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mercoledì 29 ottobre 2014

Recensioni a basso costo: La prima cosa bella, di Dante B.

Una gioia senza confini, qualcosa di così intimo e irragionevole e struggente che anche oggi ne sento la mancanza, e se potessi comprarla sotto forma di droga, la comprerei, ma dubito che funzionerebbe. È il tipo di emozione vietata ai maggiori di otto anni.

Titolo: La prima cosa bella
Autore: Dante B.
Numero di pagine: 275
Autopubblicato
Prezzo: € 0,99
Sinossi: «Esiste solo l'amore non corrisposto» questa è la convinzione di Dante Berlinghieri, 21 anni, nerd appassionato di cinema e fumetti. Tra una birra nel solito posto, un esame all'università e una sosta in fumetteria la sua vita scorre più o meno tranquilla. Ma una sera come tante, in uno dei soliti posti, arrivano anche le ragazze e da quel momento il mondo di Dante verrà completamente capovolto. Si ritroverà promosso al ruolo di regista, in un film amatoriale; innamorato perso di una ragazza che non lo considera; oggetto dell'affetto di una ragazza che lui non considera. Pronto a correre per il gran finale sullo sfondo del carnevale di Venezia.
In questa biografia fantasy, tra le scene dei suoi film preferiti, Dante scopre che nulla è come sembra. Amor ch'a nullo amato amar perdona...porco cane!
                                   La recensione
Aveva il ritmo di un caffè americano, il tempo della pagina di un fumetto che sfogli sul tuo letto, la malinconica poesia di una missione lunare che alla Luna non ci arriva, ma non importa. Perché il premio del viaggio è ciò che il viaggio ti lascia addosso. Ma che vergogna. Ho aspettato un mese di troppo per leggere questo romanzo. Arrivavano cartacei su cartacei, ingombranti e minacciosamente spessi, e mi dicevano di mettere da parte il Kidle per liberare il comodino dal peso della carta. Arrivavano libri brutti o, peggio ancora, libri scialbi e ho lasciato La prima cosa bella alla fine del tunnel, come consolazione. Una zolletta di zucchero; un seguire la luce. Non ci giro intorno: sapevo che mi sarebbe piaciuto, e non mi ha deluso: come volevasi dimostrare. Lo testimonia il fatto che stia scrivendo i miei pensieri durante la lezione di Storia Moderna, ché mi annoio e un angolo per Dante dovevo pure trovarlo. Nel posto accanto al mio. Ho lasciato il Montgomery sulla sedia, se magari lui arriva sul tardi, con il naso perso in un libro di filosofia su Star Wars, consigliato da Steven Spielberg in persona. A breve, me lo ritroverò in libreria, sullo scaffale della bella narrativa per ragazzi. Perché a volte le cose belle succedono alle persone belle e il romanzo, rilasciato in ebook il mese scorso su Amazon, autopubblicato, è stato adocchiato in tempi record da un grande editore dall'identità misteriosa. Non so dirvi chi sia. Bianca, poi però me lo dici, se puoi. Bianca chi, comunque? Ma la Bianca Marconero di Albion, l'urban fantasy con cui ho inaugurato un'ottima, ricca annata di letture. Io ci parlo con Bianca, di tutto. Sa gli esami che ho dato tanto quanto mia mamma, e che per me è meglio una Sasha Gray oggi che una gallina domani, ma che anche Taylor Swift è una valida sostituta: cose nostre. Questo nuovo romanzo però è un po' una sceneggiatura, un po' una biografia, quindi il nome in cima è quello del protagonista assoluto. L'autore di uno Zibaldone a fumetti coloratissimi. Io – cosa detta per Città di carta, con Quentin – sono molto Dante Berlinghieri. E non perché riteniamo Kubrick sopravvalutato, perché non siamo particolarmente aitanti (lui con i ricci indomati, io col mio metro e settantadue che guadagna centimetri in più quando al comune c'è una signora particolarmente gentile), ma perché ci prenderemmo a schiaffi in faccia da soli. Per le cose che non diciamo. Per quelle che diciamo nel modo sbagliato. Per quelle che comprendiamo quando sono davanti a noi: scritte, fissate, messe in fila su un rigo. Basta coi protagonisti liceali: voglio i fuoricorso. Basta coi protagonisti fighissimi: voglio i Daniel Radcliffe dagli occhi pesti, a cui – apparentemente – è morto il parrucchiere. 
Mi è stato simpatico a pelle. Come quando vengo a sapere che un attore tanto famoso e corteggiato è più basso di me, tipo. O come quando quel tizio odioso legge un libro che ho amato, quindi potremmo pure diventare quasi amici. Io sono un nerd per finta, e Dante mi smaschererebbe in pubblica piazza. Non corrego i congiuntivi, ma guai se mi dicono boiate sui film. Ai fumetti preferisco notoriamente i romanzi, alle produzioni Marvel quelle indipendenti; e non ho un gruppo con cui sto in fissa. Niente magliette di band preferite, niente poster, in una stanza che mentre io crescevo è rimasta piccola, infantile. Ho la barba, ma non sono hypster. Mi piacciono i felponi in cui dentro ci ballo, ma anche i papillon. Io sono io. Con Dante a raccontare manca il momento destinato alla riflessione, quella frase giusta, d'effetto, inserita al momento giusto. Una morale, come quella scritta all'ultimo rigo delle favole più felici. E perché? Perché il libro lo scrive Dante B., mica Bianca. Bianca saprebbe cosa fare, ché sai quanta gavetta ha fatto, ma Dante no. E' confuso, è eccitato, ha tutta la vita davanti: quindi che ne sa che quella cosa precisa – “la prima cosa bella” – è il fulcro del suo capolavoro? Mi ha ricordato il protagonista, a tratti, di quel gioiellino del piccolo schermo che è Please like me, solo amante delle donne. Quelle sbagliate, e ti pareva. Le fate impossibili da catturare in un retino. Come Fiamma, che quando lo guarda gli brucia cuore e neuroni. 
Ma poi ci sono quelle giuste, che scopri meravigliose soltanto a una terza o a una centesima occhiata. Dopo un caffè, dopo il sesso: dopo che hai visto gli occhi sconfinati che hanno attraverso la videocamera. Isa, che è intelligente, anche se tiene bene a nasconderlo, sotto i suoi riccioli da Barbie in carne rosa, tette turgide, ossa sporgenti. Beatrice, che ha il naso aguzzo e i tratti duri, ma il passo miracolosamente coordinato al tuo. Dante sparpaglia i loro nomi e - come il rubacuori che non è, anche se Britney Spears dissentirebbe con tanto di vibrato levigato dall'auto-tune - perso tra gonne corte, gambe lunghe, film mentali che oscillano dal sexy all'horror anni '60, avrà paura di tradirle a una a una. Di deluderle. Di sceglierle. Dante Berlinghieri ha due piedi in tre scarpe: possessore di uno sguardo speciale, attento, originale che fa di ogni baruffa, bevuta, figuraccia e botta di culo a caso, un momento imbarazzante da vivere, ma spettacolare da leggere. O da guardare. Una semplicità che non è sinonimo di prosa elementare: il segreto. Sembra che quella cosa lì possano farla tutti, anche se non è vero. Difficilissimo procedere così, scoprisi man mano, sapendo dove andare ma non cosa c'è in mezzo, nello spazio bianco tra il principio e la fine. Lo si vive, quel bianco. L'ispirazione non è importante: la si trova ovunque – sul fondo dell'ultimo caffè bevuto a scrocco, in fumetteria, con vagonate di amici troppo assurdi per finire in un libro serio ma che, scemi e tutto, non possono non esserci nella storia della nostra vita o dei nostri primi vent'anni. La prima cosa bella regala sorrisi garbati, non grasse risate. Il sorriso di sì, quella cosa l'ho fatta anch'io: vomitare l'anima, sperimentare la poesia dell'amore impossibile, guidare senza meta. Rifiuta i Lol e simili. Gli XD. E' una storia d'amore guidata dalle voci, non dai fatti. Una linea retta, rassicurante e confortevole, lungo cui ti spingi, senza paura di trovarti un burrone senza fondo davanti. Un Big Bang Theory per laureandi in lettere malati di cinema: complimento, anche se Big Bang Theory non mi mi piace. Il paragone, calzante sì e no, lo faccio per convincere chi la sit-com americana la segue e ha bisogno di essere convinto all'acquisto di questo romanzo qui. Se - ovvio - ancora ci fosse bisogno di una persuasione che a me, francamente, appare del tutto superflua. Cita Orazio, e si chiude in un aeroporto affollato che io e Love Actually amiamo e sappiamo noi bene il perché. Il finale rimandato alla prossima puntata: una finistrella dopo i titoli di coda, come in Tutto può cambiare. Anche se ha il destino del Sommo Poeta nel nome, Dante infatti pensa attraverso i film, come faccio io. La vita, certe volte, è un drammone disperato, altre una commedia con sorrisi e Julie Roberts incorporate, altre un musical che ti fa ballare I will survive nelle corsie del discount. Dopotutto, ci rivela, il domani non è che un altro film. E lui lo suggerisce meglio di quei Dear Jack di Maria De Filippi. Concediamoglielo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mika – Kick Ass (We are young)

lunedì 27 ottobre 2014

Mr Ciak #47: Hai impegni per Halloween? - Parte II


Poteva Annabelle, la simpatica e terrificante comparsa dell'ottimo The Conjuring, non meritarsi un film tutto suo – con quel sorrisino vispo e quelle belle guanciotte rosse rosse? Un anno esatto, ed è arrivata al cinema. Sotto Halloween. Le premesse: pessime. Un modo come un altro per far soldi, con un reboot annunciato come inutile e arrangiato. Invece, preparato al peggio, ho scoperto in Annabelle un gioiellino, tecnicamente parlando. I colori pastello, le tracce audio che si impennano e fanno sussultare, la macchina da presa come un imprevedibile terzo incomodo, un'ambientazione vintage che è il suo vero asso nella manica. Così agghindato a festa, riesce a sembrare con classe un horror demodè, pieno di spifferi e eleganza. Orfano della presenza del prodigioso James Wan, trova un importante sostituto in John R. Leonetti: che ha avuto a che fare con l'autore di Insidious & Co si nota anche al buio. Quei movimenti di macchina, quella vita di freschi sposini, quel gusto frizzante di giocare col cliché senza usurarlo. La storia avvince e diverte, pur non essendo neanche alla lontana originale. Annabelle è la “sposa cadavere” della Bambola Assassina con la mamma di Rosemary's Baby, ma i diavoli e le ombre libere, le scale a chiocciola e gli ascensori che si aprono ai piani sbagliati sono di colui che il giocattolo demoniaco ce lo mostrò per primo. Protagonista quasi assoluta, l'adorabile e poco nota Annabelle Wallis (cavolo, si chiama così pure lei!) - elegante come la Watts, bella come la Pfeiffer prima della chirurgia. Lieve e scorrevole, classico e fatto bene, piacerà a chi saprà cogliere e apprezzare le citazioni buttate qui e lì e a chi, ad occhio, distinguerà l'omaggio dal fac-simile. Anche per copiare ci vuole talento, e qui qualcuno ne ha parecchio. (6,5)

Caroline sente di avere una colpa da scontare. Troppo candida per darsi alla medicina, in un mondo che la vorrebbe più cinica, trova lavoro presso la casa dei Deveroux. Due coniugi che, soli, vivono nel mezzo di una palude, in una New Oreans che crede ai fantasmi, ai sortilegi, alla magia nera. Lui, bloccato su una sedia a rotelle da un ictus, ha rari momenti di lucidità. La moglie, arcigna e severa, stenta ad accettare un'estranea in casa, un po' per posizione presa, un po' perché – nel suo cuore d'acciaio – ha paura di dire addio all'amore della sua vita. Ma c'è qualcosa di strano e quella casa senza specchi, che vive in un passato in bianco e nero e si anima di scricchiolii, nasconde un lugubre segreto. The Skeleton Key, pellicola di un decennio fa, è un film che, a discapito delle aspettative, resiste coraggioso alla prova del tempo. In un ambiente in cui si riciclano idee, in cui gli horror sono da vedere e cestinare, il film di Softley sa farsi ricordare. Lo vidi, nel 2005; l'ho rivisto adesso. Sapete che lo ricordavo? Questa volta, complice un amore per la suggestiva America del Sud accresciuto di libro in libro, l'ho apprezzato perfino di più. Snobbato, liquidato con sufficienze ingenerose, per me ha atmosfere e temi che lo rendono una piccola, preziosa gemma gotica. Fa il suo, certo, uno dei twist finali tra i più validi e meno noti di sempre. L'epilogo, scorretto e imprevisto, resta impresso. Così è stato con me che, nonostante tutto, ho potuto guardare il film da un'ottica diversa, godendomi quelle punte perfette di ironia tragica, gli indizi e i doppi sensi, i giochi non più imperscrutabili degli spettri. La colonna sonora, immancabilmente blues, dà alla testa. E poi c'è una magistrale Gena Rowlands che, a un anno dal romantico The Notebook, con autoironici richiami intertestuali, torna a parlare di amori che non muiono e anime gemelle, ma con il fare di “mamma chioccia” (e carceriera) della Misery di Stephen King. Accanto a lei, una Kate Hudson giovane, bella e convincente, che si lascia andare alla superstizione, mentre la tensione e la paura crescono. Perché è quando hai paura che cominci a credere. Un film cinico, sinistro e inquietante, dall'impianto classico e dai risvolti originali, che ricerche meticolose in un panorama fertile di miti, mostri e leggende e la fascinosa fotografia di una magica New Orleans che perdura rendono assolutamente intrigante a una prima visione; irragionevolmente irresistibile alla seconda, alla terza, alla... (8)

Di solito, i film italiani li evitate. Soprattutto se sono horror. Invece questo Neverlake, dopo averlo intravisto sul web, l'ho recuperandolo sapendolo pensato, girato e prodotto da noi. Non è patriottismo. E' fiducia. Il film di Riccardo Paoletti, girato in inglese e distribuito all'estero, ha un cast di interpreti stranieri e una trama semplice che ruota attorno all'esistenza di un lago etrusco, nelle campagne sperdute di Arezzo. Riti, credenze, superstizione. Quello che un'adolescente americana, dopo la morte della nonna, si trova a dover combattere, nel momento in cui la convivenza con un padre che non conosce e la sua nuova compagna è stata l'unica soluzione. Tranquilla e amante della poesia, la protagonista conoscerà sulle sponde di quel lago che – a volte – si anima, quand'è notte, una banda di bambini sfortunati e malaticci che la vogliono come amica. Chi sono, e perché vivono da soli in quello che ha l'aria di essere un orfanotrofio abbandonato? Cosa nasconde Peter, un misterioso coetaneo che non potrà mai amare? Neverlake, un po' horror, un po' urban fantasy, è un prodotto modesto e dignitoso, con difetti numerosi concentrati quasi tutti nella prima parte. Dialoghi forzati e sottolineati da un doppiaggio da réclame televisiva, una mancata relazione amorosa che fa parecchio il verso a Twilight, un mistero che all'inizio non prende. Accanto alle falle e alle sbavature, però, c'è un finale a sorpresa interessantissimo, con schizzi di sangue e di soprannaturale, che ha magia, emozione, elementi gore. Cosette che mi sono piaciute, insomma. Non fa paura, lo si guarda con occhi generosi perché con poco ha saputo fare abbastanza, ma l'intento dell'esordiente Riccardo Paoletti è lodevole. Nebbiosa la fotografia, originale il tema, tangibile l'impegno. Un po' di cura aggiunta, la prossima volta, è il voto complessivo sarà meritato ancora di più. (6)

A me il musical piace un casino. Ma c'è, per ragioni risapute, anche chi lo detesta. Gente che canta senza un perché, canzoni che vanno a sostituire i dialoghi, una domanda che vedo sbandierata ovunque: perché cantano continuamente? Io, per le rime, risponderei: è un musical, e tu perché lo guardi? Okay, però: questa è un'altra storia. Fatto sta che questo Stage Fright, teen horror sui generis fresco e originalissimo nelle premesse, potrebbe mettere d'accordo sia chi il genere lo apprezza, sia chi il genere non lo regge granchè. Uccisioni, sangue sparso, siparietti musicali, musical un po' Disney contro rock roboante e crudissimo: ecco come si fa la pace. Anche se non ai livelli di Repo – The Genetic Opera, irripetibile e geniale, il film propone un mix innovativo: lo splatter che arriva sulla punta di un coltellaccio in un campus musicale. Si canta in rima, e tanto, e come nell'opera lirica si muore pronunciando, nel momento estremo, note su note. Lo si fa, però, con tanta autoironia e con pezzi scritti dal nulla per l'occasione - dissacranti, disgustosamente orecchiabili e allegri, cinici nelle viscere. La trama prende e non, il finale te lo aspetti da metà in poi, ma la simpatia del progetto si fa apprezzare. E si fa cantare. Il film che fa a pezzi Camp Rock e High School Musical e che trasforma l'odio dei detrattori in una specie di ammissione di colpa. Il musical è bello, perché trasforma uno scialbo filmetto di genere in qualcosa di più personale e curato. Divertito, canterino, truculento. Un taglio da cui sgorga un talento che prende in giro sé stesso. (6)

Una famiglia americana in vacanza in Francia viene sterminata. Accusato dell'omicidio, in una notte di luna piena, un boscaiolo del posto. Un'avvocatessa investigherà, in un'indagine tra malattia mentale, cannibalismo e licantropia. Ci sono interessi in ballo: che la Polizia parigina voglia mandare dietro le sbarre un innocente? Wer, diminutivo del sostantivo “werewolf”, è un horror discreto. Nonostante il nome del regista sia collegato all'orrido L'altra faccia del diavolo, l'autore dell'altrettanto dimenticabile Stay Alive è un tipetto che ama l'horror e, soprattutto, il suo mestiere. E' uno che si impegna come può. Al giorno d'oggi, impossibile trovare un horror originale; raro trovarne uno fatto con un pelino – perdonate il gioco di parole – di buon gusto. Wer è un aggiornamento della storia dell'Uomo lupo. The Wolfman nella campagna francese, all'era del found fotage. Ignorantissimo, ho pensato di trovarmi davanti alle stesse scene traballanti di un Rec; invece la pellicola di Bell si aggrappa alle telecamere dei commissariati, alle immagini trasmesse dai telegiornali internazionali, ai cellulari e all'irrinunciabile, vecchia macchina da presa. Scorrevole e pulito, strizza poco l'occhio alla moda del “più traballi e più spaventi”, come la chiamo io, e gioca con il dramma giudiziario, con il fantastico, con la leggenda. Con uno stile che non dà il mal di mare e un input dei più semplici e accattivanti, Wer intrattiene e diverte pure, con il sangue nelle dosi giuste, l'azione, il trucco artigianale. Naturale la recitazione richiesta al modesto cast, in cui spiccano volti del piccolo schermo: A.J Cook, Vik Sahavy (il mitologico Lester di Chuck), il francese Sebastian Roché. Un film su un abominevole uomo lupo non particolarmente abominevole. (5,5)

Durante le vacanze, una giovane studentessa rimane nel suo campus universitario. Ha in mente una seratina tranquilla, televisione e nanna. Questo finché, completamente sola, non si scopre braccata, tra le aule, le stanze e i corridoi, da una setta che miete vittime tra le più giovani. Le ragazze come lei – quelle belle, fortunate, intelligenti – non sono al sicuro. Fronteggiarli o lasciarsi andare a un destino di morte? Kristy, diretto dal regista del controverso Donkey Punch, è una caccia all'uomo (o alla donna) che dura pochissimo e non si farà troppo ricordare, ma malaccio non è. Lineare nella struttura, prevede – come da copione – i carnefici diventare, a mano a mano, vittime di una paura che si scopre, per Justine, istinto di sopravvivenza. Manca la cattiveria, quella che fa danni, e il finale è troppo frettoloso, senza un testa a testa, un confronto tra loro: le bellissime Haley Bennett (Scrivimi una canzone) e Ashley Greene (Twilight). La prima, invantevole e anche notevolmente brava, con qualcosina della collega Jennifer Lawrence, è la donzella in pericolo. L'altra, altrettanto avvenente ma talentuosa molto meno, convince poco nei panni di un'assassina tutta piercing e ispirazione punk. I maschi sono di contorno, ma è il conflitto tra le due, purtroppo, a mancare. Finisce in un filo di fumo e via. Un'erede delle scream queen di una volta, la tensione che c'è anche se tutto è assai prevedibile, una fotografia curatissima e la Weinstein, sicurezza, a produrre. Un thriller tollerabile anche dai più deboli di stomaco. You're the next e Stangers in versione matricole, con il pop nelle cuffie. (5,5)

James Franco e Kate Hudson sono una bella coppia, ma con una brutta casa, una brutta macchina, una brutta situazione finanziaria. Arrivati a Londra, dopo la mancata nascita di un figlio e il fallimento dell'impresa di lui, si arrangiano come possono: lui è un architetto che fa l'imbianchino, lei è maestra elementare, e il piccolo appartamento che hanno dato in affito, per racimolare qualcosa, viene occupato da un mezzo criminale che, tirata la quoia per overdose, lascia un mare di soldi e più di qualche guaio. I coniugi Wright, in quella Londra grigia e ostile, sono bravi ragazzi che, improvvisamente, avranno a che fare con gente cattiva. Due trafficanti in lotta, la polizia, i creditori. Cosa faresti per non rinunciare a duecentomila sterline sporche di sangue? Good People non brilla per originalità, no di certo, ma con alla regia un regista danese dal nome impronunciabile, autore di disparati sceneggiati e polizieschi che non hanno mai trovato un angolo presso i nostri distributori, risulta un prodotto gradevolissimo e ben confezionato. Fotografia cupa, una durata che vola, un epilogo con spruzzi di sangue, sparachiodi e trappole incorporate. I personaggi o sono completamente buoni, come il poliziotto Tom Wilkinson che prende i protagonisti sotto la sua ala protettiva, o completamente cattivi, come l'Omar Sy di Quasi Amici che gioca a fare il mafioso. Un po' banali, tanto prevedibili, ma interpretati da buoni attori che, con copioni anche stringati, risultano credibili, chi più e chi meno. Good People, thriller al tempo della crisi, è un film d'azione appassionante e nella media, comodo in scarpe e sceneggiature di seconda mano. Senza infamia e senza lode, con due protagonisti avvenenti e uniti, che si danno – per amore – alle fughe e al brivido. (6)

Un paio d'anni fa, era uscito al cinema un filmettino dell'orrore di quelli estivi estivi, che vedi e dimentichi, perché anche il sangue si lava via, alla fine. Godibile e divertente, si era rivelato un intrattenimento sufficiente. E per una volta, all'apparenza, non si voleva marciare su un forzatissimo sequel. Questo accadeva nel lontano 2006, quando io seguivo con mio fratello gli incontri di wrestling e la presenza del gigantesco Kane – due metri e tredici -, nei panni dell'assassino di turno, ci aveva convinti a guardarlo. See no evil, da noi Il collezionista di occhi, non era male. Otto anni dopo... Io non guardo più il wrestling, e figuratevi se ho ripensato ancora a quel film in particolare. Sbuca dal nulla un seguito, mio fratello chiede lo guardiamo?, io dico di sì, ritornando con la testa a un periodo in cui andavamo più d'accordo e ci divertivamo di più. Guardando questo film, è intervenuta nel bel mezzo della visione un po' di sana nostalgia. In casa nostra, non la alimentano i filmini di matrimonio, ebbene sì, ma gli horror. Possibilmente quelli trash. See no evil 2, arrivato tardi e atteso da pochissimi, è inutile come lo si immagina, ma vagamente dignitoso. Personaggi che ti auguri muoiano dal primo all'ultimo, gente che ci dà dentro negli obitori, killer che resuscitano dall'aldilà con mamme che – dalla tomba – continuano a dettare legge. Solita cosetta, ma guardabile, anche se sai già come va a finire e le uccisioni non sconvolgono. Attrici starnazzanti, super fighi che si piegano sotto il colpo delle accette, volti del piccolo schermo prestati alla classica Lionsgate. L'atleta della WWE, paradossalmente, è uno dei pochi attori convincenti. Prepariamoci all'invasione dei sequel. Jacob Goodnight come Jason e Michael Myers? Ma sì. E lo dico perché non voglio fare incazzare Kane. (4,5)

7500 è un film anonimo, anche se non inguardabile. A pesare è il nome, alla regia, di una delle potenziali grandi firme del cinema dell'orrore. Dov'è Takashi Shimizu, creatore e regista di The Grudge? Scendono i titoli di coda, dopo un'ora e diciassette, e spunta il suo nome. In 7500 di suo c'è forse solo quello. Certo, ci sono le mani bianchicce che sbucano fuori, gli spauracchi, le ombre e i fantasmi, ma la pellicola sembra il prodotto di un cineasta alle prime armi con la passione per Final Destination. Non male per un esordiente, fiacco per un regista che gli appassionati stimeranno molto. La storia è quella di una ghost story ad alta quota. Dal trenino fantasma, all'aereo degli orrori. Ma i salti dalla poltrona li creano soprattutto le turbolenze, gli effetti speciali fabbricano perlopiù nebbioline fitte e perpetue che danno tanto l'effetto del ghiaccio sintetico, il cast non resta impresso. Qualche nome noto c'è: Ryan Kwanten (True Blood), Amy Smart (Crank), Jamie Chung (Sucker Punch), Jonathan Schaech (Obsession). Compito semplice, il loro, che però convince in un finale che vira verso l'ovvio dramma. Tra Lost, Passengers e Red Eye, un film troppo veloce per pesare: quello il suo pregio. Elementi mitologici inseriti a forza, ma piacevoli. Volti noti. L'impressione di averlo già visto altrove che è per sempre. (4,5)

sabato 25 ottobre 2014

Pillole di recensioni #7: So dove sei (Kendal), Agnes (Stamm)


Titolo: So dove sei
Autrice: Claire Kendal
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 325
Prezzo: € 16,40
Il mio voto: ★★★
La recensione: Dall'altra parte della strada, nascosto in un angolo, negli incubi. Come riuscirsi a liberare di un pensiero fisso, di un'ombra che non va via, di un amore possessivo che ignora il suono di un inequivocabile no? So dove sei è un thriller che tratta di stalking. Come la cronaca nera, come il nuovo serial di Kevin Williamson, come quel grande libro che fu Nell'angolo più buio. L'esordio dell'inglese Claire Kendal parla di un qualcosa di così diffuso e abusato da risultare, all'apparenza, poco originale. Ma il romanzo, narrato sia in prima persona che in terza, sia diario che narrazione ordinaria, è la storia personale di una vittima, e ogni vittima ha una sua verità da comunicare, un messaggio da lanciare, giustizia da reclamare. L'autrice lascia parlare la sua Clarissa a briglie sciolte. Scortese togliere la parola a un personaggio di finzione che potrebbe essere attorno a noi, in cerca di un aiuto. O di un volto conosciuto, al prossimo incrocio, a consolidare le sue ansie persistenti. Clarissa è finita a letto con Rafe, un collega, e si sono fatte troppo piccole l'università, il quartiere, l'intera città: l'uomo l'ha intrappolata con le sue manie in altre manie. Di quella notte: solo i lividi e la confusione. Quello che è successo ma non doveva la porterà a rifugiarsi in un tribunale, membro della giuria nel processo di un crimine sessuale lungo e efferato, e a dare un nome a prede sbandierate per beffa in ambienti in cui non esiste sessualità senza dolore. L'autrice, maturissima, ripete il nome della sua protagonista cento volte. Come quando dici e ridici una cose, finché non ne perdi il senso profondo. Quelle reiterazioni, assillanti, rendono l'ossessione. Quel nome inconsueto, Clarissa, ricorda quello di colei che colloquiò con il male in Il silenzio degli innocenti. La caratterizzazione della protagonista, grazie a stralci di memorie dirette, è esemplare: una giovane donna con passioni d'altri tempi – il cucito, le favole, i principi azzurri – che non fa altro che inciampare negli uomini sbagliati. Rafe, il viscido aguzzino, e Robert, la nuova fiamma che le fiamme le spegne in un lavoro eroico e pericolosissimo. Ma qualcosa, nella seconda parte, non va. L'andamento discontinuo disperde l'attenzione, la parentesi giudiziaria porta a un fattore ignoto e superfluo, l'epilogo – soddisfacente, ma poco brillante – non regala sorprese. Restano una prima parte apprezzabile, uno stile riconoscibile e curato, la voglia di sviscerare l'argomento per guardare gli organi marci del mostro di turno. E vedere se ha un cuore che batte. Elementi che fanno di So dove sei un buon libro, ma un thriller che – per le troppe parole – non ti bracca.

Titolo: Agnes
Autrice: Peter Stamm
Editore: Beat
Numero di pagine: 155
Prezzo: € 9,00
Il mio voto: ★★★
La recensione: I libri che non sai inquadrare. Quelli che hanno qualcosa che non riesci a cogliere. Ingiudicabili, quasi. Introversi, ermetici, completi in minima parte. Libri come questo Agnes. Ben scritto, pieno di frasi da appuntare e rileggere, di una quiete che rilassa e conquista pian piano. La cosa più bella del romanzo dello svizzero Peter Stamm è un incipit che dice tutto e non dice niente. Inchioda, con la curiosità che cresce. Agnes è morta. L'ha uccisa un racconto. Ci sono due Agnes, in centocinquanta pagine: quella che il protagonista conosce in una giornata di pioggia in una biblioteca, a Chicago; e l'altra, quella di cui il protagonista scrive, all'inizio per scherzo, su insistenza di quella donna misteriosa e taciturna che gli è entrata prima in casa, poi nel cuore. All'inizio, verità e finzione coincidono. Il racconto del protagonista è un riassunto delle loro giornate, una sua versione di fatti realmente accaduti. Poi la Agnes del romanzo prende vita e, come gli scrittori sanno per esperienza diretta, il personaggio conduce il suo creatore davanti a svolte impreviste e dolorose, mentre la sua relazione con l'altra Agnes – la prima, la vera – giunge ad un bivio. L'amore per una donna, l'amore per la scrittura. Un racconto dedicato a una lei come fosse un ritratto: pagine per controllare la persona, così come si controlla la materia letteraria. Fino ad arrivare a rivolgersi all'amata in terza persona, a confonderla con la Agnes tra le pagine: quella che, insieme a lui, ha costruito una felicissima saga familiare, mentre nella realtà, amara, restano solo loro. Soli. In una città fredda e dispersiva. Primo romanzo che leggo dell'autore, Agnes si è rivelata una strana lettura, di cui ho idee confuse, ma non negative. Uno stile algido e asciutto, una prosa che sembra incisa nel legno, una storia d'amore, tra uno scrittore e una violoncellista che studia i misteri della matematica, destinata a finire già a pagina uno, che artiglia lo stomaco con un misto di inquietudine e sentimento. Si legge in un pomeriggio, ma ha ali pesanti. Agrodolce, decisa, tesa come una corda che aspetta la carezza dell'archetto. O il taglio netto di un paio di forbici. La felicità la si dipinge con dei punti, l'infelicità con delle linee. Se vuoi descrivere la nostra felicità, devi fare tanti piccoli punti, come Seurat. E che si tratta di felicità, lo si vedrà solo a distanza.”

mercoledì 22 ottobre 2014

Mr Ciak #46: Il giovane favoloso, White bird in a blizzard, Little Children, La nostra vita


Buongiorno, amici lettori: perdonate la mia assenza. La verità è che sono giorni, questi, in cui sto leggendo molto poco, perciò non sapevo bene di cosa parlarvi. L'occasione giusta, oggi, con un post bello denso in cui vi parlo di quattro film d'autore – immagino si possano chiamare così: oh, sto diventando troppo intellettuale, fermatemi! - che vi consiglio. In pole position, Il giovane favoloso, visto ieri al cinema, e White Bird in a blizzard, che non mi ha del tutto convinto ma che so essere molto atteso. Poi c'è Eva Green nel cast... Eva, I love you. (So che è una mia lettrice accanita, sure.) In coda, invece, due recuperi settimanali: l'italiano La nostra vita, e si torna a parlare così di Elio Germano nello stesso giorno, e lo sfortunato e notevolissimo Little Children. Questo è tutto. Vi lascio col mio pensiero e vi abbraccio. A presto. M.

Un rischio grande, un'impresa necessaria e pericolosa Il giovane favoloso. L'ho capito l'altro giorno, seduto in sala, in mezzo a un pubblico misto, partecipe, tesissimo. C'erano anziani, vecchi professori che al liceo chissà quante volte avevano spiegato quelle poesie, e giovani, quegli studenti che a volte ascoltavano e più spesso no, ma che Leopardi – a loro tempo - lo avevano letto, interiorizzato, sentito. I posti erano quasi tutti occupati. Raro, quando al cinema danno un film italiano di simile spessore; raro se non si parla di vacanze a Rio e “miti” di Zelig e Colorado passati al grande schermo. In sala quattro davano la vita di Leopardi e tutti erano andati a vederlo spontaneamente, senza imposizione. La pellicola di Martone ha pregi e difetti. Non è all'altezza della perfezione formale dei versi che il protagonista, in appassionati soliloqui, pronuncia, in una natura bellissima che lui vede come feroce Matrigna. Dal punto di vista cinematografico e stilistico, Il giovane favoloso è un film di modeste dimensioni, quasi; Martone – regista di impianto teatrale che anche questa volta non mi ha colpito come invece avrei voluto – predilige lunghi piani sequenza, dialoghi che durano interi minuti, sale ampie e sfarzose in cui i protagonisti sono collocati giusto nel mezzo, come se noi li vedessimo dal nostro loggione privato. La staticità propria degli ambienti interni, poi si anima bruscamente, con un montaggio volutamente legnoso e una macchina da presa che trema, corre, sporca lo schermo. Come Les Miserables, questa è una produzione ricca, ma la cui opulenza – per scelte registiche oneste, ma scarne – si manifesta di rado. Prevale l'umidità, una calma che opprime, il grigio: manca quel sole che dovrebbe illuminarti l'anima, in quelle due ore lì. Unica nota di colore, in un pacchetto altrimenti vagamente scolastico nei modi, una colonna sonora per me molto originale, in cui si alternano brani di musica strumentale e brani cantati, moderni, in un inglese che tanti spettatori hanno trovato fuori luogo. Personalmente, ho trovato perfetto l'inserimento di quei pezzi: mi pietrificavano; erano inquieti e struggenti. Ti contagiavano con quell'emozione in più che le immagini non sapevano liberare. Il film, diviso in due parti simmetriche, è ambientato nella prima ora a Recanati: un luogo verdeggiante e nebbioso, filtrato dagli occhi di un bambino prodigio – poi ragazzo, poi uomo – che lo odiava profondamente, percependolo come un carcere. Un padre terrificante, una mamma dimessa e poco amorevole, due fratelli minori verso cui l'affetto – alla fine - aveva trionfato sullo spirito di emulazione voluto dai dispotici genitori. L'infanzia e la salute fisica sacrificata per lo studio; per libri che ti spezzano la schiena e ti accecano, facendoti scrutare il mondo da una finestrella. Dalle sbarre. Fuori ci sono gli altri che giocano, fuori – al di là del vetro – c'è Silvia che cuce e sorride e poi muore all'improvviso. La seconda metà si svolge, invece, dieci anni dopo, tra Firenze e Napoli: avvenimenti importanti che corrono più velocemente. L'amicizia con Ranieri, la scoperta di quanto costi cara la libertà e di quanto sia infelice l'amore, le delusioni e il pessimismo cosmico, per un film che si apre con L'infinito e si chiude, poeticamente, con La ginestra e il cielo tappezzato di stelle. Nonostante la complessità dei temi e una fluidità in parte mancata, il film – colto, ma mai saccente - non annoia: ho avuto, però, l'impressione che prevalessero i punti di vista di tutti e di nessuno. Come il mondo vedeva Leopardi e come Leopardi vedeva il mondo insieme. Avrei voluto essere nella sua testa, tra pensieri che viaggiavano con furia supersonica; avrei voluto sapere se conobbe mai il sesso – perché sì, conobbe l'amore, in tutte le sue platoniche forme – e se tra lui e l'amico Ranieri ci fosse di più. Le lettere private tra i due lo lasciano intuire e nel film c'è una certa tensione. Lui era geloso di Fanny o per Fanny? Lui, in una sequenza, si sofferma per un secondo di troppo sul corpo nudo dell'amico: amicizia incondizionata o amore non detto? A colpirmi, invece, l'immagine diversa che Martone dà: un Leopardi che si faceva volere bene. Un uomo di buona compagnia, goloso e con tante manie, ma che non fu mai solo. E noi che scambiamo la sua infelicità per solitudine. Amava gli altri, amava una gioventù sconosciuta che lui ammirava con gli occhi luccicanti, amava le passeggiate e l'aria aperta in angoli di Italia catturati da una fotografia che, a volte, si scopre magnifica. Un genio che non voleva essere un peso per gli altri; un intellettuale che non turbava l'ascoltatore con idee che straziavano solo e soltanto lui. I difetti sono in una regia che si anima solo davanti a una o due scene oniriche, per me molto suggestive: cinematografiche, finalmente, anche con impiego di accettabili effetti visivi. Ma il pregio, grandissimo, ha un nome e un cognome: Elio Germano. L'Attore, con la lettera maiuscola. Si supera, si trasforma, diventa Leopardi. Piegato in due. Sempre di più. Un angolo retto, un angolo acuto. Come per raccogliere qualcosa; e cosa? Quello scampolo di vita che gli restava? Quella gioventù che gli era mancata? Espressivo e duttile, camaleontico e professionale, ci mette cuore, cervello e sangue, in una prova da applaudire forte e da premiare: la cosa più bella che c'è. Una voce sicura e roca che ti legge quelle poesie come nessuno mai te le ha lette, un volto tormentato e segnato, due occhi schizzanti all'infuori che bucano come proiettili. "Favoloso". La bellezza e l'emozione del film: concentrata attorno a lui. Uomo gracile, minuto, potentissimo, che regge una colossale produzione su di sé. Ottimo anche il resto del cast. Michele Riondino, selvaggio, bello e tenebroso, si esprime con sicurezza estrema, come a sfidarti costantemente; la francese Anna Mouglalis, femme fatale, dà fascino, irragiungibilità e cattiva malizia a Fanny Targioni Tozzetti; Isabella Ragonese, nel piccolo ruolo di Paolina, è naturale e dolcissima. Gli altri, noti interpreti di antica formazione e di pregevole forgia, non sono da meno, anche se è l'Elio Germano show, com'è giusto che sia. Un dramma biografico con pecche oggettive; un'operazione complessa e ardua, troppo legata al teatro e poco al cinema, troppo razionale e poco vivace, ma con un protagonista assurdamente in parte – equilibrato e sorprendente - che ti instilla il pianto, la malinconia, il dubbio e l'idea che la sua prova sia abbastanza solida da spalmare stucco e cemento sulle lievi crepe del resto. (7)

Un uccellino bianco in una tempesta di neve. Così, tradotto, reciterebbe il titolo dell'ultimo film del regista di Kaboom. Per dire che c'è qualcuno che si è perso e che si è mimetizzato col resto. Per dire che, a volte, le persone non possono essere trovate: verità come aghi in un pagliaio. E chi è che si è perso? Chi è la vittima nel rigido inverno dei diciassette anni di Kat, quando sua madre scompare nel nulla, senza lasciare traccia? Colei che è scomparsa; oppure l'altra, la giovane donna che può voltare pagina e cominciare da zero? White bird in a blizzard è un dramma dal titolo straordinariamente evocativo, in cui la crescita e la perdita si fanno morboso mistero. Ironico, veloce, ma tutt'altro che impalpabile, è un ritratto di due generazioni a confronto: l'autopsia di un rapporto conflittuale e viscerale tra una madre e la sua unica figlia: l'altra lei, l'anti-lei. Sono gli anni ottanta e la famiglia Connors se la cava bene. Bella casa, bel quartiere e una ragazza che sta venendo su bene, abbandonata la “ciccia” dell'infanzia e alla ricerca, ormai, della sua identità permanente. I suoi genitori non si stimano più: non parliamo, dunque, neanche lontanamente d'amore. La mamma, casalinga perfetta e disperata, cerca i segreti dell'orgasmo nei libri. Il padre, lavoratore indefesso e uomo buono, non guarda più con quegli occhi una moglie ancora splendida e sbava sui giornali porno, in cantina. Finché la donna di casa sparisce. Non dice addio. Nei due anni successivi, quella Kat che aveva scoperto il sesso e l'amicizia, la trasgressione e lo stordimento, tenterà di fare i conti con il vuoto che le ha lasciato in eredità. Ogni tanto la sogna. Nuda e infreddolita, nella bufera. Quest'anno ho scoperto due grandi attrici e vederle nello stesso film, nelle vesti di mamma e figlia, mi ha fatto effetto. Uno di quelli positivi. Dopo Colpa delle stelle, Shailene Woodley si conferma la mia personale rivelazione – e io che, convinto, la odiavo. Convinto, io, che fosse anche una brutta ragazza. E invece no: qui, nei panni di una ribelle tutta strepiti e fantasmagorica musica anni '80 sparata nelle cuffie, è sexy e smaliziata. Collante della storia e fisico da urlo, in una o due scene senza veli. Accanto a lei, la Eva Green che amo e venero da The Dreamers in poi. Un ruolo da non protagonista che sfrutta, di lei, un inedito lato adulto: algida e inquieta, altera e ferita, interpreta una quarantenne bellissima che non si arrende all'evidenza dell'invecchiamento. Con voce dura e abiti demodè, inquieta quando fissa la figlia come se le avesse rubato qualcosa: il più bello dei suoi vestiti, la vita. Due ottime protagoniste, dunque, è un ventaglio di buone controparti maschili – Cristopher Meloni, lo Shiloh Fernandez di Evil Dead, Thomas Jane - per una versione imperfetta di Lontano dal paradiso e American Beauty, ma che nelle sue piccole sbavature e nei suoi brevi flashback trova il suo ricercato, spasimato, disperato senso d'essere. Un fascinoso romanzo di formazione giallo e rosa; una ricerca che continua e continua, anche a visione ultimata. (6,5)

Come può un film come Little Children rimanere ignoto ai più per poi meritarsi – dopo tre candidature agli Oscar – un pigro passaggio in televisione, in tarda serata? Non può, eppure in Italia così capita spesso. Con i film di nicchia, con le pellicole d'autore, con gli esperimenti. Strano, perché il film del lontano 2006 non rientra in simili categorie; non è bastato ciò, eppure, per salvarlo, nel nostro Paese, dal quasi totale anonimato. Tratto da un romanzo di Tom Perrotta, grande firma dell'acclamata serie tv The Leftovers, Little Children è un dramma umano, contemporaneo e bello, affacciato sui quartieri residenziali che più affascinano i grandi autori di narrativa straniera. Parchetti curati, ville a schiera, scivoli che non cigolano, una piscina attorno a cui riunirsi nei fine settimana. Una Revolutionary Road in cui c'è chi non si è ancora arreso al divenire: chi rifiuta di acquistare un cellulare, chi è membro di attempati club del libro, chi cerca una via di fuga in romanzi proibiti. Tutti conoscono tutti, e forse quello è il guaio. Gli abitanti di quel quartiere tutto sorrisi, chiacchiere e cortesie non hanno libertà: inchiodati, a casa, dalle loro famiglie e, fuori, dagli sguardi giudicanti degli altri. I papà vanno a lavorare, le mamme spingono i loro figli sulle altalene, ma le eccezioni – pian piano – iniziano a manifestarsi. C'è una mamma che vorrebbe fare la scrittrice e che sente il peso di una bambina che piange e chiede troppo. C'è un papà che non lavora e che, vecchia gloria del liceo, rimanda a data da destinarsi un importante colloquio, perché la moglie guadagna abbastanza per entrambi e il lavoro di “mammo” gli piace, anche se non lo gratifica. Infine, c'è un pedofilo che tenta di rifarsi una vita in un quartiere in cui nessuno lo vuole: vive con la madre anziana in una casa presa di mira dai vandali e da chi ha sete di giustizia; cerca – invano – di inserirsi in una società che non lo tollera. Le loro sono vite che si incontrano e si scontrano, in luoghi pubblici in cui cercano disperatamente di trovare un posticino per loro. Tutti alla ricerca di un senso – che sia un ritorno alla giovinezza, che sia una relazione, che sia l'espiazione alle loro colpe. Il ritorno sugli stessi luoghi, i paesaggi familiari come cornici, il sesto senso che ti dice che potrebbe succedere qualcosa di straziante. Pacato e vero, invece, accende una luce sui pregiudizi e le ipocrisie grandi e piccole. Riesce nell'impresa di vivere attraverso personaggi che non vivono. Le riflessioni, disincantate e amare, non risultano né didascaliche, né superflue: il tutto, con rispetto e garbo, non cade mai nell'eccesso. Lontano dal sentimentalismo, lontano dalla fredda satira, coinvolge, tocca, un po' diverte. Il cast, eccellente, ha un Patrick Wilson carnale e maturo, una Jennifer Connelly bellissima ma messa in un angolo, e le due punte di diamante che valsero al film due nomination su tre. Che dire della solita Kate Winslet: una Madame Bovary di provincia che si scopre seducente con un costume intero rosso e il diritto a una sfera privata da reclamare forte. Naturale, impeccabile, ti scordi perfino che stia recitando. Come sempre. Non protagonista, un pazzesco Jackie Earle Haley (l'ultimo Freddie Krueger nel trascurabile remake di Nightmare), con un ruolo meschino, arduo, sofferto. Un personaggio scomodo, ma di quelli che non scordi. Comune, morbido, sensuale e forte insieme, Little Children è un film che ho recuperato tardi e che meriterebbe di più. Ha un occhio acuto, una voce personale, personaggi infuocati come fossero fili dell'alta tensione, una fotografia luminosa. Per gente insaziabile che ha fame di tutto, e quel tutto lo vuole subito. (7,5)

Dopo una perdita che sconvolge, quello che va via e quello che rimane. Una lista infinita di rovine e di caparbi, preziosi resti. Restano un lavoro che strema, la famiglia, i figli. Resta la vita, anche se a metà. In una domenica pomeriggio con un caldo fuori dalla norma, mi sono dato a un doveroso e necessario recupero cinematografico. Ho visto il film che - quattro anni fa - aveva fatto guadagnare al nostro Elio Germano la Palma d'Oro al prestigioso festival di Cannes. Vittoria meritatissima. Vedere per credere. E com'è? E' un film doloroso, trattenuto, incredibilmente spontaneo. Annichilisce. Il ritratto di una Roma coatta, luminosa e di cuore, in cui tra cantieri infestati da operai in nero, malasanità, destini infelici che permettono a una solare trentenne di morire di parto, non si dimenticano i pranzi in balcone con la famiglia in gran completo. Le discussioni in dialetto, le risate e i prestiti, le confidenze e gli abbracci. Il protagonista si ritrova a essere papà di tre figli, quando della sua anima gemella non gli rimane che un cerchiotto d'oro al dito: una fede che, giura, non toglierà mai. Lei muore, e non c'è più quella fame d'amore, i pasti salutari, le gitarelle al centro commerciale coi bambini che mettevano nel carrello cose che non potevano manco permettersi. Lei muore, e lui piange una volta. Al funerale. Nel momento in cui, sulle note di una canzone di Vasco, la più bella, esplode, con le lacrime agli occhi, con la rabbia accumulata, con la voce stonata. Si getta a capofitto nel lavoro, si indebita fino al collo, affoga e sale a galla, Claudio. Prende sotto la sua ala il figlio di un custode rumeno che ha trovato sepoltura in un cantiere incompiuto; cerca una moglie per un fratello maggiore bello come Raoul Bova, ma timidissimo; lascia i suoi bambini a destra e a manca - dal vicino spacciatore, tipo, e dalla moglie prostituta - ma passa puntualmente a riprenderli. In quel quartiere tutti sono chiassosi e un po' razzisti, ma ci si vuole bene. La nostra vita è una doppia foto. Un flash per immortalare i rischi quotidiani di un capo cantiere, un altro per beccarlo nei suoi momenti di intimità, in una casa di soli uomini che vizia e coccola, come fanno i padri quando le mamme sono via. Ma quella mamma è via sempre, e non tornerà: come reagire? come essere genitore senza la sua guida, le sue dritte, i suoi suggerimenti sui danni dei cibi fritti e delle mille schifezze precotte? Le risposte, incomplete ma senza imbrogli, in un film piccolo e grande, dalla fotografia impura e con un cast naturale in ogni sua sfaccettatura. Un Bova autoironico e intimidito da un fratello più piccolo e evidentemente più in gamba; un Luca Zingaretti istrionico e con un improbabile riporto; una Isabella Ragonese - in un breve ruolo - che sprizza vita e gioia, per poi stringerti il cuore nel suo pugno di donna. Regge il tutto un Elio Germano clamorosamente, indescrivibilmente bravo. Un personaggio taciturno, rozzo e intraprendente, che ha vita propria e parla e agisce come se la macchina da presa non ci fosse. Elio Germano è bravo, perché con lui non c'è mai finzione. Lo guardo, magrolino e basso, e mi chiedo come possa in quel corpo minuto nascondersi il nostro attore più talentuoso. Qui, in un film nudo e crudo, ma con un sorriso nonostante gli occhi gonfi. (7+)

mercoledì 15 ottobre 2014

Recensione: Black Ice, di Becca Fitzpatrick

L'amore è pericoloso. A volte mortale

Titolo: Black Ice
Autrice: Becca Fitzpatrick
Editore: Piemme
Numero di pagine: 356
Prezzo: € 16,90
Sinossi: Britt si è preparata per più di un anno a un trekking sul Teton Range. Quello a cui non era preparata, però, è scoprire che Calvin, il suo ex ragazzo e unico grande amore, si unirà a lei. Prima che Britt abbia tempo di esplorare i propri sentimenti, si scatena una terribile tormenta che la obbliga a rifugiarsi in una baita sperduta. Peccato che gli occupanti, entrambi giovani e molto affascinanti, siano anche due fuggitivi decisi a prenderla in ostaggio. Britt sa che la conoscenza dei sentieri e l'attrezzatura da trekking che ha con sé rappresentano la sua assicurazione sulla vita, e che deve solo resistere abbastanza a lungo perché Calvin la raggiunga, eppure... In una disperata corsa contro il tempo e il freddo, Britt scoprirà che sotto la neve si nascondono moltissimi segreti e che forse il suo rapitore, la cui gentilezza è decisamente seducente, non è quello che sembra.
                                   La recensione
Due protagoniste tra le più antipatiche della storia del mondo conosciuto.
Una tempesta di neve che le blocca sull'alto e pericoloso cucuzzolo della montagna. 
Una casa nel bosco che – botta di culo delle botte di culo – è il covo di due rapinatori in fuga dalla polizia. 
Una storia d'amore, forse, meno credibile ancora del giallo che Black Ice, primo e ultimo romanzo della nota Becca Fitzpatrick che leggerò in questa vita, millanta di essere. Ingredienti scadenti, e scossi con insicurezza in una di quelle sfere di cristallo in cui, con un colpo della mano, vedi cadere la neve a fiocchi belli grossi. La trama è macchinosa e inverosimile, i brividi neanche il freddo e il gelo riescono a garantirteli, la svolta thriller – prevedibilissima già a pagina cinquanta, sciolta, tra l'altro, in maniera elementare – fa un baffo ai gialli televisivi che danno sulla Rai. Questo, prima che il romanzo – nell'epilogo – passi dalla neve al caldo della California, diventando con un bacio e una palpatina di bacchetta magica una storiella tutta “sole, cuore, amore”: un raffinato passaggio, quindi, schiacciando un tasto del telecomando: un salto dalla Rai - qualcuno non aveva pagato il canone - a Mediaset. Avete presente quegli imbarazzanti filmetti danesi, tedeschi o quello che sono, in onda su Canale Cinque un po' nelle vacanze estive, un po' in quelle invernali; insomma, in periodi in cui a casa non c'è nessuno per sorbirseli per intero? Ecco. Becca Fitzpatrick, dillo che ti sei ispirata a quelli. La voce narrante, quella di Britt, è monocorde e irritante. Annoia, tanto da spingere il lettore a leggere soltanto i dialoghi, ogni tanto, per evitarsi gli sbadigli che fa nascere il resto. Una ragazzetta dal fare incomprensibile, che ha per migliore amica una tipa snob, ignorante e meschina, che tollera probabilmente solo per la casa in montagna in cui viene ospitata a scrocco durante le feste e per il fratello maggiore, Cal, con cui ha avuto una mezza storia – sfortuna per lei, finita troppo presto. Per farlo ingelosire, ecco che Britt abborda un tipo tenebroso e gnocco dal benzinaio, uno dei suoi futuri rapitori. Uno, ho detto uno: i rapitori infatti sono due, e quella furbacchiona di Britt – a distanza di venti pagine – desidererà limonarseli entrambi, perché è una ragazza generosa, lei, e ha letto che stare avvinghiati tutti nudi aiuta a riscaldarsi meglio, quando ci sono zero gradi sotto zero. Non fa una piega. 
Che la sindrome di Stoccolma (ma dove!) sia per la protagonista sinonimo di zoccol... ehm, ninfomania? Mentre fugge, mentre piange, mentre pensa che è fortunata perché poteva capitargli un aguzzino brutto e pure con la panza e l'alitosi, rievoca il suo ex ragazzo che spera, prima o poi, vada a salvarla. Si dice che lo perdonerà, se quella storia andrà a buon fine: Britt, sicuro che basti il tuo perdono? Sicuro che lui ti voglia ancora con sé? Suspance, ebbene sì. Suspance ovunque. Sottoforma di valanghe e cumuli di altissime stronzate. Ma, ehi, c'è anche un colpo di scena; un twist finale, ma non proprio, che indovini già a metà e ti porta a dire, saggiamente: ecco perché non tutti possono scrivere gialli. Meglio tentare con l'agricoltura: ossia, andare a zappare i campi. Scritto senza impegno e pensato senza cervello, Black Ice ha il quoziente intellettivo di Pretty Little Liars e le ambientazioni selvagge di L'urlo dell'odio e Misery. Un piattume evitabile, di cui si ricordano – con una risata grassa – solo i brutti nomi dei protagonisti: Calvin, Shaun, Korbie e, punta di diamante, Caz. La mia frase preferita, in 350 pagine di romanzo è stata: “Non te lo dico, Caz!”. La poesia. Una che si chiama Becca ne sa qualcosa, immagino, di nomi che ti rovinano la vita per sempre. Nel lieto fine, l'amato di Britt – e chi sceglierà mai la nostra eroina? Prossimamente, su Uomini e donne. – affermerà, romantico: “Mi è venuta un'idea geniale. Andiamo a passeggiare sulla spiaggia e parliamo di cose stupide, senza importanza”. Come se non avessero già dato voce a cose stupide e senza importanza nelle trecento pagine precedenti: il colmo. Se volete leggere un thriller dalle sfumature romantiche sul tema, vi consiglio piuttosto Fragili e Preziose. Il romanzo, troppo pudico ed edulcorato per essere allegramente trash, è un Polaretto che si scioglie e lascia una traccia appiccicosa e colorata in mano: vomito d'unicorno. Ma una spruzzata di sapone, e si scorda con facilità estrema. Di Black Ice lascerei scrivere ad Antonio Conte la fascetta promozionale. Da sotto il suo parrucchino sintetico d'opossum, griderebbe il suo mantra eterno e, ogni santa volta, perfettamente adatto: agghiacciande!
Il mio voto: ½
Il mio consiglio musicale: La sigla dei Polaretti può andare?

lunedì 13 ottobre 2014

Mr Ciak #45: Maze Runner + Hai impegni per Halloween? (Horns, Liberaci dal male, The Seasoning House, The Woman, We are what we are)

Qual è il tuo film horror preferito? Lo chiedeva l'assassino mascherato di Scream, in una delle indimentacili scene cult della tetralogia di Wes Craven. Con Halloween che si avvicina, se una notte ricevete una chiamata da quel losco individuo in nero, meglio essere preparati. In questi appuntamenti speciali della rubrica Mr Ciak, in occasione di un trentuno ottobre che si avvicina e che io passerò al solito sul divano, non vi parlerò dei miei film dell'orrore preferiti, ma di quelli che ho scoperto, visto, recuperato. Vorrei proprio stupire il serial killer, al telefono, con una risposta che non si aspetta, che dite? Questa mattina, nessun titolo della lista è propriamente da incorniciare e ricordare a vita, ma qualcosa di interessante c'è. Facciamo così, dividamo i film in due blocchi: quelli da bollino giallo, un po' per tutti, e quelli da bollino rosso, che c'è chi amerà e chi meno. Godibili e crudi il giusto, Horns, Liberaci dal male. Forti, sperimentali, audaci, The Seasoning House, The Woman, We are what we are: quando gli horror arrivano ai festival cinematografici. Leggermente off topic, il mio commento a Maze Runner – Il labirinto che, attesissimo, si è rivelato una mezza “sola”. Non è un horror, anche se ha mostri e uccisioni, ma è vietato ai minori di 14 anni, mi dicono. La visione degli altri del post, allora, è consentita giusto ai centenari, a questo punto. Ma quanto siamo bacchettoni? A presto e buon inizio di settimana, M.

Ennesima trasposizione cinematografica che giunge al cinema, quest'anno, e io per una volta ero del tutto impreparato. Non ho letto Il labirinto: avrei voluto, ma per un errore dell'ufficio stampa mi hanno mandato un romanzaccio rosa. Non ho insistito, non l'ho richiesto, non l'ho comprato. Mi interessava poco, proprio come il film che nella noia delle mie domeniche pomeriggio, però, ho visto con piacere, per riempire un'ora e mezza. Il peggior difetto di Maze Runner è che tutti ne parlano bene: è stato un successo, ha medie notevoli, perfino i nostri critici non l'hanno massacrato come loro solito. Tra le distopie arrivate al cinema di recente, questa è quella che meno mi ha colpito: guardandolo, non avrei mai puntato su un sequel, che sembra già in produzione avanzata. Non ha l'emozione di The Giver, il divertimento di Divergent, la potenza di Hunger Games: la distopia c'è e non c'è, al servizio di un filmetto d'avventura che piacerà solo ai giovanissimi. Io, ventenne, mi escludo dalla categoria, pensate un po'. Sembra originale, si crea come un'attesa che dura fino alla fine, ma l'epilogo – destinato a interrompersi sul più bello – anche se accattivante, propone situazioni già viste milioni di volte, solo sparpagliate e disperse tra nebbie e svolte pericolose. Un nì. Perché, in potenza, poteva essere qualcosa di interessante, invece colpisce per il suo scarso realismo e una freddezza che ti impedisce di amare i suoi personaggi. Adolescenti senza identità rinchiusi da anni in un'arena, in attesa della libertà: maschi, tutti, in preda a mostri ed ormoni. Poi ecco arrivare una fanciulla nel gruppo - e Kaya Scodelario, mica la tizia del Mondo di Patty - e non c'è nessun cambiamento. Un pensiero malizioso verso l'unico membro dell'altro sesso, una gelosia, un cambiamento forte nelle strategie. I personaggi, venticinquenni nella realtà, hanno i compartamenti infantili dei Bambini perduti di Peter Pan, e la cosa fa storcere il naso. Poteva essere affascinante analizzarli allo stato brado, in balia di pulsioni e scoperte, ma invece sono al centro di un esperimento il cui senso sfugge. Litigano, ogni tanto, e non vedevo simili litigi da quando, all'Isola dei Famosi, la Elia aveva preso per i capelli la Yespica! Corrono avanti e dietro, in tondo, ma non si fermano a pensare a loro stessi e a uno spettatore che meriterebbe di conoscerli di più. Le alleanze tra loro non interessano, c'è una incompletezza che si scambia involontariamente per mistero. Visivamente è notevole, ma banale anche su quel fronte. Un po' Ken Il Guerriero, un po' Resident Evil, con mostri che ricordano i ragni del Signore degli anelli. I protagonisti, quasi robotici, non creano empatia e il cast, con giovani nomi di richiamo, è assemblato in modo mediocre. La Scodelario, bravissima e di un carisma impressionante, qui ha due battute e un ruolo da poco; O'Brien – bella faccia e tutto – ha un'aria imbambolata a lungo, ma attirerà gente al cinema, nonostante la sua buona prova nell'adorabile The First Time resti sconosciuta; non ha il fisico adatto, l'espressione stupida, eppure convince il Will Poulter di Come ti spaccio la famiglia che qui – stranamente serio e scontroso – è un leader con un senso, ma senza grinta. Il twist finale non è male, ma fino alla fine ho pensato a una versione adolescenziale dei Puffi: tutti con abilità innate e utili alla comunità, tutti asessuati, tutti maschi (be', il Puffo Vanitoso non tanto!) e con una Puffetta inviata lì da Gargamella o dall'alto. Guardabile, veloce, ma senza tratti degni di nota. Una distopia tutta azione che lascia le riflessioni di carattere morale a un altro film, forse il prossimo. (5-)

La vendetta del diavolo è il più bel libro letto quest'estate. L'ho adorato. Ho aspettato con impazienza la trasposizione cinematografica con l'assoluta certezza che in Italia non sarebbe giunta mai. Tutto tace. Da noi, il nuovo film con Harry Potter, come lo chiamano, è sconosciuto. Me lo sono goduto in lingua originale, per tutta la sua durata: due ore che volano. Sorge spontanea la domanda: due ore per un film di paura? Horns non è un horror, ma un Otello in chiave moderna: un dramma della gelosia che, nella riuscita prima parte, oscilla dal grottesco alla commedia nera, con spruzzi di umorismo nocivo alla salute e un'infarinatura poliziesca. Portarlo al cinema non era semplice, ma la sceneggiatura salva le parti fondamentali, riscrivendo l'identità di alcuni personaggi e non facendo mai sfociare il tutto in un bagno di sangue. La pellicola sa difendersi. Ha un cattivo gusto di quelli paradossalmente buoni, giusta misura, ironia e vari registri stilistici. La trama si snoda tra passato e presente, infanzia e età adulta, e non si ha mai l'impressione che una cosa sottragga spazio all'altra: una cosa non sfugge, però. Joe Hill è figlio di King, per forza, perché quelle immagini di un'infanzia ribelle e spericolata ricordano immancabilmente Stand By Me. Il protagonista è cresciuto con Bowie che cantava Heroes, amici inseparabili e il grande amore della sua vita. Perde la sua donna, perde il resto, ma guadagna un paio di corna e confessioni scabrose dei suoi compaesani, che lo reputano uno sporco assassino. La prima parte, scandita da una colonna sonora superstranisce, diverte, rispecchia il romanzo. La seconda, fin troppo libera, presenta cose interessanti e cose meno. Assume su di sè “pretese thriller” che poco reggono, sarà che nel libro tutto era lampante e chiaro sin dalle prime pagine, ma è la riscrittura paziale dell'epilogo, soprattutto, a non farsi perdonare. L'immagine finale me la porto ancora addosso e il non averla ritrovata, qui, mi ha amareggiato: l'epilogo cinematografico, supportato da effetti visivi ottimi, l'ho trovato frettoloso, edulcorato e fastidiosamente diurno. Perde il fuoco e il fascino dark, la blasfema spiegazione finale, il tragico coronamento di una grande storia d'amore. La fotografia, discreta, predilige foschie, boschi, una natura piovosa: fa un po' troppo Twilight, anche se il film è cosa a parte. Racliffe mi è piaciuto parecchio. La sceneggiatura lo mette alla prova e lui, con la stessa intelligenza che lo porta a scegliere film tutti diversi e tutti particolari, accetta la sfida: mi ha sorpreso con un accento americano credibilissimo, il sorriso furbo, l'intensità di alcune scene che richiedevano sfuriate a voce alta e lacrime di rabbia. La Temple, con un ruolo piccolo e toccante, si conferma una delle attrici più promettenti delle nuove generazioni: con i capelli rossi, Juno, sei ancora più bella; lasciali così. La regia di Alexandre Aja, che stimo dai tempi di Alta tensione, non brilla come potrebbe, anche se riconosco la difficoltà di una resa perfetta. La storia, troppo articolata, non era nelle sue corde. Si poteva fare senza dubbio meglio, ma Horns male non è: l'ottimo punto di partenza, però, poteva renderlo un qualcosa di più che semplicemente discreto. Ma forse a parlare è il lettore tradito. (6+)

Non male, questo Liberaci dal male. Sicuramente meglio del mio giochetto di parole. Uscito al cinema in un periodo morto che predilige solitariamente film pieni di morte, per mettere qualche brivido sporadico allo spettatore che, nel mese di agosto, ha un caldo boia, non ha fatto parlare tanto e benissimo di sé. Ho scordato di guardarlo subito, l'ho messo in coda, non avevo grosse aspettative. Volevo guardare un film che mi divertisse e sapesse intrattenermi, ma forse ho trovato qualcosina di più. Il regista dell'ottimo Sinister, dopo il notevole The Exorcism of Emily Rose, torna a parlare di possessioni demoniache, esorcismi e presunte storie vere, per chi avesse ancora voglia di ascoltarlo. La trama non è di quelle mai mostrate, però una cosa salta all'occhio. Liberaci dal male ha una fotografia elegante, personaggi che in due ore trovano quasi vita propria, un segreto che cattura. Si vede che alla regia c'è uno bravo, che ama più l'horror d'atmosfera che la violenza gratuita. Uno che studia, mette a punto, guida. Il punto di forza del film, secondo me, è il proporti i clichè più classici in ordine sparso, in chiave diversa. Bambini che sghignazzano, giocattoli che sembrano muoversi, demoni che parlano latino, animali imbizzarriti. Lontana dalle consuete notti buie e tempestose, la pellicola ha come protagonista non una casa stregata, ma la strada. Brutti ceffi, la violenza ordinaria, i giochi di potere, un Bronx al buio. Un agente di origine italiana lavora lì, lotta con il male ogni giorno, ha smesso di credere in Dio, ma non nel suo eterno rivale. Protegge una famiglia che trascura, convive con un peso nel cuore, finchè davanti all'ennesimo atto di violenza si trova impreparato. Il soprannaturale collega quei casi che, nella stessa notte, hanno portato la volante della polizia a studiare crimini diversi: un uomo che ha picchiato a sangue la moglie, una donna che ha gettato il figlioletto nella gabbia dei leoni, un cadavere ritrovato in una cantina. La verità la conosco i reduci di guerra, braccati dal maligno, e un tenebroso prete di origine spagnola con un passato da tossicodipendente. Eric Bana, che a me convince sempre, ha un personaggio duro, monolitico, ma emotivo, che lo mette alla prova fisicamente e non solo. Accanto a lui, la bella mogliettina Olivia Munn e Edgar Ramirez, che ha il parrucchiere del nostro Marco Bocci e le sigarette di Constantine. Il film, furbo nella perdonabile maniera degli americani, evoca spiriti al suono dei The Doors e, inevitabilmente, cattura districandosi tra generi vari: non manca l'emozione, il sorrisino per qualche battuta tra compagni di ronda, un filo di tensione che si sa dov'è che andrà a sciogliersi. Liberaci dal male è un thriller dai toni soprannaturali: il gradito e accattivante incontro tra un poliziesco e i misteri della fede. (7)

Essere adolescente in Jugoslavia. Essere donna. Vivere la guerra indirettamente: col tocco dei maschi, con il loro odio e la loro sofferenza impazzita, con il loro corpo che schiaccia il tuo. A volte, si limitano – oltre al sesso – a un occhio nero. A volte, fanno vittime. Ragazze lacerate, rotte: inutili bambole in una casa del piacere. The Seasoning House è un film sulla guerra, non un film di guerra. La guerra personale di una ragazzina sordomuta che, dopo lo sterminio della sua famiglia, viene trascinata in un edificio fatiscente, insieme ad altre coetanee giovani e belle. Indifesa e innocente, la protagonista – ribattezzata Angel – viene protetta da colui che è a capo di tutto: uno sfruttatore senza scrupoli che, in un modo incomprensibile e sbagliato, quella bambina un po' la ama. Il corpo di Angel non si tocca: lei prepara le altre ragazze. Le stordisce con la droga, le trucca spalmando ombretto e rossetti con le dita. Non sente, lei, ma vede: ha occhi ovunque. Come un topolino, sgattaiola nei condotti dell'aria, si introduce tra gli intercapedini della casa, e coglie squarci di cattiveria e degrado. Finché, un giorno, quando la sua sola amica è in pericolo, si ribella, provocando le ire dei militari che faranno di lei – in fuga – una nuova missione. L'esordio alla regia del britannico Paul Hyett, nome di spicco nel mondo degli effetti speciali, è un film senza trucchi, paradossalmente: povero, scarno, nudo. La fotografia è cupa e dolente. Mentre la prima parte, claustrofobica e crudele, è ambientata all'interno, la seconda vede la protagonista fronteggiare i suoi mostri all'esterno, in boschi pieni di cadaveri carbonizzati e case inospitali. La tensione è alle stelle, certe immagini fanno prudere le mani, c'è apprensione e disprezzo. La dolcissima e espressiva Rosie Day è un animaletto braccato, protagonista di una storia di violenza carnale e vendetta degna di I spit on your grave L'ultima casa a sinistra, ma inserita in un contesto storico schifosamente vero. The Seasoning House, per le tematiche trattate, non tanto per la cruenza, è un prodotto per spettatori dai nervi d'acciaio. Una storia disgustosa al servizio di un ottimo film dell'orrore. Le schegge di pagine insanguinate di storia, la soddisfacente vendetta che solo il buon cinema sa rifilare ai colpevoli. (7,5)

Una donna che vive nei boschi, libera e incivilizzata. Un padre di famiglia che va a caccia e, alla sua famigliola, un giorno, porta una preda più appetibile e ingombrante di un cervo selvatico. Cattura quella selvaggia senza nome, infatti, e la incatena nello scantinato, sotto il giardino perfetto della sua casa perfetta. Vuole educarla, vuole addestrarla, con conseguenze inumane e imprevedibili. Gli esseri umani sono strane creature e il coraggioso Lucky McKee, basandosi su un romanzo dell'estremo Jack Ketchum, analizza in salsa horror i loro sentimenti, i meccanismi del loro raziocinio, le impalcature dei loro legami. The Woman è un film forte e disturbante, scomodo e originale, che funziona, comunque lo si voglia leggere. Metaforicamente e non. Parla di abusi e violenza domestica, di segreti luridici e sanguinanti. Ciò che colpisce non è il sangue che, copioso, scorrerà soltanto negli ultimi dieci minuti. A impressionare e ad attrarre è la cruda violenza psicologia del tutto. I coniugi Cleek e i loro figli, che hanno un modo stranissimo di guardare alla prigioniera che abita la loro cantina. Il papà, viscido, che è attratto sessualmente da quella creatura brutale e inerte; la mamma che biasima il suo sposo, ma vuole compiacerlo; il figlio che vorrebbe sfogare le pulsioni dei suoi quattordici anni su quell'ospite forzata che spia, quand'è notte; la figlia che, invece, sostiene segretamente la donna, per via di cose che nessuno sa. Chi è il buono, chi il cattivo? La risposta, evanescente, in un film grottesco e tutto spigoli, con una colonna sonora modernissima. Attenti, ché potreste farvi male. Come se non fosse abbastanza, poi, lo sguardo intenso e silenzioso della ferina Pollyanna McIntosh: lei ti inchioda. Il mito del buon selvaggio riadattato dal creatore di La ragazza della porta accanto. Robinson Crusoe e consorte, nel loro borghese e isolato lotto privato, chissà come educheranno il povero Venerdì, questa volta. (7)

Una mamma annegata in una pozzangera, due sorelle che portano il nome di un fiore e un fratello piccolo, arrivato da poco: curioso e irriverente si chiede perché ci sia un mostro nello scantinato. Gli unici mostri della storia: loro. Una famiglia cannibale che, isolata, vive in un bosco, come in Hansel e Gretel. Il fiume straripa, un giorno, e i resti che nemmeno la raccolta differenziata può smaltire – ma poi le ossa umane andranno nel secco o nell'umido? - tornano a galla. Remake di un film messicano non di mia conoscenza, questo We are what we are. Un horror movie con le caratteristiche del film indipendente e il ritmo morbido del dramma che, pur non essendo senza difetti, con il suo gusto fiabesco e la sua fotografia sgranata ma bella, mi ha stupito. La formazione di due adolescenti nate in una casa diversa dalle altre, che imparano prima l'accettazione, poi la ribellione e, infine, una parvenza sofferta di libertà. Malato e ammorbante, dopo la sciocca svolta finale propria di ogni film dell'orrore, trova il riscatto in corner. La violenza straripa nella giusta misura, il tema disgusta, ma ha qualcosa di strano e bello. Un pallore cereo e spettrale. Lo stesso che rende le brave Julia Garner e Ambyr Childers pure e inquietanti insieme. Bill Sage, nei panni del capo famiglia, l'orologiaio assassino, è ottimo. Una storia forte nel contenuto e delicata nelle forme che, col suo animalesco miscuglio di bestialità e vita alla Stoker, riflette sulle eredità, i legami di sangue... l'importanza sacrosanta di cenare a tavola tutti insieme. (6,5)