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venerdì 18 aprile 2025

Gli snobbati: Here | Diamanti | Giurato numero 2 | The Last Showgirl | Babygirl

Quando torno nella mia città, passo spesso davanti alla casa in cui siamo stati uniti. Immagino i mobili, il colore delle pareti, la famiglia che ci vive adesso. I nostri fantasmi si aggirano ancora lì, in un varco spazio-temporale. Here è perfetto per i malinconici come me, che, a colpo d'occhio, riescono a vedere passato, presente, futuro. Il tempo non esiste. Come un colibrì, vola veloce ma per rimanere sempre immobile. A trent'anni dal trionfo di Forrest Gump, Zemeckis riunisce il cast del suo capolavoro per raccontare la storia di una famiglia immortalata in un salotto – e, purtroppo, fa flop. La macchina da presa, come nelle sitcom, non si schioda da lì. A dare dinamismo c'è un montaggio alternato che, pur con qualche innegabile inceppo, segue sei linee temporali mostrando le grandi glaciazioni, la scoperta dell'America, le guerre, il Black Lives Matter, la pandemia. Come cambiano la società, l'educazione dei figli, i rapporti? Hanks e Wright fanno da perno a un magico meccanismo di cui lo spettatore stesso, infine, si scopre parte. Insieme ai protagonisti ho pianto i miei morti, le mie separazioni, i miei addii. Vero, struggente, dolcissimo, Here mi ha riconciliato coi nostri fantasmi e fatto desiderare un territorio neutrale, un porto franco, dove riguardarlo un giorno con i miei affetti sparsi. Cerco casa nelle vetrine delle agenzie immobiliari. Da qualche parte c'è. E ci siamo, ancora, noi. (8)

Dopo l'ultimo passo falso arrivato su Netflix, Ferzan Ozpetek torna in sala. Il successo di pubblico è assicurato, anche se la giuria dei David di Donatello – dove il film ha misteriosamente ricevuto soltanto poche candidature – non deve avere apprezzato quanto gli spettatori paganti. Questa volta, il regista italo-turco ha un cast di diciotto primedonne e una storia metacinematografica per omaggiare il mondo invisibile dei costumisti. Piccole e operose come formiche, le protagoniste lavorano a testa bassa per le sorelle Canova seguendo le direttive di una premiata scenografa. I personaggi sono tanti. I temi troppi (violenza sulle donne, depressione, elaborazione del lutto, empowerment femminile). Se le grandi Ranieri, Trinca e Scalera reggono la scena alla maniera delle vere dive, le altre devono sgomitare un po' – ma Cucciari e Venier, padrone come in TV, qui e lì sorprendono. Ozpetek cita Sirk, Ozon e purtroppo, immancabilmente, anche sé stesso. Come sempre, eccede in sottotrame amorose da fotoromanzo e straborda, ma fa tutto parte del suo famoso fascino: prendere o lasciare. Quest'anno prendo, sì, anche se a Diamanti avrebbe giovato la dimensione della miniserie in streaming. Melodrammatico e difettoso, appassionato e nazional-popolare, resta comunque il film più riuscito dai tempi di Mine Vaganti. (7)

La verità coincide sempre con la giustizia? A novantaquattro anni, l'inossidabile Clint Eastwood scrive e dirige un legal drama dai ritmi implacabili per portare alla luce, ancora una volta, le crepe del sistema giudiziario statunitense. Un giovane giurato, presto papà, è chiamato a esprimersi sul destino di un uomo accusato di omicidio. Peccato che conosca il colpevole: in realtà, è lui stesso. Ma ci sono giurie scisse, avvocati distratti, giudici troppo desiderosi di tirare in fretta le redini. E nella foga di giungere a un verdetto, di bollare un chiacchierato colpevole come tale, ecco l'aprirsi di una falla. La nostra giustizia, al confronto, è poi così infallibile? Classico, ambiguo, solidissimo, il sottovalutato Giurato numero 2 parte da un femminicidio per poi costruire un caso di coscienza lacerante che, a carte scoperte, si muove nei territori di Fedora Dostoevskij e, per tutto il tempo, ti fa domandare: “Al posto del protagonista”, un tormentato Nicholas Hoult schiacciato tra l'incudine e il martello, “cosa farei?” Se fosse l'ultimo Eastwood come da qualche parte ormai si mormora, sarebbe un congedo da maestro: è il suo miglior film dai fasti lontani di Gran Torino. (7,5)

Cosa succede a un'icona sexy quando le luci dei riflettori si spengono e tocca riporre i lustrini di scena? Pamela Anderson, come Demi Moore prima di lei, si mette metaforicamente a nudo con un ruolo autobiografico e scritto su misura. Ingenua, vulnerabile, sciantosa, è la ballerina di uno spettacolo di burlesque destinato a chiudere presto i battenti. Sempre pronta a difendere a spada tratta quel suo microcosmo a un passo dall'oblio, soprattutto nelle discussioni con una figlia giustamente rancorosa, ci guida in una commedia dolce-amara firmata dalla promettente nipote d'arte Gia Coppola: autentica, onesta, malinconica quanto la protagonista. La scrittura certamente non brilla, ma sa affidarsi agli occhi lucidi e ai sorrisi di scena di un'interprete che quest'anno avrebbe nominato una candidatura all'Oscar più di altre colleghe. In scena: un altro “viale del tramonto”. Anche se si ha l'impressione che a cinquantasette anni, finalmente senza make-up e senza cliché, per Pamela questo sia soltanto un nuovo inizio. (7)

Non è un thriller erotico. Non è una commedia sexy. Il terzo lungometraggio di Halina Reijn è tutto e la sconfessione di tutto. Annunciato come il film scandalo dello scorso Festival di Venezia, dove ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, non ha niente di provocante. È un bel film? Confuso, non saprei proprio dirlo. Le scene di intimità non mostrano mai i corpi nudi dei protagonisti e i giochi di ruolo tra Nicole Kidman e Harris Dickinson sono inscenati in squallide camere d'albergo piene di risatine imbarazzate - volutamente? Ma, a quasi sessant'anni, Nicole si mette ancora in gioco con un ruolo che la vuole autoironica, svestita e con sprezzo del ridicolo: gli Oscar, però, l'hanno snobbata. Fuori posto in una famiglia perfetta, non all'altezza di un ufficio in cui le è richiesto di essere l'incarnazione di una femminilità combattiva e vincente, sorprende per la sua profonda onestà in una seduta psicoanalitica a proposito della naturale scompostezza dei corpi e dei desideri. Tutti sono goffi. Gli orgasmi non sono pigolii ammiccanti, ma ruggiti spaventosi. E la perdizione morale è l'ultima frontiera per ritrovarsi, in un pamphlet interessante e pasticciato - volutamente? - che ci rivela l'umanità dietro il proibito. (6)

martedì 8 aprile 2025

Recensione: Ava Anna Ada, di Ali Millar

| Ava Anna Ada, di Ali Millar. Sur, € 19, pp. 310 |

Cosa succederebbe se Yorgos Lanthimos dirigesse Saltburn, ma in chiave saffica e apocalittica? Lei, Anna, è una influencer con una ricca rete di follower e un lussuoso faro ristrutturato per casa. L'altra, Ava, è una prostituta adolescente, all'occorrenza anche babysitter. Si incontrano in circostanze scioccanti: Anna sta prendendo a calci il cadavere del suo cane, morto di overdose. Ava la raggiunge, nel suo impermeabile giallo, e il riconoscimento è immediato: quella ragazzina è la copia sputata di Ada, la figlia della protagonista. Ma mentre Ada si è lasciata morire di anoressia, Ava ha fame di tutto. Ha inizio un ménage fatto di collezioni macabre e sadomasochismo, di morsi sul seno e spine sotto pelle, mentre la natura minaccia di prendere il sopravvento: quell'estate elettrica preannuncia realmente tsunami?

Il tempo è una cosa da caderci dentro e attraversarlo, se uno sa come si fa.

Tre personaggi femminili sui generis, tre nomi palindromi, tre maschere che si divertono ad alternarsi e confonderci in un gioco delle parti senza inibizioni né regole. Si può far rivivere chi non c'è più? Nell'esordio di Ali Millar — imperdibile per i fan della letteratura weird di Schweblin, Awad, Rouopenian — tutti, perfino il fratellino minore che fantastica di avere una cerniera per cambiare pelle, vorrebbero essere la compianta Ada. Sullo sfondo della Punta, un non-luogo sospeso tra Inghilterra e Scozia, il romanzo è inscenato in una società distopica in cui le persone sono schedate sulla base del loro Valore: l'apparenza, allora come oggi, conta più di tutto.

La prima volta che io e Leo siamo usciti dopo la nascita di Adam, mi sono resto conto che me ne stavo seduta in mezzo a un pub dondolandolo leggermente, abituata com'ero a cullarlo per farlo addormentare. Una serie di minuscole follie: è questo che significa amare con quell'intensità. Che significava.

Popoloso di donne splendide e crudeli, nonché intriso di un umorismo nerissimo, Ava Anna Ada è una psichedelia sull'elaborazione del lutto, i lati oscuri della maternità e i misteri del piacere, a cui l'autrice scozzese conferisce l'andamento liquido delle onde e una sensorialità sorprendente. Morboso, oscuro, caleidoscopico, mostra la stessa scena da prospettive diverse e fa un uso brillante della prima persona plurale. Il Noi, così, è sintomatico del legame inscindibile tra le protagoniste — dove finisce l'una, dove inizia l'altra? Ma anche il punto di vista degli Dei, a volte annoiati, altre crudeli, davanti allo spettacolo catastrofico della nostra scompostezza. Quest'anno, scommetto, non leggerete niente di simile.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga – Abracadabra