Richard
Linklater è un grandioso cantore di amori, vite e gioventù. Anche quando, come in questo caso, non sembra. Anche quando, distante dagli
amanti della trilogia di Prima dell’alba e dall’esistenza
in presa diretta del miracoloso Boyhood, lontano dagli
impegni, confeziona una commedia generazionale che somiglia a Tutti
vogliono qualcosa: il titolo di una canzone dei Van Halen, le
matricole di una confraternita sullo sfondo dei fortunati anni ’80
e, tra le righe e le risate, una verità universalmente valida. I
giovani e l’inquietudine; la fatica del crescere. Questo,
in un film al maschile disimpegnato e godereccio, ma spensierato
solo in apparenza, che sembra raccogliere l’eredità di La vita
è un sogno (non l’ho visto: rimedierò) e cominciare lì dove
l’avventura del giovane Mason finiva: l’arrivo al college. Uno di
quei film, forse, che piaceranno più alla critica che al pubblico:
ai fedelissimi di Linklater, senz’altro. Ci vuole sforzo, inventiva
e un pizzico di fiducia, infatti, nel prenderlo sul serio: nel
vederci altro, o almeno un po’, dietro le feste di Animal House,
gli sportivi sopra le righe di Blue Mountain State e i bagordi
di un American Pie nella macchina del tempo. Parla di feste,
feste e feste; dei tre giorni che precedono l’inizio delle lezioni;
di una promessa del baseball che, iniziato agli eccessi e all’ozio
della vita in autonomia, si rende conto, lì, di essere uno dei
tanti, e non il migliore. Spassoso e nostalgico, Tutti vogliono
qualcosa ha bei colori, belle tracce, belle facce – e, anche
talent scout, il regista punta su stelle del piccolo schermo, nemmeno le più luminose del firmamento, che non ti aspetteresti.
L’ingenuo Blake Jenner (Glee), il competitivo Tyler Hoechlin
(Teen Wolf), l’esilarante Glen Powell (Scream Queens)
e i loro soci vanno a caccia di ragazze in pista, filosofeggiano se
sfatti, vestono jeans sfrangiati e camicie sgargianti, vivono a pieno
l’euforia di una generazione lontana da loro, giovani leve, e da
noi, spettatori del nuovo millennio. Ma contagiati comunque dal
buonumore; dal senso di estati che dureranno per sempre. Brilli,
valenti, speranzosi e affiatati, per due ore che scorrono
indisturbate, tanto quanto gli studenti senza compiti per casa e
senza progetti a lungo termine del Linklater più estivo – l’uscita
a giugno, infatti, calza a pennello – su piazza. (7)
Ben,
quarantacinque anni e un peso inconcepibile sulla coscienza, ha una
moglie che lo assilla con le carte del divorzio, ricordi spiacevoli e
una straordinaria propensione al bene. Vuole rendersi utile, trovale
uno scopo, all’indomani di un lutto che l’ha spezzato, ma non
vinto. La sua missione quotidiana, improvvisamente,
somiglia a Trevor: ventenne in carrozzella, che si descrive come
“bello e fico” - la modestia vien dunque da sé -, e ha la distrofia
muscolare e una mamma preoccupatissima a troncargli la gioventù.
Molto prosaicamente – e il contratto lo specifica -, Ben dovrà
pulirgli il sedere e assisterlo, nelle sue giornate sprecate in
soggiorno, tra commenti sozzi sulle presentatrici tivù, scherzi di
dubbio gusto, litigi frequenti. Un giovane senza autonomia, un adulto
senza senso: squadra tristanzuola, ma non troppo; improbabile di
certo. In The Fundamental of Caring – Altruisti si diventa,
produzione Netflix e chiare atmosfere da Sundance, sono proprio
l’indipendenza e il perdono che si cercano, e magari sono la tappa successiva di un tenero ed esilarante viaggio on the
road all’insegna dei desideri di Trevor: fare pipì all’impiedi,
guardare il buco più profondo d’America, darsi al sesso orale con
Katy Perry. Lungo il tragitto, però, accanto a una sconclusionata
donna in dolce attesa, un’altra stellina del pop: Selena Gomez, ribelle e in
fuga da casa. Mio carissimo Trevor, farai forse lo schizzinoso? Sono
dettagli. E sono i dettagli – e i protagonisti - che contano in una
commedia su ruote che fa il verso a Quasi amici e s’ispira a
un romanzo del da noi inedito Jonathan Evison: libera, scorretta e un
filino toccante. Vento di ponente nei territori del dolore, se
seriosità e tragedie non hanno un invito formale. Sì, invece, a
scaramucce, parolacce e buoni propositi di ripiego, con l’intenso Paul Rudd e l’adorabile Craig Roberts. Il resto: soste vietate e tante stupidaggini sul pensare positivo, che dette così, da loro, suonano
assolutamente convincenti. Tant’è vero che, giunti a destinazione,
spiace scendere e fare ciao. (7)
Una
macchina sbanda, sulle colline di Hollywood, e finisce dritta dritta
nel soggiorno di un bambino un po' vispo. Alla guida, morta, una
pornostar che lui conosce dettagliatamente. La prima di tante morti
sospette, quella, legate al mondo del cinema a luci rosse: roghi
misteriosi, addetti ai lavori giustiziati e, adesso, una giovane
ribelle in fuga. Sulle sue tracce – che ruolo avrà, infatti, in
tutto ciò? - due detective privati. Uno senza licenza, l'altro con
una vispa bambina a carico. Healy è massiccio e manesco; March è
scaltro, segaligno e urla fortissimo. Agli antipodi, inizialmente,
sono l'uno il nemico dell'altro, prima di allearsi. Il loro collante,
la piccola Holly – che avrà fatto incetta di storie alla Nancy
Drew – e omicidi legati al sicario Matt Bomer e alla potente
Kim Basinger. Un chiacchierone Ryan Gosling le prende e un Russel
Crowe dalla taglia forte, forse per la parte o forse semplicemente
per la sua buona forchetta, le dà, in un buddy movie vecchio
stampo che cita i nostri Bud Spencer e Terence Hill, Starsky e
Hutch, con il desiderio di fare di questa strana coppia, magari,
un'altra storica strana coppia. Ci sarà riuscito il buon
Shane Black, legato alla serie di Arma Letale e già regista
di Kiss Kiss Bang Bang, che similmente mescolava il giallo e
la commedia al maschile? La critica ne è entusiasta, il pubblico
ride. Io, intrattenuto ad arte per due ore e divertito il giusto, ho
trovato loro perfetti, accattivante lo stile, gustosissimo
l'intreccio. Ma, come accade con i film leggeri e leggerissimi, senza
strascichi: lì per lì. Il ricordo di questi “bravi ragazzi” -
il Bello e la Bestia – non resterà con me a
lungo, e forse è svanito già. In poltrona, nel famoso lì per lì di
cui sopra, non siamo stati stretti, tra poderose pacche sulla spalla,
scazzottate, schizzi di sangue e sorrisi rilassati. Carino, molto; finché dura, almeno. (6,5)
Lee
Gates, presentatore da strapazzo, nel suo seguitissimo show
televisivo dà consigli a chi, investendo, spera di arricchirsi
all'improvviso. Imbroglione che accenna passi di ballo e grossi
sorrisi, però, di finanza e dintorni ne capisce il minimo
indispensabile. Legge il gobbo alla lettera e, nelle orecchie, ha i
suggerimenti di Patty, regista che ha tutto sotto controllo. O quasi.
In diretta, infatti, vivono un incubo – che, sotto sotto, è il
sogno di tutti coloro che sognano le impennate dello share, gli
ascolti alle stelle, gli spettatori in visibilio. Kyle, giovane padre
che ha perso i suoi pochi risparmi, armato di esplosivi, pistole e
tanta disperazione, entra in studio e tiene Gates sotto tiro. A
telecamere accese, racconta la sua storia; denuncia. E, dalla parte
del torto, pian piano si sposta in quella della ragione. Le sue
frecciate, i suoi sospetti, puntano a un imprenditore emergente e a
sparizioni di denaro immotivate. La polizia è già fuori, l'accusato
è al di sopra di ogni sospetto. Come finirà? Dopo lo spigliato La
grande scommessa e l'emotivo 99 Homes, una
professionale Jodie Foster – nonostante la sua regia senza
guizzi, un po' televisiva – ci parla della recessione e di una Wall
Street in caduta libera in questo Money Monster. Leggero, a
sorpresa, ma per il resto ben poco sorprendente. Indeciso sui toni,
non troppo caustico né troppo impegnato, ricorda Live! e il
recente El desconocido, visto, piaciucchiato e snobbato. Mi
tocca rivalutarlo, quel thriller spagnolo su un banchiere fraudolento
in linea con un burattinaio truffato, all'indomani di un prodotto
come questo, fatto di nomi altisonanti e scarso mordente. Se fa
piacere, dopo Skins, vedere un O’Connell sempre più
lanciato, Clooney e la Roberts – lui esagerato e lei, per ragioni
di copione, sciatta – abbracciano ruoli interpretati in tempi
recenti. E gli occhi dello spettatore, in prove attoriali senza
sforzo e in risvolti telefonati, nonostante un ritmo forsennato e una
Foster che fa tanto piacere ritrovare, passano oltre senza indugiare.
(6)
Dieci
anni fa, Stephen King firmava Cell. Uno spunto interessante, sì, ma, a detta di
tutti, non un capolavoro. Di certo, non un romanzo degno di una
trasposizione tutta sua. Soprattutto, non così in ritardo. Il Re,
infatti, giocava con cannibalismo e tecnologia, prima che i social ci
rendessero dipendenti, che la tivù ci proponesse appuntamenti
settimanali con i non-morti di The Walking Dead, che qualcuno
– per altre vie, sotto nomi diversi – s’impossessasse
dell’idea, rielaborandola. E sono dieci anni, quindi,
che la trasposizione cinematografica di Cell fa parlare di sé,
ma non decolla. Eli Roth alla regia, oppure tra i produttori
esecutivi? Film, o riduzione televisiva? Il 2016, anno in cui King ha
subito un trattamento quantomeno dignitoso con la miniserie 22.11.63,
vede il progetto andare in porto e, in sordina, giungere al cinema.
D’estate. Stagione per eccellenza degli horror da poco. Il ritardo
è imperdonabile; la curiosità è scarsa anche se si è fan
sfegatati come me; il cast è buono, ma promette un compitino fatto
di fretta. Nonostante tutto, però, Cell si rivela ben
peggiore del previsto: inconcludente, inservibile, noiosissimo. Dopo
un incipit piuttosto efficace in un aeroporto contagiato dalla
pazzia, e già lì, per bruttezza, spiccavano i titoli di testa, il
film segue il viaggio di un inebetito John Cusack e di un
insopportabile Samuel L. Jackson in cerca del figlio del primo. Lungo
il cammino, giovani sopravvissuti – la nota meno dolente è
Isabelle Fuhrman, bollata come promettente sin dai tempi di Orphan
– e uomini e donne che hanno perso il senno. La violenza
scarseggia, i dialoghi vorrebbero conferire invano intimità a una
pellicola senza perché e, dando una spolverata a vecchi ricordi,
giurerei che tanto, tra le pagine, andasse diversamente. Ennesimo
caso in cui, passando sul grande schermo, Stephen King viene
massacrato, Cell è un’operazione fuori tempo massimo,
indesiderata, che, nel fatale passaggio, combina forse più disastri
dell’ennesima, incomprensibile apocalisse. (3)
sul primo sono in linea, il secondo ho visto che è uscito su netflix.. e sembra interessante... il terzo recupererò...
RispondiEliminaIl secondo una sopresa carinissima, per me. Poi c'è Craig Roberts che mi fa tanta simpatia, di per sé.
EliminaDa Linklater mi aspettavo più "peso", ma sarà per la prossima. ;)
Ti attendo su Linklater, allora!
RispondiEliminaancora tutti da vedere, con precedenza a Linklater e The Nice Guys. Cell non lo prendo manco in considerazione, ho trovato già orribile il libro, non oso immaginare il film...
RispondiEliminaSalta, salta.
EliminaA me, invece, il romanzo era piaciucchiato, ma è passata letteralmente una vita...
Sono d'accordo su The Nice Guys, assolutamente, mentre per quanto riguarda Tutti vogliono qualcosa non sono riuscita a farmi bastare questa atmosfera super allegra e festaiola, forse perché è una realtà a me lontana.
RispondiEliminaMa anche a me, eh.
EliminaNoi, poveri universitari italiani, facciamo ben altro. :-P
Su Linklater la pensiamo allo stesso modo: in mezzo a tanta leggerezza, c'è qualcosa di più, c'è un'estate che si sente in tutta la sua nostalgia.
RispondiEliminaMoney Monster invece a me è piaciuto parecchio, sarà che El Desconocido l'ho sofferto parecchio -troppo urlato, troppo brutto il finale-, sarà che la storia mi ha preso e non mi ha più mollato, con la voglia di scoprire e stare dalla parte di Kyle.
Il resto lo divido in pronto alla visione (Roberts-Rudd), magari una chance estiva gliela concedo (Gosling-Crowe) e un anche no (King) :)
Salta senza rimpianti Cell, però il buddy movie di Black recuperalo. E' molto divertente, quello sì. :)
EliminaI primi tre della lista me li recupererò senz'altro!
RispondiEliminaFammi sapere!
EliminaDei primi due parlerò presto...
RispondiEliminaCell non mi è sembrato così pessimo. Sarà che avevo delle aspettative bassissime. Molte puntate di The Walking Dead sono ancora peggio. :)
The Nice Guys e Money Monster mi ispirano parecchio, ma il tuo giudizio tiepidino non è troppo incoraggiante...
Ti credo sulla fiducia: di The Walking Dead mi sono fermato al pilot! Su Linklater già so - lo vedo nella tua colonna di destra, è il film della settimana -, curioso per l'altro. ;)
RispondiEliminaDevo ancora vederli tutti, ma sono curioso.
RispondiEliminaTra l'altro, devo in anticipo qualcosa a questo tuo format. ;)
Curioso di sapere come ti sembreranno. :)
EliminaNon sono assolutamente fedelissima di Linklater! Mi era piaciuto il primo della trilogia "Before..", gli altri erano entrambi evitabili a mio avviso, e, se ricordi, avevo smontato senza pietà Boyhood. ;) Nonostante ciò, questo "Tutti vogliono qualcosa" è una visione piacevole. Non ci trovo della profondità, è solo una cosa piacevole, che comunque non guasta.
RispondiEliminaGli altri mi mancano tutti tutti.
No vabbé di Cell già sai. Ne parlerò nei prossimi giorni ma è davvero laMMerda. Nice Guys l'ho adorato, forse perché mi ha ricordato tanto gli amati film con Bud e Terence :D
RispondiEliminaVolevo andare a vedere Cell, il libro è stata una lettura carina anche se il finale è stato una delusione. Ho letto ora il commento sul mio blog XD Ma se gli hai dato 3 come voto, trovo qualche altra cosa da vedere ;)
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