mercoledì 29 aprile 2020

Recensione: Trilogia di New York, di Paul Auster

| Trilogia di New York, di Paul Auster. Einaudi, € , pp. 314 |

Prima o poi dovevo conoscerle di persona. Le storie del prolifico Paul Auster, l’ebbrezza del viaggio in solitaria. In periodo di fermo, per di più, come rinunciare all’opportunità di un volo diretto a New York? Per l’occasione mi avrebbe fatto da guida lo scrittore americano secondo soltanto a Woody Allen nel raccontare le leggende della Grande Mela. Ma a tradimento sono stato lasciato a me stesso in una città straniera, chiamato a districarmi tra indizi fumosi e parole sibilline: lo ammetto, mai avuto grande senso dell’orientamento. Soprattutto per venire a capo di romanzi come questi: ambiziosi e ostici, dalle curiose atmosfere lynchiane, dove tutti parlano per enigmi e sembrano avere fini imperscrutabili. Nonostante ne riconosca il genio, semplicemente, il postmodernismo non fa per me. 
Trilogia di New York mi è parso un gioco di specchi funambolico e sottile, ma piuttosto fine a sé stesso. E Paul Auster un narratore magistrale, dalle capacità retoriche incontrovertibili, seppure alle prese con del materiale oscuro e fumoso. Come reagite voi davanti a storie del genere? Rispondete al richiamo dell’irrisolto con la fascinazione o con l’irritazione? Alla fine di una lettura ben più faticosa di ciò che le sue sole trecento pagine suggerivano, me lo sono chiesto e richiesto contorcendomi senza pace tra le lenzuola. Se parlano di New York come della città che non dorme, in fondo, un motivo c’è. Vittime come me dell’insonnia – e dell’ossessione, dell’ambizione e della gelosia – anche i protagonisti di questi tre racconti non riescono a chiudere occhio. Inappaganti se letti separatamente, ma connessi in maniera meno coerente del previsto, in comune hanno il tema della ricerca e qualche dettaglio: oggetti e nomi, che di volta in volta assumono però nuovi ruoli e significati.

Scrivere è un mestiere per solitari. Ti prosciuga. In un certo senso, lo scrittore non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non c’è veramente.
Nel primo racconto, bellissimo, uno scrittore di gialli riceve una telefonata: scambiato per un investigatore privato, fa luce per sfida sulle vicende della famiglia Stillman. Lo aspetta il delirio – a cavallo tra linguistica, teologia e narratologia – di un professore in cerca dell’idioma di Dio. Si rievocano il mito della torre di Babele e la gestazione del Don Quisciotte, e Paul Auster compare genialmente anche come attante.
Nel secondo, noir ambientato negli anni Quaranta, un detective è incaricato di spiare un tale dalla finestra del terzo piano. L’uomo sotto sospetto, però, non fa altro che scrivere o leggere il classico di Thoureau. Il lavoro dell’osservatore è ossessivo e solitario; gli lascia troppo tempo per stare in compagnia del peggiore degli avversari: sé stesso. Se tutti i personaggi hanno nomi di colori – Blue, White, Black, Brown –, è alto il rischio che le identità si mescolino in una tavolozza tanto confusa quanto imprevedibile.
Nel terzo, infine, un critico dalle aspirazioni frustrate è chiamato a giudicare la produzione manoscritta del migliore amico scomparso. Nel garantirgli la fama postuma, il protagonista si addentrerà a tal punto nella vita dell’altro da rubargli la moglie, il figlio, la madre. Peccato che l’intreccio si concentri soprattutto sul lavoro filologico e redazionale del critico, finendo per ricordarmi le noie della mia tesi di laurea. 

New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l’obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore.
Trilogia di New York parla di taxi gialli lanciati all’inseguimento; travestimenti ed equivoci da vaudeville; saltimbanchi, accattoni e musicisti. Con il sole e con la neve, con la luce e col buio. All’ombra transitoria di un simbolo che ormai non c’è più: le Torri Gemelle. 
È un libro sui libri. È un libro sul desiderio comune di scomparire, scivolando dietro il drappo della finzione. È tante altre cose che non ho colto fino in fondo. So dirvi cosa non è però: non un cosiddetto page turner, né una lettura d’evasione. Mi ha trovato smarrito e impreparato, e forse lo sarei stato sempre: con le vicende sospese, infatti, ho un problema. Preferisco quelle organiche e coerenti, senza vuoti da riempire. Tutte le altre mi affascinano moltissimo all’inizio, e dopo un po’ mi stancano. Qui sono andato in visibilio per Città di vetro, ho faticato con Fantasmi, sono arrivato già insofferente alla Stanza chiusa.
Nonostante tutto, resta il desiderio di riprovarci con Auster: un talento simile va scandagliato meglio alla prossima occasione. E la folle tentazione di andare a New York, quando tutto sarà finito, per cercare di  risolvere in prima persona un giallo che qui non trova risoluzione.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Frank Sinatra – Strangers In the Night

16 commenti:

  1. Quando lo lessi gli assegnai una stellina in più. Paul Auster mi piace davvero tanto, ma 4321 o Diario d'inverno sono state per me delle letture indimenticabili ☺️☺️

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Leggerò sicuramente qualcos'altro. Con questo, per ragioni di gusto personale, non è stato amore. :)

      Elimina
  2. Auster è un'autore di cui vorrei tanto leggere qualcosa, ma che mi mette un'ansia incredibile. Non saprei proprio da dove cominciare...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. L'ansia, in questo caso, è giustificata. Ma ha scritto così tanto che un titolo meno temibile, più leggero, si trova senz'altro. Mi ha consigliato Follie di Brooklyn, ad esempio. :)

      Elimina
  3. Lo voglio leggere da tanto, solo che non è mai il momento...

    RispondiElimina
  4. Ammetto che mi hanno sempre affascinata di più il titolo e questa cover in particolare che il contenuto del libro stesso.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Vero, il contenuto prima di leggerlo neanche troppo lo conoscevo: la trama mi era completamente sconosciuta!

      Elimina
  5. Unico Auster che ho letto, dopo il viaggio a New York, e comprendo la fatica. Forse troppo "blu" o noir, troppo oscure le trame, e pur trovandoci della genialità, sono avanzata a fatica.
    Da qui Auster ho paura a riaffrontarlo, ma prima o poi spero di farcela e trovare qualcosa di più adatto a me fra i suoi titoli.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Follie di Brooklyn, molto alleniano, sembra fare al caso nostro. Questo tanta, troppa confusione.

      Elimina
  6. Mi manca quest'autore, pur avendone sentito parlare e letto pareri.
    Prima o poi ci proverò :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Come primo approccio, data la mia esperienza, ti consiglierei di partire da un romanzo più adatto. :)

      Elimina
  7. Non so quando e come, ma lo leggerò.
    Lo tengo in sospeso da anni, ma prima o poi mi ci imbatterò.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Potrebbe essere più nelle tue corde che nelle mie, sai?

      Elimina
  8. Anche io non ho mai avuto un grando senso dell'orientamento. :)
    In mezzo alle atmosfere lynchiane e al postmodernismo però sì, quindi chissà, potrei anche orientarmi in questa New York City di Paul Auster...

    RispondiElimina