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lunedì 30 maggio 2016

Recensione: Scrivere è un mestiere pericoloso, di Alice Basso

La vita è troppo breve per rileggere lo stesso libro.

Titolo: Scrivere è un mestiere pericoloso
Autrice: Alice Basso
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 348
Prezzo: € 16,40
Sinossi: Un gesto, una parola, un'espressione del viso. A Vani bastano piccoli particolari per capire una persona, per comprenderne il modo di pensare. Una dote speciale di cui farebbe volentieri a meno. Perché Vani sta bene solo con sé stessa, tenendo gli altri alla larga. Ama solo i suoi libri, la sua musica e i suoi vestiti inesorabilmente neri. Eppure, questa innata empatia è essenziale per il suo lavoro: Vani è una ghostwriter di una famosa casa editrice. Un mestiere che la costringe a rimanere nell'ombra. Scrive libri al posto di altri autori, imitando alla perfezione il loro stile. Questa volta deve creare un ricettario dalle memorie di un'anziana cuoca. Un'impresa più ardua del solito, quasi impossibile, perché Vani non sa un accidente di cucina, non ha mai preso in mano una padella e non ha la più pallida idea di cosa significhino termini come scalogno o topinambur. C'è una sola persona che può aiutarla: il commissario Berganza, una vecchia conoscenza con la passione per la cucina. Lui sa che Vani parla solo la lingua dei libri. Quella di Simenon, di Vázquez Montalbán, di Rex Stout e dei loro protagonisti amanti del buon cibo. E, tra un riferimento letterario e l'altro, le loro strambe lezioni diventano di giorno in giorno più intriganti. Ma la mente di Vani non è del tutto libera: che le piaccia o no, Riccardo, l'affascinante autore con cui ha avuto una rocambolesca relazione, continua a ripiombarle tra i piedi. Per fortuna una rivelazione inaspettata reclama la sua attenzione: la cuoca di cui sta raccogliendo le memorie confessa un delitto. Un delitto avvenuto anni prima in una delle famiglie più in vista di Torino. Berganza abbandona i fornelli per indagare e ha bisogno di Vani. Ha bisogno del suo dono che le permette di osservare le persone e scoprirne i segreti più nascosti. Eppure la strada che porta alla verità è lunga e tortuosa. A volte la vita assomiglia a un giallo. È piena di falsi indizi. Solo l'intuito di Vani può smascherarli.

                                          La recensione
Questa “scrittrice senza nome” è un pessimo vizio.
Per il secondo anno di fila, si termina un'avventura delle sue con un po' di tristezza – passerà abbastanza in fretta, mi chiedo, un altro anno? - e un moto di autostima. Andiamo pur fieri, noi misantropi, di risposte brusche, una vita contro, il muso sempre lungo: un membro della nostra popolosa tribù di solitari, lei che ha capiti d'abbigliamento sottratti al guardaroba di Mercoledì Addams e il profilo da adolescente che inganna i più sulla sua età anagrafica, ce l'ha fatta. Eccola su un giornale patinato, in abito da sera, affiancata da un valente cinquantenne; in palestra, che impara a difendersi – la lingua lunga, infatti, sferra ma non para colpi bassi; addirittura, che si affaccenda ai fornelli. Cosa le sarà successo mai? Se scrivere è un mestiere pericoloso, come il titolo garantisce, cosa capiterà alla nostra ghostwriter preferita, che combatte il crimine, firma inglorosi best-seller nel più totale anonimato e, tra le righe, ha una parola buona per tutti noi, blogger per passione? Il suo capo, che la costringe a passare dalle entrate secondarie per non dare nell'occhio e ad arrovellarsi il cervello per un tozzo di pane, non sa che – come diceva qualcuno, in un film che lei odierebbe a morte  – nessuno può mettere Vani Sarca in un angolo. Ci ha provato il bel Riccardo, che l'ha sedotta, ha avuto il suo capolavoro e poi, bastardissimo, l'ha abbandonata. Ci hanno provato piccoli criminali che non scherzavano affatto, armati di cattive intenzioni (e non solo) contro un tornado nascosto in un corpo di bambina ribelle. Nulla, tuttavia, hanno potuto. Eccola, puntuale e con la frangia sempre al solito posto, più impegnata che mai: nasconde il leggero affanno e una rubrica, in realtà, pienissima. Ha un'infinita lista di cose da fare, infatti, l'eroina che, ghignando, ci ricorda che di libri si vive e si muore. Il più delle volte, però, ti tirano prontamente fuori dai guai: i gialli aiutano a risolvere vecchi misteri, i manuali degli chef stellati a farti guardare con nuovi occhi chi hai sempre avuto accanto, i classici d'oltreoceano a dare filo da torcere ai tronfi e vanesi professori di Letteratura americana e, sotto banco, romance che svelano che, via gli occhiali, e i brutti anatroccoli, in talune occasioni, si trasformano in cigni bianchi. In ordine sparso, cosa c'è nella lista di cose da fare della nostra Vani?
(1) Evitare il suo ex, Riccardo, e la garrula ragazza giornalista di lui; (2) destreggiarsi tra interrogatori, essendo ufficialmente collaboratrice della Polizia, e faticose lezioni di krav maga; (3) scoprire nel commissario Berganza un ottimo chef e un attempato, ma affascinante accompagnatore; (4) scrivere una canzone per Morgana, l'unica tollerabile tra le vicine di casa, che mira a conquistare il cuore di un rocker liceale; (5) trascorrere le feste imminenti con una sorella minore che ha messo al mondo due diavoli gemelli e fatto costruire – momento di silenzio – un duplicato della Venere di Milo in giardino; (6) nonostante una sterminata cultura enciclopedica e il cervello che, come una spugna, non ha mai smesso di assorbire informazioni, ammettere a denti stretti che di cucina non si sa proprio niente. Per fortuna, il lavoro di ghostwriter, che questa volta la desidererebbe abile sceglitrice di scalogni e pasticciera sopraffina, la conduce alla villa dei Giay Marin: gli stilisti più chic di Torino, in pole position per gossip e tragedie. E, caso vuole, la cuoca che affiderà le sue memorie a Vani e a una food blogger disgustostamente rosa si chiama Irma, è la versione invecchiata della nostra protagonista e, tra torte e risotti, confessa un omicidio. In carcere, quindi, a scontare la pena, la persona sbagliata?
Per Vani, nuove ombre da rischiarare, una strada sempre meglio delineata e l'intercessione di Alice Basso, tanto brava quanto spiritosa, che delinea al meglio un intreccio scaltro, sfaccettato, esilarante: alla sua Vani, l'autrice assicura grattacapi intriganti, cavalieri impropabili – io shippo lei e Berganza, va be' - e il momento topico in cui, a un party, ruba il fiato agli ospiti maschili con una seducente entrata in scena. Ma lei non ci fa caso: il vestito è d'alta sartoria ma nerissimo, al solito, e ci piace così, e tanto, che sia in tiro o in borghese. Semplice perdonarle, allora, un mistero che, pur togliendole il sonno e ricordando alla lontana gli accattivanti inciuci di quelle saghe familiari british, si rivela non così a prova di bomba. E, parlando di perdono, ad Alice Basso cercherò di perdonare l'impossibilità di darci un capitolo di Vani a settimana, in virtù di storie, per il resto, assai ben congegnate. Sotto la voce “allegria”, sui dizionari, troverete “chick lit” e “oppiacei”, se il mondo vi è antipatico. Meglio dell'una e delle altra cosa – qualora la moda ti repella al pari del tuo prossimo e manco fumi: figurati se se ne parla di convertirsi alle droghe pesanti –, Vani Sarca. Il suo armadio non consente il tradimento con altri colori e il fegato borbotta: per Vani c'è il whisky. Quello, e le patatine al formaggio: da mettere in frigo, altrimenti vanno a male. 
Ci vorrebbero giornate con più di ventiquattr'ore. O, in alternativa, più giornate in compagnia di Vani. Più libri di Alice Basso in un anno, più ore di sole quand'è inverno. A chiederlo – sarà mica troppo? - gli occhi stanchi di uno studente in crisi che vive sommerso dai manuali e, in pausa studio, vorrebbe più libri così; e solo tanti, incondizionati sorrisi.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Soundscape – Il gioco dell'Inferno e Paradiso (canta Alice!)

giovedì 26 maggio 2016

Dear Old Mr. Ciak: Cosa fanno i protagonisti del piccolo schermo quando non girano?

(Quello che combina la Pellegrini fuori dalla piscina, invece, è ancora mistero)

(Alias: film random commentati una vita fa e, oggi, legati da un minuscolo pretesto)

2015. Madre, padre, una figlia che cresce al buio. Un bunker come casa, se fuori è vietato uscire. Finché, sopra, qualcosa comincia a muoversi. Da chi stanno trovando riparo? Fuori dal tunnel, che aspetto avrà il mondo? Hidden – scritto e diretto dai fratelli Duffer, promettente duo – è un film claustrofobico, cupissimo, che parte nel migliore dei modi. Un thriller psicologico che a lungo si regge sulle ansie, la routine e i meccanismi di sopravvivenza di una famiglia unita sul fondo di un pozzo nero. L'ansia si sente. Si è preoccupati per la loro sorte e, soprattutto, si è curiosi. C'è infatti una cosa che non dicono e che si rivelerà allo spettatore in flashback canonici in cui scoprire, man mano, la verità sulla loro fine del mondo. Una risposta originale, un colpo di scena garantito, che però – a confine con l'horror – soddisfa meno del resto. Prima di abbandonare il loro covo, in particolar modo, i tre attori reggono al meglio la tensione. La sconosciuta Andrea Riseborough; la piccola e precoce Emily Alyn Lind, ossia la giovane Amanda di Revenge; il sempre in parte Alexander Skarsgard, che, per essere un marcantonio olandese, risulta un genitore sorprendentemente attento e premuroso, con quell'istinto paterno, d'altronde, già mostrato in Disconnect e What Maisie Knew. Tocchi del migliore Shyamalan, cenni a The Hole, rovesciamenti non del tutto telefonati – occhio ad alcuni poster pieni di spoiler - e il pregio di complicare un'idea semplice. Esempio ben pensato di crossover, dunque, sulla relatività delle fobie – alla fine, chi ha paura di chi? - e la forza del sangue. (6/7)

2014. Clint, un Elijah Wood che dopo Il signore degli anelli e gli impegni con Wilfred vediamo spesso alle prese coi film da brivido, vorrebbe diventare il nuovo Stephen King ma, tornato a mani vuote dal soggiorno newyorkese, vive sotto lo stesso tetto di mammà e lavora come supplente in una scuola elementare. Non sa ancora che nella caffetteria della scuola sta per diffondersi una piaga che renderà zombie tutti coloro che non sono ancora entrati in pubertà. Basta un graffio e parte la rabbia, insieme alla fame. Cooties è una commedia horror, come rivela il trailer, partorita dalle menti di coloro che hanno pensato Glee e Saw. Scorretta, splatter e esilarante, ha i personaggi che immagini – la dolce insegnante di Inglese, il tronfio professore di Educazione fisica e così via – e una ferocia vestita di leggerezza che non ti aspetti. Parte tutto, infatti, con un dispetto ai danni di una bambina pallida e bruttina. Il prepotente di turno la tira per le codine e, insieme ai capelli, viene via anche un sanguinoso brandello di materia cerebrale. A quell'età i bambini sono dispettosi e manipolatori: ti fanno gli occhi dolci, ti prendono per il verso giusto e sei nella loro trappola. Figurateveli morti viventi: piccoli demoni con abiti dai colori pastello che giocano al salto alla corda con le budella di un povero sprovveduto, stabiliscono gerarchie, rendono gli spiazzali della ricreazione labirinti. E tutto, in quest'opera prima citazionista quanto The Final Girls e non meno ironica di L'alba dei morti dementi, ha inizio proprio da quella carne che forse - lo dicevano i vegetariani e l'hanno confermato da poco, neanche a farlo apposta, i giornali – nuoce gravemente alla salute. Come una scuola che – da una parte all'altra della barricata – uccide. (6,5)

2015. Un poster con il primo piano dei due protagonisti, e io che immagino tanti dialoghi e pochi attori. 6 Years, melodramma scritto e diretto da Hannah Fidell, poteva piacermi. Perché si sa che vado pazzo per queste lunghissime scene in cui, con naturalezza, si parla del più e del meno; gli amori agli sgoccioli; i giovani che hanno i problemi dei vecchi. Siamo dalle parti di Like CrazyBlue Valentine. Un sentimento al tramonto, già declinato al passato, e due amanti a un bivio. Melanie e Dan – studenti universitari, migliori amici – sono fidanzati da sei anni. In Doremus c'era la lontananza, in Cianfrance i rimpianti di due che avevano capito che il loro grande amore non bastava. Nella Fidell, piatta, i problemi sono più vicini ai miei – strade che inevitabilmente si separano, piani per il futuro che non vanno d'accordo, piccoli tradimenti da ubriachi – ma personaggi tutt'altro che adorabili, o in lacrime o brilli, rendono più pesante del previsto l'ora e diciotto di 6 Years. Realistico, non per cuori candidi, ma con guizzi scarsi e figure antipatiche, pallide, volubili. Eppure Taissa Farmiga – lei tanto sfortunata in amore anche in American Horror Story – e Ben Rosenfield sono molto bravi. Eppure la regia è sobria e la colonna sonora indie al bacio... (5)

2013. Certe sere l'importante non è tanto il film, quanto ridersela di gusto. E, in sere come quelle, che venga pure in mente l'idea di vedere questa commedia tedesca campione d'incassi, pronta per l'espatrio, un sequel già uscito in Patria e, chissà, un remake. Arrivato da noi con due anni di ritardo, complice un protagonista amatissimo per Kebab For Breakfast, Fuck You, Prof! parla con il linguaggio della comicità – a volte volgare, ma immediato - di ragazzi ribelli, equivoci e false identità. La storia: delinquente in libertà vigilata si finge supplente per recuperare la refurtiva sepolta nello scantinato di un liceo. Ma il suo menefreghismo si scontrerà con gli scherzi di una classe problematica. La trama è la solita – un incrocio tra Da ladro a poliziotto e Poliziotto alle elementari – e la comicità, non tra le più raffinate, è più americana che europea. Però si ride tanto, dall'inizio alla fine, e gli obiettivi vengono raggiunti, dalla classe scapestrata capitanata dal più scapestrato dei prof. (6+)

2014. Jay è la pecora nera in una famiglia perfetta. Daisy, sola al mondo e con qualcosa che non quadra, dichiara ai suoi dottori di sentire le voci ed è tra le stralunate abitatrici di un istituto da abbandonare di corsa, e a piedi scalzi. Lui è Scott Speedman che, dopo gli anni novanta e Felicity, ci si è accontentati di vedere qui e lì. Lei è Evan Rachel Wood, attrice che mi piace tanto e da tanto, che chissà perché – pur essendo bella e brava in quantità uguali – ha meno impegni di quanti meriterebbe. Loro, simpatici e in armonia, sono i protagonisti bene a fuoco di Barefoot: romcom tra l'indipendente e il commerciale che, a volte, ho trovato avesse i tratti dei boy meets girl che mi fanno sempre bene, altre quelli meno personali ma per tutti i palati di una commedia con i Kate Hudson e Matthew McConaughey di turno. Piace più a prima impressione, nel primo caso, rispetto a quando si scopre – nonostante il brio e le punte di tenerezza – piacevole e poco più; comunque, non  memorabile. A fare la differenza, la lei della storia, che spesso ti prende in contropiede con le sue fragilità e i suoi piccoli dolori, e sempre ti sorprende per piglio e fascino. (6)

2014. Richie vuole farla finita. Ma, all'improvviso, arriva una chiamata da sua sorella. Sua nipote, Sophia, ha bisogno di lui. Nato come ampliazione di un corto pluripremiato, Before I Disappear è il significativo esordio alla regia di Shawn Christensen: ha l'indole e lo sguardo giusto, anche se il suo primo lungometraggio ha poco che lo faccia brillare di luce propria. Dramma all night long inguaribilmente indie, ha una bella testa, una bella fotografia da videoclip, un bel cast televisivo assemblato a dovere – accanto al factotum Shawn, una grande Emmy Rossum e uno psicotico Paul Wesley – ma manca una trama che si faccia ricordare. Prevedibile, penserete, immaginando un rapporto adulto-bambino à la About a Boy. Sbagliando, credo lo pensasse anche l'autore: accanto allo snodarsi di un emozionante dramma familiare, allora, l'inserimento di una parentesi noir. Una cocainomane trovata morta, la promessa dell'omertà e, inevitabile, il dubbio: dirlo o non dirlo al ragazzo di lei? Con un altro dubbio, questa volta il mio, ossia che nel corto tale sottotrama insoddisfacente mancasse, andrò a recuperarmi l'originale e a dire in giro che Christensen, nonostante i passaggi irrisolti, è capace come tutti raccontano. (6/7)

2015. Brillante studente a casa per le vacanze perde testa e verginità con la  consorte del vicino. Ma il marito, ricco e geloso, potrebbe non perdonare il ragazzo che ha puntato gli occhi sulla sua moglie trofeo. Careful What You Whish for – in italiano, Attrazione senza regole: titolo da anonimo giallo di Rai Due, e quello infatti è stato il suo sfortunato destino in una sera di fine agosto – è un discreto thriller erotico, con tutti i limiti del caso e elementi che lo rendono leggermente superiore a pellicole simili arrivate di recente in sala. Vedi l'innocuo – e trashissimo – Il ragazzo della porta accanto. La trama è quella: un'attrazione fatale, la seduzione di una Mrs. Robinson, un giovane accecato dalla passione. Ma, a un certo punto, si imbocca una via che il trailer non rivela e che, dunque, non vi rivelerò neanch'io: una strada già battuta, verso un epilogo con qualche tranello che non guasta e i territori di Sex Crimes. E poi – inusuale per la prima serata, almeno – c'è più pelle esposta, qualche scena di sesso e l'indiscreto sex appeal di Isabel Lucas. Nei panni del marito, Dermot Mulroney (Shameless); il giovane protagonista, invece, è Nick Jonas. Nuovi muscoli e il tentativo di una carriera nuova dopo un'infanzia targata Disney: qualche singolo carino passato in radio e impegni in rubrica con l'ultima creazione di Ryan Murphy, Scream Queens, e la seconda stagione di Kingdom. (5,5)

2015. Charles è un liceale che vive di notte. Tormentato dai bulli, lavora in una stazione di servizio che è un microcosmo di situazioni pericolose e incontri. Lì la diciottenne Vicki offre sesso ai camionisti. Quando Charles trova il coraggio di difenderla dalle prepotenze del suo pappone, tra i due nasce l'amicizia. Viaggiando lungo la costa californiana, fotograferanno fari e impareranno a rispettarsi. Safelight è un dramma young adult accolto nell'anonimato. Sbuca dal nulla, infatti, ma ci si aspettava di più, per colpa di una di quelle copertine che mi ispirano a colpo d'occhio e di due protagonisti noti. Ha senz'altro dalla sua voglia di tenerezza e tanta bontà, ma la scrittura pecca di ingenuità e esagera nel caricare i personaggi di drammi che non toccano. Mai smielato ma neanche mai meritevole, per quell'ora e mezza, nonostante idee frettolose e personaggi sfortunatissimi, si tiene a galla grazie a qualche comprimario significativo, alle atmosfere country e alle prove di Evan Peters, convincente diciassettenne, e June Temple, carinissima coi suoi occhiali rosa a forma di cuore. Giovani ma già quotati, altrove mattatori, finiranno per farsi ricordare, qui, per quel misto di occhi bassi e sorrisi rubati che sono bravissimi a rendere, neache fossero due adolescenti alle prese con l'imbarazzo della prima volta. (5)

lunedì 23 maggio 2016

Recensione: Unrivaled - La sfida, di Alyson Noel

"Era rimasta chiusa in camera a meditare sulla linea sottile che separava la fama dall'infamia. Per un colpo di sfortuna, la sorte aveva voluto che per lei fossero inestricabili."

Titolo: Unrivaled – La sfida
Autrice: Alyston Noel
Editore: Harper Collins
Numero di pagine: 284
Prezzo: € 16,00
Sinossi: Tutti desiderano diventare qualcuno nella vita. Layla Harrison vuole fare la giornalista; Aster Amirpour sogna di essere un'attrice di successo; Tommy Phillips ha intenzione di diventare una rockstar. Madison Brooks ci è riuscita: ha afferrato il destino e lo ha piegato al proprio volere molto tempo fa. Ora è la più acclamata stella di Hollywood, e ciò che ha fatto per diventare il personaggio di cui tutti parlano è solo una macchia sull'asfalto, polvere sotto i tacchi delle sue Louboutin. Finché Layla, Aster e Tommy non ricevono un invito speciale per entrare nel mondo esclusivo della vita notturna di Los Angeles e partecipare a una spietata competizione di cui Madison Brooks è l'obiettivo. Ma proprio quando le loro speranze si accendono come stelle che bucano lo smog della California, Madison Brooks scompare... e le aspettative dei quattro ragazzi si spengono, oscurate da una nebbia di bugie.

                                              La recensione
La visione di Blake Lively a Cannes – stupenda in azzurro, in rosa, in oro e, con la gravidanza a fare capolino e ad arrotondarle le forme, forse, ancora di più – mi ha ricordato perché al ginnasio fossi perdutamente cotto della sua inarrivabile Serena van der Woodsen e seguissi, fedelissimo, un mondo di intrecci, tradimenti e surreali colpi di scena descritti da colei che, nell'anonimato, cantava e condannava i rampolli e le meteore delle scandalose élite di Manhattan. Tra il teen e la soap, trash solo verso la conclusione, Gossip Girl era – è – il mio guilty pleasure con la lettera maiuscuola. Da allora, cercasi rimpiazzo. A consolare gli orfani e i nostalgici, chi a New York non ci ha mai messo piede e alcuni party di certo non può permetterseli, ci hanno pensato le amiche di Pretty Little Liars e, lo scorso anno, i nobili britannici secondo The Royals: serial che, senza cerimonie, ho abbandonato strada facendo. Il primo, infatti, non mi aveva anticipato che oltre che carine e giovani le quattro protagoniste fossero stupide da non credere; con il secondo, nonostante il piacere degli episodi introduttivi, era venuta meno la curiosità e non restava, allora, che il trash. Quello, in dosi abbondanti: ingenerose. Finché, tra i guilty-pleasure-ma-non-troppo, non è spuntato dal nulla Unreal. Quali meccanismi nascondeva un programma in cui ragazze bellissime si sfidavano per il cuore di un lui assai ambito, se le sporche manovre della produzione facevano vittime innocenti e la commedia nera prendeva d'un tratto il sopravvento? Unreal e Unrivaled: un titolo in assonanza, un'altra sfida annunciata, la contaminazione a fantasia tra il mistery e lo chick lit. Come nel caso del telefilm Lifetime, anche con Alyson Noel c'era la sorpresa, dietro l'angolo? Primo di una serie, tradotto in tempi record e coccolato dalla nascente HarperCollins Italia, Unrivaled è ambientato in una Los Angeles festaiola e rumorosa, ha protagonisti che indossano le migliori griffe e coltivano i peggiori propositi, fa una satira non troppo caustica ma che si legge, e lì sta la sorpresa, con un ghigno di sottile apprezzamento. Il titolo si riferisce alla missione di tre diciottenni senza grilli per la testa, determinati sin dall'inizio, che rispondono all'invito del potente e misterioso Ira, proprietario dei locali notturni più in
La fragola in copertina, intinta nell'oro, è il frutto proibito a cui Tommy, Layla e Aster tendono la mano, ignari degli effetti collaterali della loro cupidigia. Vogliono sfondare. Il primo, ragazzo di periferia con la chitarra in spalla, sogna la carriera delle rock star e il cenno del capo di un padre gelido, ignaro della sua stessa esistenza; la seconda, hipster fino al midollo e con un fidanzato storico che sprizza gioia di vivere, scrive cattiverie e news su un blog di pettegolezzi; l'ultima, che per ribellarsi a due genitori aristocratici e normativi gioca a fare la cattiva ragazza, sa che la sua pelle caffellatte e il fare da gatta morta le apriranno in fretta e furia le porte dello showbusiness. Intanto, fanno i promoter per l'uomo che, in pugno, custodisce le chiavi di Los Angeles. Ci sono tre locali da riempire e loro sono i leader di tre diverse squadre. Chi la avrà vinta? Chi potrà vantarsi di avere, come fiore all'occhiello, l'attrice Madison Brooks e la sua dolce metà? La ragazza che s'inchina davanti alle stelle, però, scompare nel nulla. Cosa hanno a che fare i protagonisti con il sequesto dell'ospite più ambita?
Il romanzo della Noel è una lettura disimpegnata ma coinvolgente, che lascia più domande che risposte. Una “toccata e fuga” dal senso d'irrisolto, di incompiuto, che nel pugno stringe un pugno di mosche; generi che si combinano sì e no; polvere di stelle cadenti. Pensato per un pubblico di giovanissimi, nonostante le premesse, non risulta di certo più cinico o provocante del young adult medio; e il riferimento principale, ahinoi, è quello delle “liars”, tanto benvolute altrove. Con un mistero che, nel prossimo romanzo, ci darà i debiti grattacapi e un finale che suona tanto come un arrivederci, alla prossima puntata.
Ci sono romanzi dallo stile chirurgico e nitido, che non puoi fare a meno di definire cinematografici. Unrivaled è invece modesto, nel bene e nel male, e ammiccante: televisivo, con il bollino giallo. Tra lo standard e l'irriverente, segue un compromesso che, questa volta, non mi è dispiaciuto, benché non ami le vie di mezzo, le pietanze senza pepe, la satira senza coraggio. Ma La sfida mi ha divertito, intrigato il necessario, e un'altra puntata di prova, un altro romanzo, me lo concederei ben volentieri. Al momento, sospendo il giudizio. Non cambio canale, senza sapere che fine ha fatto Madison Brooks e com'è, nel dettaglio, un mondo che qui ho occhieggiato tra i flash dei paparazzi e in mezzo ai punti di vista di un trio all'oscuro dei fatti. Freno un po' l'istinto di darmi allo zapping sfrenato. Il guilty pleasure, però, resta più appetibile sul divano, in pigiama e alla luce dello streaming, che tra le pagine. 
Su questo no, non cambierò idea. 
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Vogue – Madonna 

sabato 21 maggio 2016

I ♥ Telefilm: Bates Motel IV, Damien, Grease - Live

Era partito in sordina e rimangiandosi la promessa dell'orrore. Bates Motel, reboot sul giovane Psycho, giurava di raccontarci un Norman Bates agli esordi. Quanto erano acuti i dolori del giovane Norman? Quanto era crudele e subdola una madre che, consapevolmente, lo aveva traviato? A lungo, in tivù, le risposte non soddisfacevano. L'adolescente, nonostante i suoi frequenti blackout, sembrava sano come un pesce; Norma era un dolce angelo del focolare con gli abiti floreali, anni Cinquanta. La terza stagione, però, ci aveva fatto ricredere: il gioco, allora, valeva la candela? Bates Motel, al suo quarto anno di vita, va velocissimo verso l'inevitabile. Dove, sin dall'inizio, doveva andare. E così si rivela il gioco degli sceneggiatori. Parchi quando si tratta di efferatezze e sangue – anche questa volta, infatti, gli omicidi scarseggiano – ma, per tutto il tempo, abilissimi nel farti stare a cuore personaggi psicotici, sgradevoli, ma memorabili proprio per quello. Ti affezioni agli assassini in erba con il complesso di Edipo e alle mamme belle e pressanti, che di quel famoso complesso sono senz'altro la causa, a tal punto che è difficile vederli passare dalla potenza all'atto; osservarli mentre diventano – cosa che, qualche serie fa, invece supplicavi – gli stessi del film originale. La fragile Emma, questa volta, con un'operazione abbraccia il proprio benessere; Dylan sogna di allontanarsi da una famiglia pesante, in cui qualche tempo prima si desiderava il benvenuto; lo sceriffo Romero, ed ecco la solita sottotrama superflua, ha fatto fuori un boss del posto, attirando su di sé le indagini della DEA e le gelosie di una vecchia amante. Norma, per amore di suo figlio, si sposa, perché ha bisogno di sostegno economico e, vuoi o non vuoi, s'innamora dell'uomo che ha accettato di metterle una fede al dito per imbrogliare la previdenza sociale. Norman, invece, è sempre più Norman: indossa la vestaglia di mamma, parla come lei e, in una sequenza seducente, corteggia una cubista; quando si baciano, però, ci sono solo Norma e la ballerina: lui è scomparso. Buchi nel muro, spioncini ovunque, amnesie... Viene chiuso in una casa di cura, per un po'. Ma, a contatto con altri pazzi, peggiora, e fa sue nuove e stranissime idee. Prende ispirazione per il suo gran finale? La Cook e Thierot sono teneri e affiatati. Lo sceriffo di Nestor Carbonell è duro, ma sentimentale. Vera Farmiga e Freddie Highmore, lei struggente e lui più inquieto del solito, sono finalmente al centro di una stagione che è alla loro altezza. Il season finale: fatale, lungo, quasi commovente. E, per una volta, così, puoi essere grato alla tua testa dura e, intanto, ti domandi dove fosse, quel giorno, la pigrizia; la voglia di mettere un'altra serie da parte. Perché Bates Motel, onesto e disonesto insieme, non ti fa pentire di non averlo abbandonato, quando non era che un teen drama in un mare di teen drama con il nome ingannevole, però, di un capolavoro senza tempo. (7,5)

Quarant'anni fa, Richard Donner dirigeva un horror cult, destinato a sequel discutibili e, nel 2006, a un remake che personalmente non mi era dispiaciuto. Sarà che avevo dodici anni, un'attrazione strana verso l'arcano e che Omen l'ho conosciuto proprio così. Cos'è stato del giovane Anticristo, che in un finale assai beffardo, dopo l'assassinio di entrambi i genitori adottivi, trovava ospitalità presso la Casa Bianca? Il dominio del mondo? Damien, prosecuzione ideale e a fantasia, portata sul piccolo schermo dagli stessi che avevano pensato un Psycho adolescente, immagina il figlio di Satana adulto. L'erede della sfortunata famiglia Thorne, dopo un'infanzia burrascosa e un'adolescenza con altrettanti misteri, è andato in Medio Oriente in cerca d'espiazione. Avverte un profondo senso di colpa, la voglia di cambiare: fotoreporter di guerra, rischia la vita, si dà a nobili missioni, le sue foto fanno il giro del mondo. Evidentemente, non sa che lui e la guerra sono fatti della stessa pasta... Dopo la trentesima candelina spenta, è tempo però di raccogliere un'eredità scomoda: gli incubi lo perseguitano, sul suo cuoio capelluto spunta il tatuaggio “666”, chi è vicino a lui rischia di perdere ciò che ha di più caro, due potenti – tra questi, l'affascinante Barbara Hershey, femme fatale agèe – fanno a gara per corromperlo. C'è chi lo vuole vivo e chi lo vuole morto, chi lo vuole cattivo e chi sognerebbe di cambiare la sua indole. In questa battaglia consumata tra il deserto e una patinata New York, come si sente il diretto interessato? Damien, che aveva tutte le carte in regola per essere un'operazione pessima, in realtà si pone i giusti interrogativi e, nell'abbracciare il male, lo fa con contrizione e umanità. Pur non venendo meno gli spunti horror – omicidi, apparizioni, voci -, si pone come un intrigante thriller psicologico e a lungo, eccezion fatta per ultimi episodi non così soddisfacenti, l'orrore è nella mente. Se la collega Katie McGrath in Slasher si confermava una cagna maledetta (cit.), Bradley James, altro volto di Merlin, è invece piuttosto capace: piace alla macchina da presa – ed è molto bello: piacerà senz'altro alle spettatrici – e ammicca poco e niente, curando come meglio può il ruolo di un ragazzo che fa di tutto per liberarsi dal suo cuore nero. Tra tentati suicidi e incidenti di percorso, Damien conta anche su qualche comprimario ben pensato: se gli aiutanti del nostro anti-eroe, però, non sono granché, gli sceneggiatori fanno bene con la storyline dell'agente Shay: poliziotto ligio al dovere, segugio spietato e, nella vita privata, protagonista di una relazione omosessuale senza cliché, con tanto di bambino – in pericolo, con Satana nei dintorni – a carico. L'iniziale sorpresa va scemando nell'epilogo, ma si ha l'impressione che come Bates Motel – che nella terza e nella quarta stagione ha sfiorato picchi lodevoli – questo Damien potrebbe fare meglio (o peggio, parlando dell'Anticristo) nei suoi snodi futuri. Rispetto al serial con la Farmiga e Highmore, inoltre, la nuova creatura di Glen Mazzarra parte meglio: senz'altro, con maggiore coerenza. (6,5)

Volete sentirvi vecchissimi? Quando sono nato io, Grease aveva già spento sedici candeline. Dandoci alla matematica, mio padre aveva tredici anni la prima volta che la commedia musicale di Randal Kleiser arrivò in sala: erano partiti in macchina, lui e mio nonno, e si era spostati dal paesello alla grande città, pur di vederlo. Perciò Grease, anche se non è cosa della mia generazione, l'ho visto e rivisto, da bambino. Ho memorizzato le prime parole in inglese, fischiettando le sue canzoni, e ho imparato ad apprezzare un genere che può irritare i più. Invece, per me, con l'attore che veste i panni del cantante, le strizzate d'occhio al teatro e le divertite contaminazioni tra generi, il musical è tra le manifestazioni più piene e affascinanti di quanto potente possa essere il cinema. Giravano da un po' voci su un remake e i nostalgici, dalla loro, borbottavano: i cult non si toccano. Però, non riduzione televisiva ma evento live in grande, il Grease andato in onda su Fox e trasmesso qualche mese dopo su Rai 4, non sembra un affronto neanche per un attimo. Anzi, fa una bella figura nell'inevitabile confronto. Rispetto alla versione cinematografica, canzoni sconosciute e nuove parentesi: soprattutto su quei comprimari, al cinema, poco approfonditi. I novelli DNCE suonano al ballo di primavera, Mario Lòpez presenta, una popstar inglese apre le danze. Il cast, rinnovato, ha volti del piccolo schermo a fantasia – Keke Palmer, Kether Donohue -, una cantante pop – Carly Rae Jepsen -, e un trio di protagonisti sorprendentemente versatili, nei ruoli più contesi. Se Julianne Hough, bambola di porcellana, è una natural born Sandy, Aaron Tveit – noto ai più per l'action Graceland, ma star di Broadway – sorpredente parecchio per estensione vocale, passo leggero, capello inamovibile. Vanessa Hudgens, ex brava ragazza di casa Disney, qui scatenatissima e ammiccante, convince particolarmente, con la sua Rizzo spregiudicata e romantica. E, sapendola sulle scene all'indomani della scomparsa del padre, tocca per una professionalità straordinaria. Il Senior Year alla Rydell di un'affiatata compagnia di amicici – bulli e pupe, auto truccate, il chiodo, le giacche rosa shocking, i capelli cotonati e l'immancabile brillantina – si apre con una Jessie J biondo platino che canta l'intro. Aggiornato ma non troppo, Grease: Live conserva dunque la sua aria retrò, ma approfitta di una necessaria rinfrescata – non nelle sonorità, immutate, né nei costumi, che tra Converse e risvolti ai jeans, sono quantomai attuali, bensì, nei volti: familiari, giovani, visti un po' qui e un po' lì. Corpi agili e voci senza sbavature, uniti in uno spettacolo a cavallo tra le generazioni, che ci stampa il sorriso sulle labbra e, nelle orecchie, il ritornello che pensavi di aver dimenticato. Perché perfino l'ultimo venuto al mondo, almeno una volta, ha visto Grease in vhs. Sennò, che infanzia hai avuto mai? Il pubblico che esulta in sala. La troupe e il set itineranti. E qualche scintilla, poi, qualche effetto speciale, per fare sfrecciare i bolidi e scamparla in un'avvincente gara su ruote. (7)

giovedì 19 maggio 2016

Recensione: Lo strano viaggio di un oggetto smarrito, di Salvatore Basile

No, io non piango. Non ci riesco più da molto tempo. Forse da qualche parte hai le mie lacrime? [...] Mi aiuti a piangere?


Titolo: Lo strano viaggio di un oggetto smarrito
Autore: Salvatore Basile
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 302
Prezzo: € 16,90
Sinossi: Il mare è agitato e le bandiere rosse sventolano sulla spiaggia. Il piccolo Michele ha corso a perdifiato per tornare presto a casa dopo la scuola, ma quando apre la porta della sua casa nella piccola stazione di Miniera di Mare, trova sua madre di fronte a una valigia aperta. Fra le mani tiene il diario segreto di Michele, un quaderno rosso con la copertina un po’ ammaccata. Con gli occhi pieni di tristezza la donna chiede a suo figlio di poter tenere quel diario. Lo ripone nella valigia, promettendo di restituirlo. Poi, sale sul treno in partenza dalla banchina. Sono passati vent’anni da allora. Michele vive ancora nella piccola casa dentro la stazione ferroviaria. Addosso, la divisa di capostazione di suo padre. Negli occhi, una tristezza assoluta, profonda e lontana. Perché sua madre non è mai più tornata. Michele vuole stare solo, con l’unica compagnia degli oggetti smarriti che vengono trovati ogni giorno nell’unico treno che passa da Miniera di Mare. Perché gli oggetti non se ne vanno, mantengono le promesse, non ti abbandonano. Finché un giorno, sullo stesso treno che aveva portato via sua madre, incastrato tra due sedili, Michele ritrova il suo diario. Non sa come sia possibile, ma Michele sente che è sua madre che l’ha lasciato lì. Per lui. E c’è solo una persona che può aiutarlo: Elena, una ragazza folle e imprevedibile come la vita, che lo spinge a salire su quel treno e ad andare a cercare la verità. E, forse, anche una cura per il suo cuore smarrito. Salvatore Basile ci regala una favola piena di magia, emozione e speranza. Una nuova voce italiana indimenticabile, che disegna un sorriso sul nostro cuore.

                                                La recensione
Quando arriva un romanzo annunciato come il caso editoriale dell'anno - un esordio conteso d'un tratto dai maggiori editori e, l'attimo dopo, già promesso ai lettori stranieri -, la curiosità c'è: orecchie tese, occhi bene aperti, una data di pubblicazione che non è mai abbastanza vicina. Lo si aspetta per scoprirne i segreti. Quando questo romanzo, però, chiacchieratissimo e pubblicizzato, sembra parlare di te, accanto alla curiosità c'è, inevitabile, il magone, e non ha proprio intenzione di abbandonarti. Lo strano viaggio di un oggetto smarrito, infatti, ha un protagonista con il mio stesso nome e un dolore, in fondo, simile. Ogni famiglia infelice fa eccezione, sì, ma durante la lettura un Michele parlava all'altro a cuore aperto. E in quel soliloquio, poi improvvisamente apertosi al dialogo, in comune c'erano la tristezza dei sabato sera, i treni in partenza, la paura di non crescere più o, al contrario, di crescere troppo in fretta. Le cene consumate in silenzio, in compagnia del vuoto, e con i piatti pieni pieni di cenere: quando ti tolgono il paradiso, come direbbe il saggio Erastos, l'innocenza va via di corsa e le portate principali mancano di sale. O, nel caso di questo Michele qui, orfano e capostazione, sanno di lacrime rubate e stracciatella bruciacchiata. In comune, prese le debite misure, restano quindi il giorno dell'onomastico, un genitore uccel di bosco e, in anni di sali e scendi dall'università, la conoscenza approfondita degli arrivi e delle partenze dei treni interregionali. Forse, gli occhi di petrolio: secchi, sottili. Sua madre, andando via, ha rubato al protagonista il suo diario segreto e tutti i sogni. Michele, adesso, ha un incarico che il padre gli ha lasciato in eredità e un hobby bizzarro. Quando il treno entra in stazione e fino al mattino successivo non va da nessuna parte, lui sale a bordo, lo tira a lucido e custodisce caramente gli oggetti che i pendolari hanno lasciato lì. Nella sua casa a un passo dalla spiaggia – dove il mare si sente, ma non si vede –, il capostazione solitario consuma una cena frugale e mette in ordine i suoi preziosissimi reperti: burattino tra i burattini, giocattolo rotto in mezzo a altri giocattoli rotti (e a ombrelli, romanzi, sciarpe, perfino blue jeans). Salvatore Basile, con tutta la delicatezza e la simpatia di cui è capace, tratteggia le idiosincrasie, i tic e le peculiarità di un novello Pinocchio. Un ninnolo smarrito, un pezzo di legno inanimato, che s'imbarca per trasformarsi in un bambino – e un adulto, magari – vero. Il suo, però, è un viaggio all'inverso: lui segue le tracce di una mamma che ha dato forfait senza motivo, e non il contrario, e Geppetto e la Fata Turchina, a dirla tutta, si somigliano un po'. 
Lui, dopo una vita di logorante routine, sempre avanti e dietro, sempre avanti e dietro, macinerà chilometri e, con gli occhi, divorerà paeselli da cartolina e città dell'entroterra. Accanto a lui, l'uragano Elena, che tira in ballo la sorella ogni tre per due e domanda a Michele, così, senza prima avvisare, di che colore è la sua anima. La venticinquenne, tenera e un po' matta, somiglia alla Pastorelli di Lo chiamavano Jeeg Robot, gli regala un cellulare di seconda mano e, soprattutto, davanti alle rimostranze di lui, è tormentata dal dubbio: le loro anime, le loro solitudini, faranno pendant? Lì per lì mi aspettavo qualcosa di più o, comunque, qualcosa di diverso: non chiedetemi cosa e dove. Non saprei dirvelo. Questione di gusto e di diversa sensibilità, immaginavo. Da metà in poi, però, ho imparato a farmi andare assai a genio la scrittura lieve, i dialoghi sagaci, quella struttura da apologo, da caccia al tesoro, che solo di rado si rivela un'arma a doppio taglio. La potenziale ripetitività si stempera, se ogni personaggio, ogni addetto a passare la staffetta, si fa portatore di un messaggio importante: una donna con un figlio che ha lasciato, in un tenero ulivo, l'impronta della mano; una coppia anziana che di bambini, purtroppo, non ne ha avuti; un commissario di polizia che scarica tutte le sue nevrosi sulla propria famiglia; una macchina rattoppata che non può andare da nessuna parte. 
Ma è quando ti imbatti, lungo il sentiero, nel Gatto e la Volpe o, ancora, in un bambino che cerca un orso polare impossibile e un padre fuggitivo, che Lo strano viaggio di un oggetto smarrito - con la consapevolezza che più cresci e più il taglio si fa profondo, ma altresì che la gioia è un patto con sé stessi – ti appare bello, perché toccante, organico, assurdamente familiare. La scrittura, quella di uno sceneggiatore che ha fatto il logico salto nel mondo della narrativa, è trasognata ma cinematografica, e rivela nei dialoghi realistici – le coloriture dialettali, le parole mangiucchiate – le radici di Salvatore: la nostra bella Napoli, dico, e il piccolo grande schermo. La fiaba, quella di un burattino – l'uomo della stazione, infatti, non ha che la classica divisa infeltrita, le uova a cena, un vecchio film prima di andare a dormire – che lungo il cammino per diventare reale, di carne e ossa, si scopre confidente, esploratore, parente di sangue, amante. 
Mia mamma, dopo dicembre, è tornata nella mia vita. Però qualcosa è cambiato. La vedo, se tutta va bene, una volta al mese, e ogni volta mi tocca rimetterla su un treno e vederla ripartire. Su un Freccia che è sfrecciato, una volta, un'avventura paradossale che un giorno, spero, vi racconterò per bene. Mia mamma se ne va, dopo un caffè al bar della stazione, e porta spesso con sé qualche libro dei miei. 
La prossima volta, per augurarle buon viaggio e far sì che mi senta vicino durante il tragitto, le metterò in borsa il romanzo in cui, metaforicamene, compaio nei titoli di coda. Eccomi lì.
All'altro Michele, perciò, domando: "Avrò il tuo stesso colore?"
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ligabue – Per sempre

lunedì 16 maggio 2016

I ♥ Telefilm: Crazy Ex-Girlfriend, New Girl V, Slasher


Rebecca, avvocato di grido, è affermata nel lavoro e insoddisfatta nella vita. Il tailleur di donna in carriera non le calza a pennello e, romantica cronica e sempre con la testa altrove, è davvero se stessa giusto in visioni in formato Broadway. Sprazzi musicali colorati, frizzantissimi, in cui volteggia, canta e, magari, s'innamora dei principi azzurri. Un giorno, per le strade della City, s'innamora per davvero; sapete? E' un colpo di fulmine, quello verso una vecchia fiamma del campo estivo: Josh. Un ragazzotto dagli occhi a mandorla, immaturo ma di indole gentile, che così, tanto per dire, le fa: “Se passi da West Covina, mi raccomando, vienimi a trovare.” La nostra Rebecca non sa dove sia quella città sperduta – sulle labbra, però, ha il sapore dell'happy ending – e non si limita semplicemente a passare di lì, attratta dalle parole di un Josh vago, amichevole e fidanzato con la crudele Valencia. Molla tutto e, su due piedi, ci si trasferisce. Lì, ha uno studio legale più piccolo in cui destreggiarsi, nuovi amici – la cospiratrice Paula, il neodivorziato Derryl, lo scontroso ma galante Greg – e, soprattutto, uno sprovveduto ragazzo da stalkerare. Chi è la Crazy Ex-Girlfriend che, dallo scorso autunno, sulle reti The CW, non farà forse impazzire il pubblico, ma la critica decisamente sì, e all'unanimità? La sigla, mitica e sessista, ci dice che è patetica, scriteriata, folle d'amore. Diciotto episodi, pian piano, ci dicono molto di più. Prodotto da Mark Webb, Crazy Ex-Girlfriend è una comedy dall'ugola d'oro per chi dei consueti venti minuti settimanali non si accontenta – qui sono quaranta, infatti, e non vi nascondo che all'inizio li ho patiti, poco poco – e Galavant lo sta piangendo già. Nerbo, senso e cuore del tutto, l'esordiente Rachel Bloom, fresca di Golden Globe. Da dov'è uscita l'underdog psicotica e imbarazzante che mostra che c'è bellezza nelle rotondità e grande talento in una produzione, per il resto, piccina. Ci mette la faccia, la voce – e che voce - e la penna: irresistibile padrona di casa che, a seconda degli stati d'animi, oscilla dal jazz al "puttan pop", dal gospel al free style, con inediti che – se non sapessimo le barzellette che, in fondo, raccontano – non sfigurerebbero poi troppo in radio. Nei suoi allegri deliri, tra triangoli sentimentali e casi giudiziari, sa trascinare, per fortuna, una serie di figuranti a cui, a chi più e a chi meno, si vuole il bene che serve. Sorpresa e emozionata, la Bloom aveva raccontato, sul podio, il percorso travagliato di una serie su cui aveva investito energie e speranze: nessuno la voleva e, anche adesso, in tanti, o non la vogliano, o non la conoscono. Il più grande colpo di scena, però, è stato il rinnovo. Godiamoci i disastri e i piantonamenti della cara Rebecca, quindi, finché durano. Scommettiamoci insieme. (7)

New Girl, in onda ormai da cinque stagioni, l'ho scoperto giusto qualche estate fa. Io, in crisi per la prima sessione estiva della mia vita, avevo trovato pace e tante, tantissime risate in una serie vista un po' per curiosità e un po' per ripiego. Merito, in particolare, della Deschanel, un incanto di ragazza, che avevo amato e odiato in 500 giorni insieme. La fragia che sta bene solo e soltanto a lei, gli occhi da manga, quei coinquilini imbarazzanti ma irresistibili. Da qualche stagione a questa parte, poco è cambiato. Ma, come succede anche alle migliori coppie, è subentrata la monotonia. Superato il trauma per il brusco taglio alla sigla – “hey girl, what you doing?” -, di recente avevo patito episodi troppo lievi, troppo slegati, troppo spensierati. Nulla di irreparabile, trattandosi di una comedy lieve, splegata e spensierata di per sé, ma dov'erano finiti i ragazzi e le situazioni che, sotto stress e sotto esami, sotto terra, mi avevano teso una mano? La volta scorsa, mi ero limitato a definirlo “carino”, senza entusiasmi. All'orizzonte, c'erano notizie belle e notizie brutte: la proposta di Schmidt a Cece, nel finale di stagione, e l'annuncio della gravidanza di Zooey. Lieta novella, per carità, ma con Jess in dolce attesa, e dunque lontana dalle telecamere, che New Girl ci sarebbe stato? Un New Girl che, a sorpresa, ritorna alla vecchia gioia. L'assenza della protagonista si protrae per qualche episodio di poco conto nel mezzo – e il vuoto è colmato da un'ironica e seducente Megan Fox – e ognuno dei protagonisti trova la propria strada. New Girl, nei suddetti episodi, funziona senza l'uragano Deschanel perché c'è tanto da fare. Schmidt e Cece convolano a nozze, ma hanno la madre di lei a ostacolarli; Winston, che ho sempre trovato inutile, trova finalmente la sua vocazione e s'innamora di una collega, sfoggiando assurde camicie floreali e, ogni tanto, il fichissimo gatto Ferguson; Nick, mio gemello segreto, scribacchia, prende in gestione un bar e non resiste alle grazie di una Fox bisex. Jess è Jess: frivola, colorata, impicciona. Fa da damigella e, senza troppe sorprese, si becca una freccia scoccata dal dio Cupido: ritorna un suo ex, e la scintilla non si è estinta; ma penserà ancora a Nick, che per indossare pigiami e tute tutto il giorno ha il suo indiscreto fascino? Non dico di più. Ma, quest'anno, c'è gente che si dichiara, gente che si sposa, gente presa in ostaggio – in tribunale, o su un aereo in panne – e amori che, malgrado tutto, ritornano. Una stagione finalmente più omogenea, un epilogo che emoziona i “teneroni inside” e, per imprecisa volontà della Fox, ma dobbiamo solo ringraziarla, con due episodi a settimana quand'è giunto il momento di tirare le somme. Così, all'incirca, è stato il mio ritorno di fiamma con New Girl. (7)

Nella notte di Halloween, trent'anni fa, una donna incinta e suo marito sono massacrati da uno sconosciuto mascherato, passato a chiedere dolcetto scherzetto. Prima di essere arrestato – pena, il carcere a vita -, però, il killer pratica un taglio sull'addome della vittima e da lì esce la piccola Sarah: l'unica superstite della famiglia Bennett. Anni dopo, sposata e in carriera, torna dove tutto è iniziato. E, con lei, arrivano nuovi morti. Omicidi rituali a ogni passo, per punire coloro che hanno peccato. La storia si ripete, ma le generazioni cambiano. Riusciranno le nuove a modificare il corso degli eventi e a capire chi si nasconde, questa volta, dietro la maschera del boia? Serie canadese in otto episodi, Slasher omaggia sin dal titolo il genere più divertente, ammiccante, sanguinoso. Clichè che hanno fatto storia, spauracchi consolidati, pochissima voglia di prendersi sul serio. Perché, però, risulta un piccolo disastro, nonostante un genere da prendere così com'è e, da parte mia, poche aspettative e tanta voglia di “ammazzare” il tempo? Qual è la differenza tra il mediocre Slasher e il gioiellino Scream Queens o, ancora, l'evitabile ma fresco Scream? L'assoluta mancanza di ironia. E, paradossalmente, le risate in più. Involontariamente buffo, Slasher ha una protagonista atroce – la Katie McGrath già vista in Merlin, fuori parte e dal profilo sgraziato – e scelte sceme. Ad esempio: una protagonista a cui hanno sterminato la famiglia che mette le tende sulla scena del crimine, facendo del sesso riparatore sul pavimento in cui mammà è stata sventrata; gente random che macina chilometri, con un coltello a serramanico in pancia; una nonna che, volendo esagerare, ha cinquant'anni e una nipote trentenne; la protagonista che, davanti all'irreparabile, né emigra né appare turbata. Il cast: pessimo. La sceneggiatura: sbrindellata. L'elemento splatter: accentuato, come da patti, e fedele alle premesse. L'assassino ha fantasia, il sangue scorre generosamente, e il modus operandi del villain – cacciatore di peccati capitali – ricorda quello di Seven. La struttura, tradizionale, ricalca quella del buon Harper Island, che da ragazzino seguivo in seconda serata su Rai Due, e un briciolo di curiosità spinge a porsi le domande giuste. La curiosità, e il mio inspiegabile gusto per l'orrido. Slasher, infatti, è trashissimo: perdonabile, un po', perché di quel brutto che non riesci a smettere di guardare. Il pregio: è autoconclusivo. Ma, in otto puntate, in una serie e in una comunità tanto povera di idee e d'abitanti, sono più i morti che i vivi; più gli occhi strabuzzati per l'idiozia del tutto che per lo spavento. (5)

sabato 14 maggio 2016

Recensione: Aspettando Bojangles, di Olivier Bourdeaut

Quella follia la avevo accolta a braccia aperte, poi le avevo richiuse per stringerla forte fino a restarne infuso; ma temevo che una tale dolce follia non fosse eterna. Per lei, la realtà non esisteva.

Titolo: Aspettando Bojangles
Autore: Olivier Bourdeaut
Editore: Neri Pozza
Numero di pagine: 141
Prezzo: € 15,00
Sinossi: Immaginate di essere un bambino e di avere un padre che non chiama mai vostra madre con lo stesso nome. Immaginate poi che a vostra madre quest’abitudine non dispiaccia affatto, poiché tutte le mattine, in cucina, tiene lo sguardo fisso e allegro su vostro padre, col naso dentro la tazza di latte oppure col mento tra le mani, in attesa del verdetto; e poi, felice, si volta verso lo specchio salutando la nuova Renée, o la nuova Joséphine, o la nuova Marylou... Se immaginate tutto questo, potete mettere piede nel fantastico universo familiare descritto dal bambino in queste pagine. Un universo in cui a reggere le sorti di tutto e tutti è Renée, Joséphine, Marylou… la madre. Di lei, suo marito dice che dà del tu alle stelle, ma in realtà dà del voi a tutti, a suo marito, al bambino e alla damigella di Numidia che vive nel loro appartamento, un grosso uccello strambo ed elegante che passeggia oscillando il lungo collo nero, le piume bianche e gli occhi di un rosso violento. Renée, Joséphine, Marylou, o anche, ogni 15 febbraio, Georgette, ama ballare con suo marito sempre e ovunque, di giorno e di notte, da soli e in compagnia degli amici, al suono soprattutto di Mister Bojangles di Nina Simone, una canzone gaia e triste allo stesso tempo. Per il resto del tempo si entusiasma e si estasia per ogni cosa, trovando incredibilmente divertente l’andare avanti del mondo. E non tratta il suo piccolo né da adulto né da bambino, ma come un personaggio da romanzo. Un romanzo che lei ama molto e nel quale s’immerge in ogni momento. Di una sola cosa non vuole sentire parlare: delle tristezze e degli inganni della vita; perciò ripete come un mantra ai suoi: «Quando la realtà è banale e triste, inventatemi una bella storia, voi che sapete mentire così bene». La realtà, però, è a volte molto banale e triste, così scioccamente triste che occorre più di una prodigiosa arte del mentire per continuare a gioire del mondo.

                                            La recensione
Quando la realtà è banale e triste, inventatemi una bella storia, voi che sapete mentire così bene.
Ho mangiato paella a pranzo – ma del tipo surgelato, in busta, senza poesia – e mentre scrivo ascolto il blues di Nina Simone, allegro e struggente proprio come mi assicuravano, giusto per tenerli con me un altro po', un'altra giornata. I protagonisti di un romanzo piccino, dico, e arrivato a sorpresa, che si legge in un attimo ma resta. Eccome, se resta. Al pari di quelle storie, di quelle persone, con cui ridi e scherzi, inconsapevole della commozione a tradimento. Lo dicevano le fascette, me lo assicuravano i colleghi blogger. Onestamente, però, Aspettando Bojangles non me lo aspettavo così. Dell'idea che fosse troppo surreale, poco Neri Pozza, mi ricordava – a un'impressione superficiale, almeno – La schiuma dei giorni, del compianto Boris Vian. Che mi era piaciuto, a modo suo, e ricordo ancora nel dettaglio (come scordarsela, d'altronde, una storia così azzardata?), ma non ero pronto a qualcosa di simile: non in un momento simile. Nella sensibilità di Olivier Bourdeaut, esordiente bravissimo e francesissimo, c'è qualcosa dell'estro di Gondry, eppure abbondano le suggestioni e i colori di un Jeunet: a unire il cinema dell'uno e dell'altro, la costante della deliziosa Audrey Tautou, bravissima e francesissima pure lei. Sono abbastanza duecento pagine per racchiudere una saga familiare in pillole, vera, e adorabile, e disarmante? Bourdeaut, mi pare chiaro, dev'essere magico al pari dei suoi protagonisti. Una famiglia di tre persone, che basta a se stessa così. Con il mondo contro, i pugni chiusi, il proposito di bere per dimenticare. L'amarezza va giù con le bollicine. Loro, intanto, ballano, festeggiano, vivono la vita – e l'amore – come fosse un eterno compleanno. Si danno del "voi" e, quando fioriscono i mandorli, scappano ad abbronzarsi nel loro castello in Spagna. Testimone di una tenerezza rara, paggetto di un matrimonio sui generis e figlio desiderato, il protagonista legge i diari del padre, George, per sapere come ha conosciuto la sua anima gemella. Una donna che dà a tutti del voi – anche alle stelle, anche al figlio – e che ogni giorno chiede di essere chiamata con un nome alternativo. Renée, Marylou, Joséphine, però, sono mille facce della stessa persona. Una visione in abiti da charleston che, a bordo piscina, con le piume nei capelli e un cocktail in mano, dice a George, uomo d'affari, che è tale e quale al soldato prussiano raffigurato sul suo caminetto. Ha immaginato di sposarlo, quel soldato, notte e dì. Così, dopo la festa e una fuga in macchina, conoscenti e poco più, i genitori del narratore si sposano e ballano la Simone sul sagrato. La ballerina sfacciata, però, si accende e si spegne, come una luce ad intermittenza: all'interno, è rotta. 
La mamma, quindi, da regina della casa, diventa regina dei dementi, in un istituto per arginare il danno. La si chiude in soffitta, nelle sue giornate no, per evitare che faccia male a se stessa e ai propri cari. C'è cura per la donna che ha cento nomi, ma un solo cuore malandato? C'è speranza in una fuga impossibile, sulla scia della salvezza? Ci raccontantano l'attesa del signor Bojangles, tanto simile alla chimera di Becket, le pagine di un'autobiografia tragicomica, lasciataci in eredità, e le parole di un diretto testimone: un bambino con una mamma instabile, un padre succube e un uccello esotico per migliore amico. I suoi genitori lo lasciano restare sveglio fino a tardi. Permettano che faccia un tiro con la sigaretta, perché adora fare gli anelli con il fumo e deve esercitarsi, per farne di perfetti. Beve qualche drink di straforo e sa, nelle stanze da letto, cosa fanno gli ospiti con le ospiti. Lo ritirano da scuola; i maestri giudicano e non capiscono. Gli fanno vivere una vacanza che perdura, su di giri. Dandosi alla pazza gioia. Un pessimo modello per qualcuno, ma sono innamorati ribelli che si sono trasformati in genitori – e amici, soprattutto – che fanno invidia. E non per i party che non finiscono, ma perché tra separazioni e lotte per l'affidamento, la lontananza da casa e  altri mali delle famiglie contemporanee, tutti e tre ci insegnano che è possibile e doveroso amarsi come la prima volta. Cercarsi, anche nel momento del bisogno. 
E se il bisogno non passa più? Se il momento si estende per un'intera esistenza? Allora ci si trasferisce lì: chiaro. Si fanno i bagagli e la follia, in coppia, è un fardello tollerabile. Com'è che si dice? Mal comune, mezzo gaudio. Aspettando Bojangles è irresistibile, lunatico, e non c'è trucco e non c'è rimedio. Leggerlo, però, sarà la vostra migliore pazza idea; la cura. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nina Simone – Mr. Bojangles

giovedì 12 maggio 2016

Mr. Ciak: Ave,Cesare!, La corrispondenza, Single ma non troppo, The Invitation, Kill your friends

Mai andati molto a genio i Coen. Fintamente leggeri, sofisticati, freddi nel loro buon gusto e in una perfezione formale che, ancora una volta, è innegabile. Semplicemente, mi ripeto, avrò visto i più sbagliati tra i loro film. Dopo A proposito di Davis, di cui avevo molto apprezzato gli sciarponi sgualciti, i gatti rossi e la voce di uno splendido Isaac, è questo Ave, Cesare! che guardo. E lì per lì rido, lo trovo spassoso e consapevole, ma c'è un ma non trascurabile. Ambientato negli anni Cinquanta, mi ha ricordato un capolavoro di nome Cantando sotto la pioggia e la mia recente visita, lo scorso dicembre, a Cinecittà. Quel film storico, che all'inizio definivo vecchio e basta, che all'universita mi aveva incantato; quel casermone dalle linee severe che, all'interno, nascondeva un'autentica fabbrica dei sogni. La loro ultima commedia, in ordine casuale, è di questo che racconta: attori che interpretano altri attori, magie. Un gioco di metacinema per soli appassionati, che ha colori sgargianti, una parata di star e una direzione da maestro. Ma, film ad episodi non dichiarato e con un debolissima cornice ad unirli tutti, presenta situazioni slegate – sequenze brillanti, omaggi nostalgici – che mancano di un filo conduttore; di nerbo. Una squadra di fuori classe e tanta eleganza, sì, ma i Coen si divertono più dello spettatore. E mollano le redini. La loro commedia, che avrà pure tutti i pregi del mondo ma i pezzi di scotch a vista d'occhio, diverte perché allo sbaraglio, essenzialmente: mentre si girano musical, western e peplum, ecco il rapimento dell'attore principale e gli sceneggiatori comunisti che reclamano sottomarini sovietici e attenzioni. La critica ufficiale, forse, lo etichetterebbe come divertissement o pastiche; uno di quegli eufemismi leziosi e ambigui, per dire che non lo ricorderai il giorno successivo ma, per carità, è d'autore, fa sorridere, e quindi i suoi meriti li ha. Meriti del comparto tecnico, grosso modo, e di una Scarlett sirena, di un Tatum marinaio e ballerino, di un Alden Ehrenreich pistolero e giullare, all'ombra dei ben più gigioni – troppo – Brolin e Clooney. (6)

Tornatore è un regista a cui voglio bene. Fino a qualche anno fa, prima che il cinema italiano, almeno, si desse a una rinnovata giovinezza, era l'unico autore di cui andavo fiero. Se ci si trova ad accogliere a braccia aperte giovani registi e si dà il benvenuto a generi che un tempo non ci appartenevano, mi addolora il passo falso di un conterraneo che ha sempre avuto cura dell'emozione. Cosa dire sulla sua ultima fatica – anche se, nel seguirlo, la fatica più grande è la nostra – che non sia già stato detto? L'insuccesso di La corrispondenza non lo comprendevo, prima di vederlo. E, ancora, non mi capacito del risultato. Un melodramma stucchevole con due protagonisti male assortiti, un'idea gettata alle ortiche e un regista che ha dato forfait. Senza mezzi giri di parole, bruttissimo. Di chi è la colpa? Una caccia al tesoro che si fa ripetitiva in fretta, un doppiaggio pessimo, una storia d'amore che risulta insana? Indipendentemente da tutto ciò, La corrispondenza parte male sin dall'incipit. Due amanti lontani per età, lui professore e lei studentessa, che si baciano come in Via col vento e si sussurrano parole gonfie di enfasi. E le parole, dopo la morte improvvisa di lui e il dolore di lei, non cessano: retoriche, zuccherose, irrazionali. Un Jeremy Irons irritantissimo, all'indomani del suo trapasso, lascia a una Olga Kurylenko in stato catatonico sms, lettere, email e case sul lago.  Il danno vero, oltre a un Morricone letargico, lo fa una scrittura che si scopre surreale, pur di non incappare nei passi del ben più godibile P.S. I Love you. Si ride dell'impiego di stuntman di lei – a cui, in una sequenza ridicola, taglia la strada un'anziana in carrozzella – e i comprimari, burattini senza fili, sono inanimati smista-posta mandati lì dal caso. Troppe le coincidenze, infinite le falle narrative: le loro età distanti, tra l'altro, rendono irreale, carico e gelido cotanto struggersi.Tornatore, ti sei perso? Tornatore, però torna. (4)

Alice, impiegata in uno studio legale, si è presa una pausa di riflessione dal suo fidanzato: vuole sperimentare. Sua sorella, Meg, ha 40 anni, nessuna relazione stabile e il desiderio improvviso di avere un bambino, da sola. Robin, strabordante e sboccata, un fidanzato non lo cerca; Alice, invece, ha creato un algoritmo per trovare quello perfetto. Il fidanzato di Alice la molla per un'altra; Meg, in attesa del fiocco rosa, conosce una tipo bizzarro ma dolce; Robin è Robin e Alice, che scrocca il wi-fi al bar sotto casa, fa mettere la testa a posto al barman dongiovanni di turno. Single ma non troppo – imbarazzante trasposizione dell'inglese How to be single – mi ha fatto compagnia in una seria infrasettimanale e, a sorpresa, si è rivelato meglio del previsto; gradevolissimo. Io, che immaginavo un Sex & The City con un rinnovo generazionale, mi sono trovato davanti, invece, una commedia corale ben recitata e piuttosto ben pensata, lunga e popolosa, ma a cui la regia del fresco Christian Ditter e la penna di Marc Silvestein, già sceneggiatore di La verità è che non gli piaci abbastanza, danno ironia, ritmo e, qui e lì, un romanticismo che non intacca il proposito iniziale: mostrare un gruppo di amiche che bastano a loro stesse. New York è bella, e più belle ancora sono Dakota Johnson e Leslie Mann, sorelle indipendenti; poi c'è la classica Rebel, volgarissima, e una superflua Alison Brie, che invece, dalla sua, non ha neanche la simpatia esagerata della Wilson. Qualche personaggio – la Brie, appunto, il vedovo facoltoso e il barista per trombamico – apparentemente non ha una collocazione precisa. Aveva senso inserirli, se una protagonista ci mette la freschezza, l'altra la maturità e la terza i doppi sensi a gogò? Direi di no, ma Alice, abbarbicata su un monte e con una copia di Wild sul comò, in un elogio ponderato alla solitudine, ci dice che qualche donna resiste ai vuoti e qualcuna si accasa, che qualche uomo cambia e qualcuno viene a patti con l'abbandono. (6,5)

Will e Eden si sono separati. Si rivedono a cena, due anni dopo la tragedia, con i rispettivi compagni e gli amici di sempre. I faccia a faccia, inevitabili; l'ingresso di nuove figure, in una compagnia altrimenti affiatata; meccanismi che scattano e di rado si inceppano, tra fascinazione, gelosie e eros. Chi è più strano fra loro, tutti gaudenti e amichevoli, e Will, al contrario, sospettoso e inaffidabile? The Invitation, invito a casa con mistero, è un thriller indipendente che in rete ha subito fatto parlare di sé. Per alcuni, addirittura, siamo al cospetto del thriller dell'anno; per chi non porta pazienta, invece, altro non è che una lunga noia. Io mi colloco tra un eccesso e l'altro. Incrocio ideale tra il nostro Perfetti sconosciuti e The Path, serie Hulu attualmente in onda, ha tutta l'aria di un dramma da camera a tinte fosche, sull'elaborazione e il perdono. L'ultima mezz'ora si rivelerà, infine, un'escalation di violenza e tensione non così prevedibile. Il giusto compromesso tra l'introspezione degli inizi e la fretta dell'epilogo. The Invitation spicca per una scrittura profonda – più nel dramma dei due genitori che nei risvolti da brivido – e una recitazione, nonostante un cast di bellocci del piccolo schermo, sopra la media. Ma come un incensato Honeymoon, curato nel romanticismo e sbrigativo se alle prese con l'omaggio allo sci-fi d'altri tempi, il thriller psicologico funziona più parlando dell'elaborazione che dei coltelli nascosti dietro la schiena. Del dolore, e di tutti i mezzi a nostra disposizione per sfuggirvi. Al lutto, e ai ricordi scomodi. Allora, c'è la rabbia silenziosa di Logan Marshall-Green, che non dimentica. Sorrisi falsi, per la seducente Tammy Blanchard, e la complicità del sempre corteggiatissimo Michiel Huisman, che in una comunità religiosa – e in un amore non del tutto disinteressato – han trovato illusoria consolazione. (7)

Steven, giovane ai vertici di una casa discografica, in anni in cui la musica vendeva, e di musica si viveva o si moriva, ha tanti potenziali nemici, troppe grane e più di qualche grattacapo. Per fortuna, Steven non ha peli sulla lingua e nessuno scrupolo. Accattivante e spietato, perennemente su di giri, avrà forse paura di sporcarsi un po' le mani per ottenere ciò che desidera? Tratto da un romanzo di John Niven e diretto con agilità dal semi-esordiente Owen Harris, Kill Your Friends è una commedia nera e a tinte splatter, con una colonna sonora preziosa, il panorama musicale anni Novanta a fare da suggestivo sfondo e, infine, un protagonista cinico e divertentissimo che regala al film le sue trovate migliori. Maestro nelle macchinazioni, shakesperiano negli umori, ha il volto di un bravissimo Nicholas Hoult, che con una prova piacevolmente sopra le righe fa dimenticare gli errori di ingenuità: un epilogo crudissimo contrapposto a un incipit canonico, ad esempio; meno eccessi di quanti ne avrei graditi; risvolti intuibili. Il prodigioso bambino di About a boy e Skins è cresciuto, ed è diventato un perticone di un metro e novanta, bello come il sole e sfacciato in modo assurdo: arrivista come pochi. Perché questo Steven, che sembra un Patrick Bateman rivisto e corretto o, ancora, il "lupo" Jordan Belfor passato dai titoli in borsa ai pentagrammi, si rivolge a tu per tu alla macchina da presa, manda giù sciacquabudella a fantasia, conosce a fondo la cocaina e le sue infinite derivazioni e, come se avesse importanza, la musica che produce nemmeno gli piace. (6,5)