e poi a tutto il resto del cinema. Ho un occhio di riguardo per Besson, e quanto amo il bianco e nero del suo Angel-A, ma gli effetti speciali a profusione e le due ore e venti di durata di Valerian non mi avranno facilmente. Con buona pace delle sopracciglia di Cara e del lanciatissimo DeHaan, che dal basso del suo metro e un po’ mi colpisce sempre con un carisma non da poco.

Kingsman – Il cerchio d'oro
Cannibal Kid: Il primo Kingsman m'era sembrato un action spionistico decente, una specie di versione più simpatica e teen del vecchio e antipatico James Ford... volevo dire James Bond. Detto ciò, non sentivo per niente il bisogno di un secondo capitolo che si preannuncia guardabile, ma tutt'altro che imperdibile.
Ford: il primo Kingsman mi era parso una robetta uguale a mille altre assurdamente incensata da gente che non capisce nulla di Cinema come Cannibal Kid. Non sentivo affatto il bisogno di un secondo capitolo, ma neppure del mio socio, eppure sono ancora qui a sopportarlo dopo anni.
Mr. Ink: Questa volta scontento entrambi! Quel lato di me che, da bambino, voleva fare l’agente segreto – tra i miei cult di infanzia, accanto a classici grandi e piccoli, ha un posto tutto suo la videocassetta del primo Spy Kids – aveva scalpitato per Kingsman. E se è bene diffidare dai sequel, il villain interpretato dalla Moore, il ritorno a sorpresa di Colin Firth e le prime impressioni diffuse online mi dicono: sta’ un po’ zitto e goditela, ti divertirai da matti. Di nuovo.


Noi siamo tutto
Cannibal Kid: Mr. Ink è un patito di young adult, sia romanzi che film, persino più di quanto lo sia io. Incredibile, ma vero. Ciò nonostante, non ha apprezzato un granché questo Noi siamo tutto. Perché, Mr. Ink, peeerché? Non è che ti stai trasformando in Mr. Ford? La romantica storia di una tipa reclusa in casa che si innamora del suo vicino ha davvero tutto per essere detestato con tutto il suo cuore dal perfido blogger di Lodi. Come Colpa delle stelle, persino più di Colpa delle stelle! Io l'ho già visto e a breve ne parlerò. Domanda retorica: secondo voi riuscirò a criticarlo?
Ford: lo young adult è un genere che ancora fatico a capire, a meno che non si tratti di uno young adult nello stile di Hank Moody. Lascio quindi al finto giovane di questa rubrica Cannibal Kid ed al giovane vero Mr. Ink il compito di dipanare la matassa a proposito di questo film.
Mr. Ink: Ammiccava a Noi siamo infinito, ma sperava di essere il nuovo Colpa delle stelle (in modo diverso, inutile dire, la mia anima teen aveva adorato entrambi). Purtroppo somiglia più a uno di quei filmini leggerissimi, estivi, che arrivano in sala col tempismo sbagliato. Male non gli si vuole, per carità, ma la fuga di Amandla Stenberg – Cannibale, le sue magliette attillate ti ispireranno forse il titolo “Noi siamo tette?” – non convince, neanche chi, in certi giorni, si fa rabbonire come me. Fatto sta, ho lasciato sfitti i miei dotti lacrimali per This is us.

Glory – Non c'è tempo per gli onesti
Cannibal Kid: Per la serie “pellicola autoriale della settimana che solo il Ford de 'na vorta si sarebbe sorbito e ora manco più lui”, ecco Glory, una produzione bulgaro-greca che racconta di un uomo che trova un sacco di soldi su un binario del treno e invece di tenerseli decide di consegnargli alla polizia. Eroe o pirla?
Ford: pellicola che ai tempi avrei scovato in qualche sala deserta di Milano per darmi un certo tono da critico e cinefilo radical. Per fortuna questi tempi sono finiti, ed ora prendo le cose come vengono, in pieno Lebowski style. E spero prenderà non troppo male questa collaborazione anche Mr. Ink.
Mr. Ink: Sono uno spettatore semplice. Mi sono fermato a “produzione bulgaro-greca”.

L'equilibrio
Cannibal Kid: L'equilibrio, il nuovo film di Vincenzo Marra. Chi è Vincenzo Marra?
E io che ne so?
Meglio chiederlo a Mr. Ink, che lui se ne intende di cinema italiano, al contrario di Ford che negli ultimi tempi se ne intende soltanto di vacanze.
Ford: l'arrivo di Ink a commentare le uscite in sala accanto al sottoscritto e a Cannibal darà equilibrio a questa rubrica? Non saprei davvero. Quello che è certo, è che questa rubrica potrebbe risultare più interessante del film.
Mr. Ink: Come può parlarvi di un film che si chiama L’equilibrio uno come me, che cade anche da seduto? Se Marra non vi attira, e chi vi dà torto, confidate di vedermi capitombolare dal vivo, un giorno di questi. Di sicuro vi divertite di più.

2 biglietti della lotteria
Cannibal Kid: Una commedia on the road che così, a un primo sguardo, sembra una versione rom di Tre uomini e una gamba e Così è la vita. Potrebbe anche essere simpatico, ma ho le stesse probabilità di guardarlo di quelle che ho di vincere alla lotteria. Soprattutto considerando che io non gioco mai alla lotteria.
Ford: non sono un patito di lotterie e gioco d'azzardo, dunque difficilmente punterò su questo film. Un po' come su Cannibal. Per quanto riguarda Ink, staremo a vedere.
Mr. Ink: A proposito di gioco, ragazzi, punto su altro. Magari sulla conta delle mattonelle del bagno: cose così.

Tiro libero
Cannibal Kid: Una pellicola italiana sul basket, che affronta anche il tema della disabilità?
Pareva un film interessante e coraggioso. Poi ho visto il trailer, che trasuda amatorialità e retorica da tutti i pori. E ho visto che nel cast c'è Biagio Izzo, uno che sta al cinema come Ford sta al... cinema. Ho così capito che questo, più che un tiro libero, è un colpo basso.
Ford: produzione molto casereccia italiana legata ad un tema sociale. Se l'avessero chiamato autogol avrebbe avuto più senso.
Mr. Ink: Ne so poco di sport, figuriamoci di basket. Le mie lacune, sospetto, non le colmerà Alessandro Valori, con Izzo e Conticini in squadra. Non esattamente l’NBA del nostro cinema.

mercoledì 20 settembre 2017

Recensione: In viaggio contromano. The Leisure Seeker, di Michael Zadoorian

| In viaggio contromano, di Michael Zadoorian. Marcos y Marcos, € 18, pp. 282 |

Lui si chiama John, lei Ella. Stanno insieme da sessanta dei loro ottant'anni. Si sono conosciuti allo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando lui era in partenza per il fronte ma lei faceva il filo a un altro. Il destino, al solito, aveva piani alternativi. Li voleva coppia, così che mettessero su casa e famiglia – dalla loro unione, più in là, sarebbero nati due figli, svariati nipoti, tragedie in rima. Lui ha una forma di Alzheimer galoppante, e sta più di là che di qua. Lei, lucidissima, ha metastasi ovunque.

Peccato che io sia a pezzi e John ricordi a stento il suo nome. Non importa. Me lo ricordo io. Messi insieme, facciamo una persona intera.

Cosa possono la demenza e il cancro contro il desiderio di un ultimo viaggio? Come può Michael Zadoorian, da uno spunto tanto memorabile quanto furbetto, tirare fuori una storia che faccia pendant con quei romanzi americani – amatissimi dal sottoscritto, al pari dei vecchini di ogni dove – in cui, a sorpresa, succede tutto e niente? Dove non importano né le tappe né la meta, dico, ma il ritmo confortante e danzerino di quell'infinito viaggiare? A pagina uno di In viaggio contromano, che qualche settimana fa ha commosso il Festival di Venezia grazie al tocco del nostro Virzì, gli arzilli protagonisti puntano a Disneyland. Scappano dalle avvertenze dei medici e dei parenti, dall'incubo delle case di cura, all'insegna di un paradiso laico in cui trovare forse la pace sperata. Il vento in faccia, e la parrucca posticcia di Ella soffia via al primo sorpasso. L'acceleratore schiacciato a manetta, e un camper con più rattoppi dei suoi proprietari resiste agli urti dei banditi, alla compassione delle cameriere, alle attenzioni dei centauri, al mal di pancia dei troppi cibi spazzatura.

John smette di masticare. Posa l'hamburger, si pulisce la bocca con il tovagliolo, mi mette una mano sulla coscia. «Ciao, amore» mi dice, completamente dimentico di quel che è successo nel frattempo. Sa chi sono. Sa che sono la donna che ama, che ha sempre amato. Non c'è malattia, non c'è persona che te lo possa togliere, questo.

La leggendaria Route 66, quasi inagibile, fa da sfondo mobile. Ai vani tentativi di John di farla finita. Alla paura di non svegliarsi più, e al conseguente desiderio di guidare fino all'alba. Alle diapositive proiettate sulle lenzuola del corredo buono, che riportano alla mente gli amici estinti e i figli piccoli. Alle fitte di desiderio, rare ma trascinanti, in cui i corpi – giunchi secchi e inutillizabili – si riconosco in certe carezze, certe notti. I Bonnie e Clyde della terza età prendono le redini e stringono il volante. Macinano chilometri su chilometri. Per fortuna, fanno soste lontane dai territori del pietismo. Qualcuna non interessa particolarmente, vero, perché certi luoghi, certe citazioni, dall'Italia facciamo una certa fatica a collocarle, ma non abbiamo occhi (e sono occhi fradici: quanto ho pianto) che per loro.

Perché il mondo deve distruggere tutto ciò che non è conforme? Non ci rendiamo mai conto abbastanza che è la ragione principale per amare qualcosa.

John guida con gesti meccanici e ripetuti: la tenerezza verso sua moglia è uno di quei gesti. Qualcosa di naturale e irrefrenabile, che può più di qualsiasi memorandum. Può scordarti tutto, perfino il tuo nome, ma non chi sceglie di restarti accanto. Nonostante tutto. 
In viaggio contromano, struggente ma esilarante, è un'avventura che arricchisce e prosciuga. Un folle prendere e partire; lo sprint finale. Sulle falle della memoria e la miracolosa persistenza dell'amore, contro l'oblio. Sul litigare ferocemente per poi ritrovarsi sempre in un confuso "Ciao, amore". Tu, intanto, leggi, ridi e ti commuovi. Senti nostalgia degli ottant'anni che non hai e di qualcuno che ti guardi da dietro uno sguardo annebbiato e tutto, purché ti guardi così. Come se, di quella lunga odissea che è la vita di coppia, potessi essere il solo copilota.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Tracy Chapman – Fast Car

lunedì 18 settembre 2017

Mr. Ciak: Baby Driver, Rachel, Moglie e Marito, Tutto quello che vuoi, I figli della notte

Corse in macchina. Rapine. Voltafaccia e sparatorie. Cosa può spingermi al cinema a vedere un action, se non il genio di Edgar Wright? Il brillante autore della Trilogia del Cornetto e di quello Scott Pilgrim troppo nerd per i miei gusti, torna schiacciando forte il pedale. A bordo: Ansel Elgort, già ottimo ai tempi di Colpa delle stelle, e la romantica cameriera Lily James. All'inseguimento: la banda capitanata da Spacey, Hamm e Foxx – divertenti, ma quanto gigioneggianti? La colonna sonora, da incorniciare, non tace un momento. Le corse si sposano perfettamente con la maestria del piano sequenza dei titoli di testa (schivare i passanti, attraversare, portare in equilibrio i caffè non sono che una gran coreografia) e la tenerezza di quei dialoghi timidi ma dolci, da romcom, in cui Baby Driver somiglia un po' a 500 giorni insieme. Cosa, all'uscita dalla sala, mi ha fatto propendere per il nì e un briciolo di delusione? Cosa, già il giorno successivo, non mi ha spinto a scriverne? Il divertimento momentaneo, grande ma non dei più contagiosi, e la prevedibilità di una scrittura spiccia, che bada tanto alla tecnica, il giusto al cuore e poco e niente al mondo di Baby. Un delinquente di enfant prodige il cui potenziale viene banalizzato dopo la prima metà – con la sua aria da bravo ragazzo, non bellissimo, Elgort ricorda proprio un Peter Parker che tenta di conciliare pubblico e privato, sentimenti e responsabilità, con villain che vogliono per forza avere l'ultima parola (a volte, perfino la redenzione) e una lei con cui bruciare in fretta le tappe. La carica innovativa del regista, il suo umorismo british, corrono dietro al cinema americano. Non temono i cliché, quando avrebbero dovuto invece prestare più attenzione. Danno scosse in poltrona, ma dimenticano qualcosa che resti. Baby Driver è l'intrattenimento elettrizzante che avete letto altrove. Ma non mi ha fatto cambiare idea su un genere limitato, per quanto accattivante e ben musicato esso sia. Ma Wright ha fatto di meglio in passato: precisamente, tutto il resto. (6,5)

Philip si scopre erede di una fortuna alla morte del cugino. Il parente, in lettere deliranti, accusava la sua nuova moglie di cospirare contro di lui. Delirio o verità? Nel momento di fronteggiare l'usurpatrice, Philip si trova davanti una donna così cristallina da farlo dubitare, tanto affascinante da indurlo in tentazione. Ispirato a un romanzo dell'autrice degli Uccelli e Rebecca, My Cousin Rachel è una produzione britannica fatta di accenti regali, interpreti in forma, scenari mozzafiato. A metà tra il melodramma e il mistery, abbozza appena l'elemento noir e limita l'erotismo, l'ambiguità, per non allontanarsi mai troppo dal cinema elegante dell'impersonale Roger Michell. Delle intenzioni della sua protagonista, delle coincidenze grandi e piccole, la Du Maurier non svela nulla su carta. Al cinema restano un'ambiguità che perdura, ma scarso appeal. My Cousin Rachel è una caccia alle streghe; un romanzo gotico sul sospetto e l'ossessione a cui mancano in parte il pathos, in parte la fascinazione. Si arriva così a un finale amaro a piccoli passi ma precipitosamente; senza quasi decollare. Se in una particina spicca il nostro Favino, protagonisti assoluti di un corteggiamento lento e fatale sono Sam Claflin, candido e ineffabile, e lo charme di una Weisz superba. Un po' femme fatale, un po' fattucchiera, l'ultima arrivata fa tisane misteriose, ispira regali costosi e, in un attimo, fa capitombolare il padrone di casa. Come Elena di Troia, sembra crea il caos attorno. Per lei, gli uomini muiono. Dipende forse dalla sua volontà di manipolatrice? O, in pieno vittorianesimo, ci voleva poco per dare a una donna la colpa di ogni male? Quando il tarlo comincia a rodere, ogni gesto sembra simulato; ogni collana di perla, ogni festa in pompa magna, l'ennesimo furto; ogni bacio una bugia. (6)

Due bambini, una casa a Roma, tanta voglia di darsi addosso e poca di fare l'amore. Andrea e Sofia sono una coppia dai giorni contati. Lui chirurgo con un misterioso progetto in ballo, lei presentatrice televisiva. Galeotti un corto circuito e una macchina per conoscere i pensieri dell'altro, i protagonisti si scoprono cambiati dopo l'ennesimo battibecco. Sì, succede quello che capita alla mamma e alla figlia di Quel pazzo venerdì, ai liceali agli antipodi di Boygirl, e chi ne ha più ne metta. Moglie e Marito, esordio alla regia di Simone Godano, per fortuna è italianissimo. Lontano dalle classiche gag, vicino all'intelligenza che tanto ci ha stupito in sala lo scorso anno. Kasia Smutniak e Pierfrancesco Favino (esilaranti e in parte, anche se i gesti misurati di lei convincono più delle moine di lui) fanno a cambio corpo. Si sorride, e spesso si ride ad alto volume; tra le righe, si ragiona. In una commedia che ha uno spunto fantastico, ma sceglie una dimensione realistica per parlare delle contraddizioni delle donne e delle debolezze degli uomini. Per dire che la parità dei sessi esiste, con buona pace di chi si nasconde dietro un dito, e che in un amore che muore non c'è chi ha torto e chi ha ragione. Il finale che immagini è forse dietro l'angolo, ma nel mentre l'emozione – un'emozione diversa dal divertimento fine a se stesso, dallo sghignazzo – fa capolino. Durante l'amplesso, a ruoli inversi, si scoprono così la pazienza e i segreti dell'altro. L'arrivo del ciclo mestruale giustifica ogni nervosismo. Un neonato che ti si attacca al seno, ma tu sei un padre travestito da mamma, ti fa scoprire la bellezza di essere guardato così: come se fossi tutto il mondo. Tra moglie e marito, se c'è tensione nell'aria, metti la scoperta dell'empatia, la meraviglia di conoscersi daccapo, la paura di scambiarsi di posto. Il dito, mai. (7)

Alessandro, ventiduenne, vive un rapporto conflittuale con il padre e una relazione segreta con Donatella Finocchiaro, mamma del suo migliore amico. A impartirgli lezioni di galanteria e buonumore, un poeta affetto da Alzheimer. Nel suo studio, ha grattato sulla carta da parati poesie che parlano dell'amore e della guerra. Giorgio, giunto a Roma dopo l'arrivo degli alleati americani, snocciola nomi stranieri e farnetica di tesori nascosti. Chiama il protagonista con un altro nome, nei giorni no. Gli strappa qualche sigaretta a scrocco. Apprezza i videogiochi, la gioventù, e se ne circonda. Esistono ancora uomini così? Che fanno il baciamano, che chiedono il permesso prima di avvicinarsi a una donna, che credono nelle rime e nell'umanità? Si può forse imparare, applicandosi? La loro amicizia ispira lunghe passeggiate e un bellissimo confronto generzionale, con tanto di immancabile viaggio in macchina. Torna Francesco Bruni, braccio destro di Virzì, con una commedia dolce e istruttiva delle sue. Come nel precedente Scialla, i giovani e i vecchi che dialogano e si confrontano; la freschezza di un esordiente nato imparato; il contrappunto dello straordinario Montaldo, che ha ottantasette anni e non li sente. Emozionante con garbo, all'ultimo Bruni si perdona perfino la prevedibilità della seconda parte – la deriva on the road, l'epilogo annunciato – per il semplice fatto che il tuo cuore desiderava fortemente sperarci. Per il resto, tra risate e occhi umidi, un cast sincero e una sceneggiatura a modo, può trovarci davvero tutto quello che vuoi: di quel titolo, c'è da fidarsi. (7)

Un collegio per formare gli uomini di domani. Niente cellulari, professori severi e bulli mascherati, telecamere dappertutto. Giulio passerà lì le vacanze di Natale. La neve e l'isolamento non sono niente se c'è Eduardo, migliore amico che gli svela una via di fuga. Oltre il bosco, a luci spente, scoprirà l'amore di una spogliarellista dell'est, la gelosia di chi è stato lasciato indietro, un segreto che semina cattivi pensieri. I figli della notte sono i rampolli timidi e ribelli dell'esordio di Andrea De Sica – uno cognome altisonante, di cui in definitiva si rivela all'altezza, e l'incoraggiamento della critica allo scorso Torino Film Festival. Il nipote d'arte vira al genere che mancava. A metà tra il romanzo di formazione e il teen thriller, con interessanti sconfinamenti nei territori della ghost story, I figli della notte è un ibrido che convince e non. Se lo sviluppo manca di identità, in quel suo voler essere di tutto un po', sbalordisce la credibilità di un cast che eppure bada al risparmio (bravissimo il protagonista, Vincenzo Crea) e l'ineccepibile tecnica di fondo (quanta suggestione lungo i corridoi alla Shining, nei Matia Bazar che fanno da sottofondo agli spogliarelli di un club per soli adulti, in una canzone cantata senza stonature brandendo un'arma da fuoco). Opera prima inquieta e inquietante, I figli della stoffa ha idee confuse (forse ci aspettavamo la venuta di John Keating, forse qualche spiegazione in più) e stoffa da vendere. Per De Sica, da qui in poi, una strada in discesa. In questa notte popolata di spettri, assassini per caso e rabbia latente, c'è del buono. Anche se, dati i toni orrorifici, avremmo preferito la paura. (6)

sabato 16 settembre 2017

Recensione: La fine dei vandalismi, di Tom Drury

| La fine dei vandalismi, Tom Drury. NN Editore, € 19, pp. 392 |

Ci sono quei romanzi che dicono tutto pur parlando di niente. Storie di campagna, dimesse e quotidiane, che emozionano a modo loro con quel misto irrinunciabile di dettagli minuziosi, calma apparente e verità. Le regole di buon vicinato, le novità grandi e piccole che fanno mormorare i compaesani, il dondolo in veranda e gli annunci affissi ai pali della luce: la provincia americana, quella vecchia e polverosa, si faceva poesia nei romanzi del compianto Kent Haruf. Sulla scia del ricordo dell'autore americano, la stessa NN che l'ha riscoperto traduce per la prima volta Tom Drury: un'altra trilogia scritta negli anni '90, e in parte dimenticata; simili atmosfere confortanti e sonnacchiose; stessa struttura corale, con protagonisti e comparse fugaci che si incrociano lungo la strada principale. Siamo a Grouse County. Sullo sfondo: le quattro stagioni, le elezioni cittadine per il nuovo sceriffo, il divieto di caccia e atti di vandalismo di cui festeggiare finalmente la conclusione. Lì non si sa che colore abbia il mare, si abbandonano gli studi dopo il liceo, i negozi aprono e chiudono come cambia il vento. Alcuni vociferano che Sally Field, ai tempi sulla cresta dell'onda, voglia ambientarci un film.

«Lo amo tantissimo».
«Forse non è amore» disse Louise. «Magari è soltanto una tristezza a cui hai fatto l'abitudine».

Mentre si aspetta invano l'arrivo della troupe cinematografica, un'eccezione alla noia, Louise e Dan – lei fotografa, lui agente di Polizia, lei sonnambula, lui insonne – si avvicinano abbastanza da convolare a nozze. Hanno quell'età in cui i figli sembrano un miracolo e, alle spalle, relazioni belle che tramontate. L'ex marito della donna, Tiny, disoccupato, è un ladruncolo che spesso si improvvisa criminale da poco: in cerca di se stesso, si allontana da una moglie felice altrove e dalla mancanza generale di prospettive. Dove si dirige? Tutt'intorno, le comparse di esistenze come le nostre: a volte importantissime, altre del tutto ininfluenti. Una numerosa carrellata di comprimari – li trovati elencati in conclusione, come fossero i figuranti nei titoli di coda di un film d'autore – a cui provi a star dietro, prima che intervenga una ragionevole svogliatezza. Le mille facce che popolano La fine dei vandalismi, cronaca senza sobbalzi ma non senza emozioni, suscitano a malincuore indifferenza dopo la prima parte. Perché introdurre l'ennesimo nome che non pesa, ci si domanda? Perché non assecondare la tentazione di saltare qualche pagina, al giro di boa, sapendo che in fondo non cambierà nulla?

«Louise?» «Sì. Cosa c'è?»
«Non dimenticarti delle cose belle.»

Tra le pagine del primo Tom Drury – placido, sobrio, a voce bassa; ma la sua scoperta tardiva non meraviglia, al contrario di quella di Haruf – non succede niente, no. Non hai il desiderio di sfogliarlo e risfogliarlo, di sapere come andrà a finire. Raccontando la vita in presa diretta, rinuncerà a chiuse nette, tra drammi di genitori e figli, nascite e dipartite. Lo apri, tuttavia, con uno strano senso di serenità addosso. Sai che i protagonisti, a lungo andare gente di famiglia, staranno sempre lì e aspetteranno te. Un burattino discreto, anche se poco poco insofferente, che gli darà il potere di esistere e di emozionare. Ci sono quei romanzi che dicono tanto, se non tutto, e quel niente non sempre sanno farlo brillare. Storie troppo dimesse e troppo quotidiane, con troppe minuzie, troppa calma, troppa verità al fuoco. Quelle che non saperesti se consigliare o meno, ma a cui ti affezioni anche se non vuoi. Anche se, lì per lì, non te ne accorgi neppure.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – The Long and Winding Road 

lunedì 11 settembre 2017

Zapping: Strike, Mr. Mercedes, The Mist, Blood Drive

Cormoran Strike, l'investigatore privato dei romanzi di Robert Galbraith – alias, J.K. Rowling –, arriva in tivù. Stessa Londra uggiosa, stessa penna fiume, stesse trame un po' gialle e un po' rosa. Sulla BBC, non cambiare: stessa spiaggia, stesso mare. Sette episodi da cinquanta minuti ognuno, troppi, per farci stare tutte e cinquecento le pagine del Richiamo del cuculo. Una famosa modella assassinata, e da lì la nascita della collaborazione tra Cormoran – burbero, zoppo, eroe di guerra e figlio illegittimo di una vecchia stella del rock – e Robin, segretaria a un passo dalle nozze. Tom Burke è un filino troppo belloccio, ma va bene così; Holliday Granger, vispa e leziosa, è perfetta e perfettina. Nel pilot della serie Strike, fedelissimo, riconosci a colpo d'occhio i personaggi e le situazioni. Come la miniserie del Seggio Vacante, passata non a torto in sordina, si ha però la sensazione che manchi il guizzo, il desiderio di sperimentare. Gli episodi, intanto, si accumulano. Io conosco il colpevole, conosco il movente, conosco il legame tenero ma indefinibile tra lui e lei. Proseguire, ma quando? Rivederlo, ma a mente fresca? Il piacere di seguire le indagini resta immutato, parliamoci chiaro, ma sul piccolo schermo non se ne sentiva forse il bisogno. Dell'ennesimo giallo inglese, dico, con modi signorili e ironia a sprazzi, che ora la mancanza di uno sguardo personale, ora ricordi troppo vividi, lasciano apprezzare soltanto a metà. (Nì.)


Il detective in pensione che ricordavo: appesantito, malinconico, cupo. Il sociopatico spietato e incestuoso che ricordavo: di giorno impiegato in un negozio di elettrodomestici o alla guida di un candido furgoncino dei gelati, di notte genio del male. Ricordavo le immagini di violenza dell'incipit, con tanto di zoom crudele su una mamma e la sua bambina, in fila alla fiera del lavoro – alto il livello di splatter e alta, come suggerisce l'avviso in apertura, la tentazione di fare associazioni con la strage di Nizza. Dopo il pessimo The Mist e il flop La torre nera, in attesa del ritorno di It sotto Halloween, Stephen King ammazza il tempo con la serie ispirata alla trilogia di Mr. Mercedes. Hard boiled in dieci episodi, Mr. Mercedes – sceneggiato dallo stesso David E. Kelley di Big Little Lies – ha il sangue, l'ossessione, l'umorismo. Si intravedono Jerome, valente aiutante barra giardiniere, e il personaggio di una inedita vicina di casa, che tenta un Brandan Gleeson che più perfetto non si può con le vispe proposte di un Tutto può succedere. Si subodora un adattamento finalmente a fuoco, un King non mutilato nel passaggio in TV. E, da fan, ci si commuove quasi al sol pensiero. (Sì.)

Una cittadina immaginaria della provincia americana. Gli adolescenti e gli adulti, i drammi privati dei padri e dei figli. Una prof licenziata, un'adolescente stuprata dall'atleta popolare alla fine di un festino alcolico, l'immancabile migliore amico gay, un soldato e una donna armata fino ai denti. Qualcosa cala dall'alto e li imprigiona sotto lo stesso tetto. No, non è la cupola di Under The Dome, ma ci andiamo vicino. The Mist, tratto da un racconto di un centinaio di pagine dello stesso King, passa al piccolo schermo dopo un film bellissimo - la rilettura, una delle migliori che siano mai state fatte del Re, ha un finale di una crudeltà clamorosa. Prevedibilmente, amaramente, la serie è più vicina a quella malaugurata cupola venuta dallo spazio che al film, a metà strada tra Carpenter e Romero. Gli effetti speciali sono risibili. Gli intrecci annoiano. Il cast, se non fosse per la presenza della Conroy così cara a Murphy e Lynch, sarebbe dei peggio assortiti. Partiamo male. E la situazione potrebbe peggiorare pefino. La nebbia si è appena depositata. Faccio in tempo a salvarmi? (No.)

Gli anni Novanta, ma in chiave distopica. Gli Stati Uniti sono terra bruciata e i sopravvissuti, sporchi, brutti e cattivi, sono pedine in una gara automobilista clandestina. Ovunque è l'anarchia. Il prezzo della benzina è alle stelle. Le macchine sono alimentate da sangue umano. Nel pilot del tamarissimo Blood Drive, ultima creazione di Syfy che ricalca lo stile rétro di A prova di morte e Planet Terror, i radiatori hanno i denti e il sesso ad alta velocità, in combutta con l'adrenalina, disinnesca gli ordigni. Abbondano lo splatter, i nudi maschili e femminili, la polvere. Uno sbirro (il mitico Alan Richson di Blue Mountain State) è costretto a guidare, con una sensuale e spietata compagna di viaggio per non morire. Certo, è trucido (meglio ancora il secondo episodio, con un piccolo rest stop gestito da uno chef cannibale) ma ha anche dei difetti. Divertirà su lungo tratto? Sarà tutto un correre e ammazzare, o questa distopia offrirà anche qualche spunto intelligente? Sarò ancora divertito all'ultimo episodio, d'autunno, a motori spenti? (Sì.)

venerdì 8 settembre 2017

Mr. Ciak: Romanzi al cinema #2

La ragazza allergica al mondo che abbandona la campana di vetro e tenta il tutto per tutto per amore. Avevamo già conosciuto la particolarità del dramma di Maddie su carta, ma il best-seller di Nicola Yoon convinceva poco. Everything, Everything conserva nella sceneggiaura spunti pregevoli ed esiti difettosi. La finestra della formosa Amandla Stenberg affaccia sul cortile di Nick Robinson. Lei non può uscire, lui non può entrare. Scappano alle Hawai con una bugia. E l'ossigeno, che rischia di venire meno da un momento all'altro? E le conseguenze del colpo di fulmine – troppo adolescenziale, troppo da film? Everything, Everything ha facce pulite e buone intenzioni. L'irrompere del dramma non desta però mai preoccupazione. Lo si guarda con animo disteso sì, ma senza crederci. La rivoluzione della protagonista si riduce a una parentesi dai minuti contati a cui mancano lo stupore di Abrahamson, la libertà di Dolan, la fame di vita dell'horror Raw. Innocua, televisiva, pop, Stella Meghie tenta senza successo di ripercorrere le orme del commovente Colpa delle stelle e di un paio di estati fa. Non spiace, ma le guance restano aride, il cuore leggero e le labbra – già pronte ad ammettere, come con Green, “Forse non è il mio genere, forse non ho l'età, ma viva chi si ama, lotta e spera” – mugugnano qualcosa a metà tra l'accettazione e la delusione. (5,5)

Katherine è una moglie trofeo nel secondo '800. Isolata, ha corsetti stretti, la compagnia della servitù e un marito che non la sfiora. Il desiderio la spinge nell'abbraccio di un contadino. Accenna al personaggio più indimenticabile della bibliografia di Shakespeare, il titolo dell'esordio di William Oldroyd. L'intreccio, ispirato in verità a un racconto di Leskov, potrebbe sorprendere qualche spettatore abbandonando le battaglie, la pesantezza del blank verse e i logoranti sensi di colpa della consorte del re di Scozia. La ventenne Florence Pugh, infatti, ha forme infantili, un visino angelico e un sorriso sprezzante. Più vicina alle passioni fatali di Madame Bovary, la sua Katherine prende dal Bardo il cuore di ghiaccio e un animo vendicativo. La sua relazione con un sottoposto non va spifferata ai quattro venti. E nessuno, con lei ormai sola padrona di casa, deve attentare al patrimonio di cui è erede. Nero e brevissimo, Lady Macbeth è un noir a sangue freddo con una protagonista irresistibile. Femminista ante litteram, si ribella ai vestiti lunghi e supera i limiti: l'uomo, senza personalità, non è che un suo giocattolo; l'epilogo, beffardo quanto il resto, arriva dall'alto per salvarla dal destino già scritto delle eroine tragiche di ieri e di oggi. Formalmente perfetto, Lady Macbeth ha le ricercate simmetrie di un capolavoro della pittura fiamminga, ma si sporca rotolandosi nelle lenzuola sfatte. Nel fango, sotto cui si decompongono i cadaveri. Nel sangue copioso di testimoni scomodi e aspiranti usurpatori. (7)

Due degli interpreti più capaci e antipatici di casa nostra. Un regista di talento, Alex Infascelli, che davamo per disperso dopo Almost Blue. Un appartamento-prigione, catturato da una regia sempre claustrofobica e orrorifica. Un faccia a faccia lungo novanta minuti, per venire a capo di un giallo sentimentale. La Buy e Castellitto, in forma smagliante, sono moglie e marito. Lui ha perso la memoria, lei lo conduce fra le stanze e i ricordi confidando in un tornaconto personale. Aleggia il non detto. Qualche parola di gelosia, un bicchiere di troppo, una parola omessa a proposito di un romanzo indigesto firmato da un giallista che un po' ci fa e un po' ci è. Lui vaneggia? Lei lo manipola? Chi ha il coltello dalla parte del manico? Colto, sarcastico, solido, Piccoli crimini coniugali rilegge con stile e convinzione il libro di Schmitt ma rischia grosso. Al cinema, il linguaggio del teatro può andare stretto. Aggiungi ritmi serratissimi, che tolgono il fiato e l'importanza ai colpi di scena; toni che tra le pagine avevo immaginato più frizzanti; la freddezza del tutto, nonostante le danze deliranti con Donna Summer e la luce del caminetto, nel finale. Sa affascinare, Infascelli, pur non uscendo dalle sue quattro mura, ma il disagio e le riflessioni – al contrario della sensazione di assistere alle prove generali di due professionisti – non ti segue, una volta sbattuta quella porta alle spalle. (6)

Una anziana in un ospedale psichiatrico, un'accusa gravissima. Quarant'anni dopo, la perizia va rivista dal terapeuta Eric Bana. La paziente ha fatto spazio fra i versetti biblici alla sua versione dei fatti. Quella grafia racconta allo spettatore la Seconda guerra mondiale; un paese diviso tra cattolici e protestanti, indipendenza e fedeltà alla corona; gli amori di una giovane che aspetta il ritorno a casa di un aviatore, ma attira le attenzioni morbose del nuovo parroco (Theo James, ridicolmente bello e tenebroso). A scatola chiusa, Il segreto lo immagineresti Oscar friendly. Con quel cast. Con quel regista. Con quella trama che attinge a un best-seller e parla di fede e politica, della questione irlandese e, soprattutto, di un amore che non si scorda. Cosa frena le attese? Cosa porta un film, per quanto godibile e ben girato, a stagnare nel dimenticatoio? Svolte precipitose, colpi di scena stucchevoli. La pochezza dei personaggi maschili (colpa del casting, colpa della scrittura) e la grandezza di quelli femminili (la Redgrave, forse una delle più grandi interpreti viventi, sa sempre commuovere; bene anche Rooney Mara, esposta a un destino tristissimo). Il segreto brutto non è, ma non è all'altezza. Di un melodramma classico, scarsamente equilibrato, restano allora un intreccio che promette forte emozioni, e qualcuna non la nega; uno Sheridan dalla biografia sterminata, grande cantore dell'Irlanda e delle sue contraddizioni, che questa volta mette il piede (sinistro) in fallo; l'esagerata matrice romanzesca, unita tuttavia all'urgenza – dopo il delicato Philomena – di denunciare la vergogna della Chiesa cattolica. (5,5)

Howard è un avvocato di mezza età. Un treno che ritarda, una casa sfitta dirimpetto. Al buio, un'idea: non allontanarsi dal vicinato, occupare una soffitta e da lassù, inosservato, tenere d'occhio le donne della sua vita. Che, a un certo punto, rischiano di lasciarlo indietro. Tratto da un racconto di cui avevo letto nell'ultimo Fabio Stassi, Wakefield è il dramma di un uomo che ha perso il controllo. Prende le distanze per vedere meglio il quadro d'insieme. La fuga da se stesso diventerà un'odissea contro il clima ora torrido e ora pungente, i sospetti dei vicini, altri poveri diavoli. Cranston, sempre magistrale, si riduce a un clochard voyeur. Fruga nel pattume, brama, immagina. Imita voci su voci. E se loro fossero più felici così, con un posto vuoto a tavola? E se, da egoista qual è, potesse finalmente far del bene? La finestra sul cortile, per Cranston, si affaccia sul giardino di American Beauty – in cui proliferano il falso perbenismo, le bugie grandi e piccole, le erbacce di un'esistenza esemplare solo in superficie. Wakefield, interamente sorretto dalle intenzioni di un fuoriclasse, è una visione raffinata e degna di interesse, a cui però mancano il graffio e l'acidità. Un armadio con pochi scheletri, a casa. Un capofamiglia a cui rischia di sfuggire il punto. Prevale l'amarezza, se il rigore frena l'emozione. Perché Wakefield è una partita a nascondino in cui uno conta e un altro si nasconde. E il nascondiglio è così ingegnoso, così sicuro, che il compagno di giochi va via. E, tuo malgrado, si scorda di te. (6,5)

Chloe Grace Moretz, ventenne fresca di laurea, lavora come giornalista a New York. Ha un appartamento da dividere con Thomas Mann, fidanzato musicista; l'attrice indie Jenny Slate come vicina di scrivania; in famiglia, invece, ci sono mamma Carrie-Anne Moss e papà Richard Armitage, divorziati ma civili. Una vita da sogno: lei bella e talentuosissima, tutt'intorno un coro di volti giusti. Finché qualcosa si incrina. Mal di testa, paranoie, sfuriate. La mente non risponde, il corpo si accartoccia. Da dove parte il disagio della protagonista, oggi sana e trentaduenne? Non si contano le analisi, le tac, le domande. Il suo male non figura sulle radiografie. L'ospedale psichiatrico è la soluzione? Ispirato all'autobiografia di Susannah Cahalan, Brain on Fire è un dramma ospedaliero sull'orlo di una crisi di nervi, con una Moretz intensa, anche se forse troppo giovane per la parte, e un notevole senso di inquietudine nella prima metà. Mancano una regia al passo. Una scrittura meno cronachistica. Una protagonista, purtroppo, che susciti vera compassione e non antipatia. Alla spiegazione della diagnosi, eppure mirata a sensibilizzare il grande pubblico, sono dedicati pochi minuti. Se ne prende, tuttavia, ugualmente nota: quanto in fretta si parla di psicosi, senza avere l'accortezza di scavare? Pregi e difetti di una biografia parziale, poco a fuoco, nonostante – da titolo – il suo cervello in fiamme. (5)

mercoledì 6 settembre 2017

Recensione: Non so chi sei ma io sono qui, di Becky Albertalli

| Non so chi sei ma io sono qui, Becky Albertalli. Mondadori, € 17, pp. 248|

Avere sedici anni e portarsi un segreto dentro. Conviverci serenamente grazie all'aiuto di uno sconosciuto che sta passando gli stessi drammi. Simon e Blu, coetanei, frequentano la stessa scuola ma non si conoscono di persona. Protetti da nickname che disseminano comunque piccoli indizi sulla loro identità, sono i protagonisti di una fitta corrispondenza via e-mail. Si dicono quello che non hanno mai confessato ad anima viva. Non si imbarazzano parlando del sesso e di loro. Che sono buoni amici virtuali, o forse qualcosa di più. Che stanno venendo a patti, pian piano, con la loro sessualità. Simon e Blu, amanti delle persone gentili e delle frasi grammaticalmente corrette, si piacciono. Come dirselo, con il timore che un incontro faccia a faccia possa rovinare la magia? Come informare parenti e compagni che, se Blu dicesse di sì, Simon – che nel curriculum sfoggia un paio di ex ragazze, due sorelle, tre amici per la pelle, una coppia di genitori inopportuni ma permessivi – avrebbe all'improvviso un fidanzato?

Mi pare fosse un pensiero sulla solitudine. Ed è strano, perché io non mi considero affatto una persona solitaria. Ma c'era qualcosa di familiare nel modo in cui Blu descriveva quella sensazione. Era come se avesse preso le idee dalla mia testa. Parlava di come sia possibile memorizzare i gesti di qualcuno senza arrivare mai a conoscerne i pensieri. Di come le persone siano simili a case con enormi stanze e minuscole finestre.

Di Non so chi sei ma io sono qui mi sono accorto con un anno di ritardo. Per le medie altissime; il film in uscita il prossimo marzo, con Nick Robinson e la Katherine Langford di Tredici; il fatto che, con un tema delicato e giovani in cerca di sé, potesse essere uno di quei young adult spigliati e profondi, nello stile di Rainbow Rowell e John Green. Becky Albertalli, e con lei no, non è scattata la scintilla, si limita ad aprire una breve parentesi nella vita di Simon Spier; a lasciarci sbirciare. Parte senza preamboli, in medias res, con un bullo che viene a sapere dell'esistenza di Blu e, pur di conquistare le attenzioni della bella della scuola, ricatta il protagonista. Simon deve mettere una buona parola affinché la sua amica Abby accetti la corte di Martin, o il suo segreto sarà sbandierato in un post sul blog della scuola. I pezzi vanno facilmente al loro posto, ma al lettore sembra di essere arrivato tardi.

Parli nello stesso modo in cui scrivi.

Manca l'antefatto. Manca, purtroppo, l'assistere alla nascita della complicità tra Simon e Blu, galeotto un social network. Per la prima metà di Non so chi sei ma io sono qui ho avuto la sensazione che i personaggi parlottassero di cose da cui ero tagliato fuori. Una generazione post Tumblr, con cani che portano il nome di Justin Bieber e una buffa fissa per gli Oreo, dal linguaggio in codice che non mi interessava poi tanto decifrare. I toni sono sopra le righe e del senso dell'umorismo dell'autrice, già non troppo brillante di per sé, qualcosa dev'essersi perso in corso di traduzione (abbondano i dialoghi, non a caso cinematografici, e scarseggiano le descrizioni, in una storia che all'improvviso inizia e altrettanto all'improvviso finisce). Gli ambienti, tra musical e giornate a tema, sono quelli colorati e accoglienti di un episodio senza infamia e senza lode di Faking It. Non mancano comprimari dimenticabili (un'unica minestra di compagni e pararenti) e sfottò omofobi francamente sorpassati, su cui qui e lì ho soprassediato per la grande carineria di qualche scambio onesto e veritierio, in cui Non so chi sei ma io sono qui diventava il romanzo che avrei voluto fosse.

Ti capita mai di sentirti intrappolato dentro di te?

Una commedia degli equivoci a tinte gialle in cui la solidarietà dà il coraggio per presentarsi al mondo. Sulla superficialità di alcuni rapporti, che vanno avanti per monotonia, e sulla profondità di altri, intensi, costruttivi, che un bel giorno, nell'età della ragione, prendi e ti costruisci da te.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Kodaline – Same Love (Macklemore & Ryan Lewis)