Bobby,
giovane ebreo di belle speranze, abbandona il Bronx per Hollywood,
confidando negli agganci dello zio produttore: medita presto, però, di fare ritorno
a casa. Magari accanto a Vonnie, segretaria nel bel mezzo di una
complicata relazione clandestina. Nella seconda metà ci si sposta a
New York: il protagonista, con l'aiuto di un fratello criminale, fa
del suo cuore spezzato fonte di ispirazione. Incontra una donna
bellissima – un'altra Veronica -, nasce un locale notturno
popolarissimo, ma nessuna città è grande abbastanza, la gente
mormora e il passato, sotto forma di visita di cortesia, bussa alla
porta. Café Society, ultima commedia di quel Woody Allen che
quest'anno non attendevamo tanto presto, è stata bene accolta a
Cannes ed esce sulla fresca scia di quell'antipatico disastro che era
stato Irrational Man. Si ritorna al passato, di
nuovo, se gli accademici alcolisti e le trame che virano al thriller,
appena qualche mese fa, non avevano fatto breccia: tanta noia, poca
magia. E non c'è traccia della prima ma un po' della seconda, per
fortuna, in questo sentito omaggio al cinema dei telefoni bianchi, in
cui la perfezione della confezione – costumi irresistibili, scenari
splendidi e tanto jazz – contribuisce a farci chiudere un
occhio, o entrambi, su una sceneggiatura a cui manca il guizzo. Il
solito Allen, né il migliore né il peggiore su piazza, frizzantino
e nostalgico, che sceglie di fare di Jesse Eisenberg – già
nevrotico e prolisso di per sé, dunque padrone – il suo alter-ego.
A contenderselo, due stelle inaspettate: Blake
Lively, dea greca dal ruolo abbozzato; una Kristen Stewart bellissima
e redenta, oggettivamente non troppo a proprio agio con i film retrò,
per cui si hanno occhi innamorati. Pimpante nella prima parte e un
po' frettoloso nel suo immalinconirsi, Café Society va
scemando e non alza la voce, a discapito dei suoi anni ruggenti.
Visione piacevole e ben lontana dall'essere memorabile, sul finire
ispira l'esatta tristezza dei veglioni di Capodanno in cui, accanto
all'anno che verrà, sembra celebrarsi tutto ciò che è fugace e
illusorio: come questi anni '30 che non si curano ancora della
guerra; come questi triangoli sentimentali che credono di avere tutto
il tempo perché se ne venga a capo; come i sogni belli, d'amore, che
al risveglio si scordano. (6,5)
Hank,
naufrago, tenta di farla finita. A salvarlo dalla disperazione, l'arrivo
di Manny, portato dalle onde. Tra i due, l'inizio di una straordinaria amicizia, tra
confidenze e aiuto reciproco, per riempire le ore, le solitudini, le notti. Se la mettessi così, mi credereste, quando dico
che Swiss Army Man è un'avventura umana ad alto tasso di
emotività, buffa e toccante. Comprometto la mia affermazione, però,
aggiungendo un dettaglio che vi sarà già saltato all'orecchio, se
amate il cinema indipendente e dell'esordio dei Daniels, giustamente
premiato al Sundance, avete sentito parlare: Manny, cadavere rigido e
maleodorante, è morto per annegamento. Di tanto in tanto, la
decomposizione gli gioca strani scherzi e, stecchito e tutto, si
smuove, farfuglia, scoreggia; i suoi movimenti involontari, perfino
le sue moleste flatulenze, possono essere d'aiuto su un'isola
deserta. E così, complice la sua fervida immaginazione, Hank lo
muove come una marionetta: lo fa parlare, e usa il suo corpo come
ariete, salvagente, bussola, seconda voce nelle cantate in solitaria,
confessore spirituale. Come spieghi cos'è la vita a un morto?
Soprattutto, come gli riveli – tu che per lui sei tutto il mondo –
che la tua esistenza, prima del naufragio, era ben peggio della sua?
L'assunto iniziale non cambia: Swiss Army Man è una commedia
surreale, che in parte nausea e in parte mette la pelle d'oca. Senza
capo né coda, lì dove il ridicolo si spreca – scambi di ruolo,
minacciosi orsi come in Revenant, peti come motori per solcare
le acque –, in realtà è un'agrodolce riflessione sul sentirsi
soli, fuori posto in un mondo non tagliato per i timidi cronici, che
colora Castaway e Robinson di sprazzi musical e
inguaribile follia. Sole attrazioni nel survival più grottesco e di
cuore – ma che dico, di pancia - che incontrerai in vita
tua, uno splendido Paul Dano e un inaspettato Daniel Radcliffe, forse
bravo quanto mai, di cui sempre più spesso invidio le scelte e il
coraggio. Sull'inservibile cellulare del primo, poi, la foto di
un'altra musa indie, Mary Elizabeth Winstead: starà piangendo la sua
scomparsa; lo aspetterà paziente a casa? Vuoi la colonna sonora che
ricorda i brividi dei Sigur Ros, vuoi la sensibilità con cui sa
stemperare il nonsense o, ancora, la familiarità con la domanda “ma
se io scomparissi, qualcuno mi cercherebbe?”, l'opera prima
di un assortito duo di nicchia libera dalle inibizioni e smuove
qualcosa, nel profondo di te. Dirvi cosa non so, così su due piedi.
Giuro che non sono solo i succhi gastrici; c'entra un po', immagino,
anche l'anima. (7+)
Julieta,
vedova in là con gli anni, decide di
abbandonare la sua vecchia casa e di trasferirsi con il nuovo
compagno. Non ha rimpianti, ma segreti sì. E ripensamenti? Cambia
idea all'improvviso, infatti, quando un giorno incontra una persona
di un'altra vita: la sua interlocutrice le dice che ha visto la
figlia di Julieta, Antia, e i suoi tre bambini in Svizzera. Quella
figlia che è uscita dalla vita della protagonista, anni
prima, senza lasciare traccia; un fantasma che addolora, di cui
neanche il suo nuovo amore sa. Dopo il pessimo Gli amanti
passeggeri, un Almodòvar che conosce picchi e epocali
scivoloni ritorna al cinema – puntando direttamente ai prossimi
Oscar – con il libero adattamento dei racconti di Alice Munro.
Melodramma tutto al femminile, raffinato e trascinante, Julieta
si addentra in una travagliata relazione madre-figlia con una colonna
sonora hitchcockiana, colori caldissimi e una squadra di esemplari
primedonne. Qual è stata la colpa della protagonista affinché sua
figlia fuggisse via? I flashback la mostrano giovane e innamorata, e
per magia cambia volto, su un treno notturno: viene attratta da un
passeggero, marinaio misterioso e disperato, e subito è amore
grande. A condannarlo a una morte precoce, solo il mare in tempesta?
Per la prima ora, un Almodòvar rinnovato, ma fedele a sé stesso,
seduce e avvince come solo lui sa. Il dramma di una madre ripudiata e
la rievocazione del suo grande amore, che ha portato alla nascita di
una figlia irrequieta e rancorosa, lasciano pensare al meglio; c'è
tanto in gioco. L'ultima mezz'ora – perché Julieta,
purtroppo, è un film corto e, di conseguenza, inappagante – si
converte alle ellissi narrative, ai salti indietro e in avanti, e
mostra una chiusa brusca, che non soddisfa. Risibile, quasi, con
l'emergere del solito tema dell'omosessualità, questa volta assolutamente buttato lì, e una lettera che non è sufficiente per i
chiarimenti, la riconciliazione, una puntata di C'è posta per te. (6)
Aveva buone probabilità di piacermi, almeno su carta,
qualcosa come Suicide Squad: forse il primo fumetto al cinema
a prendere le parti non dei buoni, ma degli antagonisti. L'ho
aspettato, immaginandomelo sarcastico, eccessivo, originale. Nei mesi
che ci sono voluti per vederlo, però, la critica aveva già parlato
– e, se male, di certo non a torto. Il cupo action di David
Ayer, con una squadra di mercenari kamikaze senza niente da perdere, vede i prigionieri di una struttura
di massima sicurezza collaborare per salvare il mondo da un pericolo
maggiore. Ormai sulla bocca di tutti per il montaggio fatto alla
bell'e meglio, il Joker latitante e una colonna sonora da
estimatori, Suicide Squad mi è parso meno catastrofico di
quanto letto qui e lì, ma comunque caotico, arrangiato, mediocre. Ci
sfrecciano davanti in rapida successione le generalità e i moventi
dei protagonisti – spiccano il solito Will Smith, padre di
famiglia; la ammiccante e promettente Margot Robbie; una Viola Davis
granitica -, e si ha la sensazione, tra
borsette trafugate, nostalgie lampanti e unicorni di peluche, che
questi loschi figuri siano cattivi di nome, ma non di fatto. Gli si
contrappone la risibile Incantatrice di una doppia Delevingne, che
agita il bacino, evoca gli stessi raggi laser del novello
Ghostbuster e, soprattutto, è incapace di intimorire o
incantare. Ci sono troppe facce, interpreti premio Oscar di cui non
ci facciamo bastare l'introduzione sommaria; allo stesso modo, però,
la carne al fuoco è troppo poca. Disimpegnato videoclip, Suicide Squad si regge su un trascurabile
pretesto per aprire le strade di Gotham a un carrozzone colorato, in
maschera, che costituisce un lungo preludio per un film che verrà.
La missione dura due ore che non pesano – e sono abbastanza, ed
è un pregio -, ma non trova né il tempo, né gli spazi vitali per
sviluppare gli anticorpi: oltre le sbarre, fuori dalla sua cerchia di
affezionati nerd. (5)
Nel
1970, un Elvis all'apice della notorietà chiedeva un appuntamento
privato al presidente Nixon. Portava una pistola rarissima in regalo,
da buon ospite, una coppia di assistenti fedeli (un sorprendente
Pettyfer, l'inservibile Knoxville) e una richiesta surreale. L'uomo
di cui tutto il mondo conosceva il volto, e la voce, voleva diventare
infatti un agente federale. Il risultato del loro stranissimo faccia
a faccia, diretto dalla regista indie Liza Johnson e prodotto da
Amazon, è una commedia vintage dagli inaspettati tempi comici, con
uno spunto minuscolo e la partecipazione di due grandi stelle.
Michael Shannon è un inedito re del rock 'n roll, capriccioso,
magnanimo, esigente, i cui progetti assurdi nascondono abilmente la
sottile mestizia dei suoi ultimi anni di vita. Kevin Spacey, ben
lontano dai maligni giochi di potere del suo Frank Underwood, è un
leader politico aperto e incuriosito, che cura nel dettaglio la sua
immagine pubblica e la conquista degli elettori più giovani; dello
scandalo Watergate nessuno parla ancora. Poco somiglianti
nell'aspetto, badano ai timbri di voce e alla mimica: sopra le righe,
perché parte di un'atipica parentesi di storia contemporanea, ma
esagerati mai troppo. La regia è impersonale, però, e il resto del
cast è composto da un movimentato viavai di conoscenze telefilmiche;
il messaggio del film, a tratti divertente ma pretestuoso,
francamente sfugge. Quale spettatore, soprattutto se italiano,
sentiva l'esigenza della cronaca del loro incontro? A visione
ultimata il dubbio persiste – il tema non mi interessava, e
all'indomani del fresco Elvis & Nixon non ho di certo
cambiato idea -, ma ogni occasione è buona per guardare due
fuoriclasse, qui leggerissimi, gigioneggiare senza freno. Allo stato
brado, lungo gli impenetrabili corridoi della Casa Bianca. (6)
Visto solo Suicide Squad...cazzatona immane ma in giro c'è molto peggio, anche se la Delevigne è ridicola. Su Woody e Pedro ho parecchi dubbi son scesi nella lista enorme delle cose da vedere,Swiss Army Man non fa per me. Elvis Vs Nixon l'ho mancato al Biografilm ma prima o poi lo recupererò
RispondiEliminaDirei che Elvis & Nixon non è indispensabile.
EliminaSuicide Squad bruttino, sì, ma c'è peggio - soprattutto in mezzo a questi film coi supereroi che, per partito preso, evito come la peste. Che odio. :)
A parte Elvis & Nixon che continuerò a risparmiarmi alla grande, diciamo che gli altri mi sono piaciuti tutti un po' più che a te.
RispondiEliminaSu Swiss Army Man avevi ragione, è decisamente una cannibalata. Che film folle e geniale! :)
Pure Suicide?
EliminaSwiss Army Man è mitico: chissà che ti inventi per la recensione... :)
Dovrebbe essere stasera la sera giusta per Swiss Army Man, e ormai le aspettative sono alle stelle.
RispondiEliminaIl resto è in bilico tra il carino (Woody) e la mezza delusione per finali irrisolti (Almodovar) e la leggerezza di sceneggiatura (ancora Woody e Elvis).
Suicide continuo a risparmiarmelo, so già che non fa per me.
Sì, assolutamente: risparmiatelo!
EliminaIo tra questo e Deadpool pensavo di cambiare idea, ma no. Per fortuna c'è Jeeg :)
Di Swiss mi ha parlato stasera un caro amico, dicendo che "è più hipster di Frank": non so se è roba per me. ;)
RispondiEliminaPer il resto, spero di recuperare presto Allen e Almodovar.
A Frank non avevo pensato, ma effettivamente...
RispondiEliminaPerò, nonostante Fassbender, non mi aveva convinto troppo; forse non l'avevo capito. Questo, invece, è veramente curioso, ma leggo che piace. Prova: sotto l'etichetta "amicizie virili" ci sta :)
Cafè society mi ha deluso parecchio...film che ho trovato davvero insipido, come la recitazione della Stewart, che non sopporto! Condivido tutto quello che hai detto su Almodovar, stessa impressione
RispondiEliminaPer me, invece, la Stewart ha l'unico ruolo scritto un po' meglio. Oltretutto, apprezzo molto le sue scelte: si sta finalmente lasciando alle spalle Twilight.
Eliminanon ho visto nessuno di questi,ma ero interessata a quello di allen e a julieta... ma mi sa che mi butto su Swiss Army Man, che forse potrebbe stupirmi :-D
RispondiEliminaStupisce di sicuro! :)
RispondiEliminaswiss army man ne hanno parlati tutti bene ed è in rampa di lancio, julieta anche ce l'ho lì lì, suicde squad devo trovare il coraggio di vederlo, cafè society siamo sulla stesa linea. Quello su elvis e nixon non mi convinceva dal trailer e continua a non convincermi nonostante gli attoroni
RispondiEliminaMi sa che concorderemo sul geniale Swiss Army Man.
EliminaSuicide Squad inutile, ma non bruttissimo.
Al momento ho visto soltanto Suicide Squad e mi ritrovo d'accordo su tutto. Brutto sì, ma stranamente non mi sono annoiata (pensa che con film con trame più sensate a volte mi addormento dopo neanche mezz'ora). Personaggi interessanti, ma trama..aspetta, non ha una trama! O almeno, è troppo, troppo caotica.
RispondiEliminaConfermo.
EliminaPensa che a me annoiano tutti i Marvel/DC e compagnia bella.
Questo scorre, ma non resta impresso. :)
A me Suicide Squad da un lato mi ha delusa, da un lato mi è piaciuto! Secondo me potevano fare moooolto di meglio! A non convincermi è stata proprio sta storia dell'Incantatrice e degli dei egizi o quel che è (ho già rimosso XD) che ho trovato davvero che ci stesse come i cavoli a merenda! Però ho adorato la squadra, in particolare Will Smith e Margot Robbie... peccato >.<
RispondiEliminaIo detesto Smith, pensa un po'.
EliminaLa Robbie... be', la Robbie fa sempre piacere. :-D