sabato 30 maggio 2015

I ♥ Telefilm: Jane The Virgin, The Following, The Lizzie Borden Chronicles

Jane The Virgin
Stagione I
Jane Gloriana Villanueva è una creatura mitologica: vergine a ventiquattro anni, e per scelta di vita. Aspetta la prima notte di nozze e il brillante al dito: mentre la madre le dice di assecondare l'ormone, la sua “abuela” la educa al culto della castità e all'attesa. La verginità è un fiore: una volta sgualcito, come rimetterlo in sesto? Per fortuna, non dovrà aspettare troppo: Jane ha accanto a sé l'uomo perfetto. Sarà altrettanto perfetto quando gli rivelerà di aspettare un figlio che non è il suo? Un errore della ginecologa e Jane si scopre in dolce attesa: fecondata per sbaglio con il seme del bel Rafael, proprietario dell'albergo in cui la protagonista lavora; sua cotta segreta da sempre; sposato con un'arpia vestita da Barbie. La pancia cresce, le coppie scoppiano e si ricompongono assumendo forme imprevedibili, la verginità resta. Puntualmente vittima dell'indiscreto fascino delle “latinate” - da Ugly Betty a Devious Maids -, colorate e pasticciate come le gradiamo dalle mie parti, giù in Terronia, la nuova serie The CW mi è piaciuta più o meno da subito, e sembra piacere anche parecchio alla critica ufficiale: premiata, sopravvalutata, fortunata. Le vicende si complicano; saltano fuori narcotrafficanti e serial killer; i colpi di scena improbabili non latitano, soprattutto in un epilogo con nascituri, “al lupo al lupo” e fuochi d'artificio. E per me, non c'è un personaggio che sia fuori posto. Neanche uno che mi stia sulle scatole: dunque, miracolo al quadrato. Dai più importanti ai minori. Ma il mio preferito, Anthony Mendez: irresistibile – e invisibile - voce narrante che, con un accento tutto suo, suddivide la storia in ventidue capitoli e si presta a riassunti e chiarimenti. Ogni tanto, ecco comparire sullo schermo didascalie, schemi, perfino quello che i personaggi non dicono: giusto per tenere conto di chi è chi, di chi fa cosa, di quale lato del triangolo sentimentale ha la meglio sui Social. Jane The Virgin è un'immacolata concezione ai tempi delle soap opera, degli hashtag, delle castronerie in ambito sanitario. Paradossale, affollato, divertentissimo. Come una sit-com in formato gigante. Partito ad ottobre, mi ha accompagnato durante le sere più esasperanti di primo e secondo semestre e, mentre vecchie conoscenze deludevano, questa Jane si andava facendo sempre più surreale e frizzante. Convincendo quasi all'unanimità. Scritta con ironia e grazia, ha ritmi latini e, alla luce del sole, è della stessa materia di cui sono fatte le telenovelas argentine – e i sogni delle neomamme che, tra una doglia e l'altra, scrivono romanzi rosa e sventano pericolosi crimini federali. Candidamente trash. (7+)

The Following
III (e ultima) stagione
Dopo Revenge, altra serie cancellata strada facendo: anche The Following, così, trova la sua parziale conclusione mostrando il peggio di se. L'ultima stagione impiega pochissimo a classificarsi come la peggiore delle tre. E, checché se ne dica, nonostante questa ennesima fatica di Kevin Williamson potesse concludersi dopo un solo arco di episodi, anche la seconda serie era discreta; appena sufficiente, ma comunque abbastanza per dare un'occhiata al seguito. Un'altra chance alle indagini di Ryan Hardy. Lui, sul quale adesso pesa un'accusa grave: eroe o assassino? Dopo la duplice cattura - e la duplice fuga - del carismatico Joe Carroll, l'instancabile detective deve fare i conti con Mark, psicotico gemello rimasto in vita; una coppia di sposini con il pallino dell'omicidio; una figura enigmatica – tutti lo cercano, nessuno sa chi sia – che ha accettato la sanguinosa eredità del Dr. Strauss. Lo spettatore, parecchio annoiato, si illumina grazie alle rare comparse di James Purefoy. Mentre le nuove indagini sonnecchiano, intriga giusto il rapporto viscerale tra il protagonista e la sua storica nemesi: un Purefoy vicino alla disfatta, ma mai stanco di suggerire malignità; un Kevin Bacon fisicamente in forma, che si avvicina pericolosamente al bicchiere e al ruolo di cattivo tenente. Convincenti entrambi, ma bastano loro? Con un numero inferiore di episodi, magari. Con qualche dialogo in più e qualche assurdo salvataggio in meno. Nell'ultima parte, venuta meno la loro morbosa complicità, sotto le luci della ribalta c'è questo Theo: un marcantonio di un metro e ottanta, afroamericano, con due occhi azzurri mai visti prima – insomma, un tipo che passa inosservato, del tutto anonimo come richiesto dal suo personaggio camaleontico, giusto? – ma il discreto Michael Ealy non è in grado di sostere un ruolo che in The Fall, per dirne una, un Jamie Dornan interpreta a regola d'arte. Da non dimenticare – o forse sì, dimenticatela pure - una misteriosa femme fatale con paurose somiglianze con la Lady della Del Santo. Anni di sali e scendi, dunque; scivoloni; pacate accettazioni di svolte irrisorie. A volere essere generosi, buona la prima stagione, così così la seconda, ma questa – tirata per i capelli, sfinita, superflua – non si arrende alla cancellazione ed è un mezzo disastro. Peggio il roseo lieto fine di Revenge o l'epilogo aperto di un The Following abbandonato a sé stesso? Le buone idee latitano, dunque si tenta di guardare a un recente passato: perfino i delitti, opera all'inizio di un copycat, sono riciclati. Sempre gli stessi. The Following, in generale, è sempre stato poca cosa per potersi autocelebrare: non lo comprendono gli autori, all'ultimo giro di boa, ai quali sfuggono il senso del ritmo, l'ironia, la necessaria credibilità. (5)

The Lizzie Borden Chronicles
Stagione I
Sotto Natale, io che sono un tipo che sente tanto le festività, avevo visto il modesto Lizzie Borden Took An Ax, film televisivo targato Lifetime, incentrato sul processo ai danni di un'ingenua aristocratica americana accusata di avere assassinato, a colpi di accetta, i suoi genitori. Aveva la gonnella ancora imbrattata di materia cerebrale, eppure era stata assolta. Lizzie Borden, per quel che Wikipedia ci racconta, è tra le assassine più efferate della storia americana. Ma a parte un piccolo scandolo, un furto, del suo hobby preferito – l'omicidio – non si racconta nient'altro. Ci pensa questo The Lizzie Borden Chronicles, serial in otto puntate che si inventa – ma inventerà tutto tutto? - catene di delitti e uno stretto legame di sorellanza. Al contrario di quanto mi aspettassi – ossia un approfondimento più minuto e sensato di quel che avevo già visto – la Lifetime si cimenta con un liberissimo sequel, in cui le due brave protagoniste hanno gli occhi di tutti puntati addosso. Le sorelle Borden – complici, l'una carnefice e l'altra vittima – si sono trasferite, ma difficile, quando si tratta di loro, intessere rapporti di buon vicinato e darsi alle feste d'inaugurazione. Lizzie, mai stanca del brivido, cerca guai. E alla sua porta bussano, episodio dopo episodio, un fratellastro in cerca dell'eredità, un cowboy che vuole incriminarla, un pretendente – con famiglia mafiosa annessa – per la sorella maggiore, Emma. Ma chi di spada ferisce di spada perisce... Tornano autori, cast, scenari; colonna sonora tamarra, rallenty spropositati, lame e corsetti. Insieme a loro, i difetti di sempre, ma un macabro divertimento aggiuntivo. Un morto per episodio – e sono morti fantasiose – e una protagonista dalla faccia furbastra che, impunemente, fa massacri senza dare nell'occhio. Quando in un paesello di un paio di migliaio di anime ci sono, ormai, più morti che vivi. Le cronache della Borden raccontano, tutto sommato, ben poco di nuovo, e potevano raccontarlo, semmai, in un numero minore di episodi. Svolte nelle ultime tre puntate e in un epilogo aperto. Il resto è poco e niente, ma si segue con una specie di ghigno felice. Complice il viso da bambola di Christina Ricci, un angelo del male bello e sinistro, e, al suo fianco, la valida Clea DuVall, testimone sfortunata di una metà folle. Qualche accorgimento maggiore nella regia, questa volta, e una randezvous settimanale con la Ricci bastano per raggiungere una sufficienza piena, la prima volta, invece, a stento sfiorata. (6)

mercoledì 27 maggio 2015

Pillole di recensioni: Le anatre di Holden sanno dove andare; Ovunque tu sarai

Da un po' non scrivevo uno di questi miei cappelletti introduttivi. Come state, amici lettori? Io, solita vita. Ultimi giorni di studio, prima di iniziare un ripasso forsennato, e primo esame della estiva all'orizzonte: Letteratura Teatrale Italiana. Oggi, inoltre, ho una certa preoccupazione: al gatto, Ciro, tocca la fatidica operazione... Zac, zac! Pura formalità per i veterinari, immagino, pratica comunissima, però non può mangiare ed è qui, accanto a me, che miagola per avere due croccantini. Resisterò? Prima di mettere Ciro nel trasportino e la mia testa sui libri, dunque, vi lascio un breve - e personale - commento su due romanzi che ho letto in questi giorni, uno di fila all'altro. Nel primo caso, delusione. Nel secondo, una sufficienza per la trama convenzionale e la prosa potenzialmente interessante. Un abbraccio, M.

Titolo: Le anatre di Holden sanno dove andare
Autrice: Emilia Garuti
Editore: Giunti “Y”
Numero di pagine: 144
Prezzo: € 12,00
Il mio voto: ★★
La recensione: Holden rimuginava sulla direzione del volo delle anatre che, d'inverno, abbandonando Central Park, mirano tutte al cielo. Pensieri in comune con Will, la protagonista di un romanzo che è arrivato il mese scorso in libreria, con fascette colorate che promettevano chissà che. Emilia Garuti ha la mia età e trasforma la ricerca dell'università perfetta in un racconto. Ci sono passato anch'io. Però eccolo, il punto. Dalla pubblicazione di una giovanissima, cosa più unica che rara, mi aspetto un'eccezione. In un romanzo che ambisce a dipingere i giovani alla maniera di Salinger e Brizzi non cerco la classica storiella. Inutile mettere le mani avanti, mordersi la lingua, se la quarta di copertina richiama Jack Frusciante e Il giovane Holden. In una manciata di ore ho letto pagine che fanno una buona compagnia, ma che non lasciano niente. Come con In silenzio nel tuo cuore, di un'autrice altrettanto acerba; se lì però la protagonista era leziosa, questa Will è uno spasso. Ma quei toni sardonici che non conoscono quasi sfumature, le critiche ai risvoltini e alla boy band, l'odio gridato alle mode e ai modaioli, gli elenchi sui bizzarri tipi che incontri al liceo o in circolare, vanno bene per le invettive su Facebook, e sono anche nel mio stile: amo lamentarmi. A uno stato della Garuti mi scapperebbe qualche “mi piace”, ma un romanzo tutto così lo comprerei? Un editore ti può notare, ma se hai poco da dire, anche se sai dirlo, che senso ha l'ennesimo young adult? Dove sono gli autori saggi, che non si accontentano di un tema fatto benino? Per metà la storia è credibile – le giornate dell'orientamento, le amicizie che finiscono, le rimpatriate – ma per l'altra, di metà, strizza l'occhio agli americani – per esempio, inserendo il tema del suicidio, qui trattato con aria di sufficienza, che va “fortissimo” altrove; genitori ricchi e distratti; una love story che né nasce, né si evolve. Per metà ho apprezzato l'assenza di una morale facile, ma per metà una storia senza un punto focale – sempre che tu non sia Aidan Chambers – non so che utilità possa avere. Le anatre di Holden sapranno dove andare, ma la Garuti ancora no. E' presto; non è stagione di migrazioni.

Titolo: Ovunque tu sarai
Autrice: Fioly Bocca
Editore: Giunti
Numero di pagine: 160
Prezzo: € 12,00
Il mio voto: ★★½
La recensione: Ci sono quei momenti. Quelli brutti, nerissimi, in cui ti chiedi cosa sarà di te. E in cui, per la prima volta, ti senti solo al mondo. La mamma di Anita si sta spegnendo per colpa del cancro e il suo fidanzato storico, Tancredi, è troppo preso dal lavoro per starle accanto. L'infelicità va condivisa per alleggerirsi il cuore. Così attacca a piangere davanti a uno sconosciuto: un uomo sopravvissuto a un genocidio e a un'infanzia tragica. Per questo, adesso, scrive favole. Arun inventa storie e adesso ascolta quella di Anita: una principessa infelice in una Torino che, con le sue nebbie, sembra una landa d'altri tempi. Riusciranno nonostante gli scherzi della vita – il lutto, gli imprevisti, le seconde opportunità che a volte si negano e a volte no – a tentare la via del lieto fine? Ovunque tu sarai, già a partire dal titolo, è un romanzo che non promette grande originalità. Pagina dopo pagina non si smentisce: è come te lo aspetti. Letto già e già visto – in ogni commedia romantica che si rispetti, dalla notte dei tempi, non mancano i gesti eclatanti e, ovviamente, le notti di pioggia per gridarsi amore eterno. Però repetita iuvant, e il messaggio speranzoso dell'esordiente Fioly Bocca non annoia: ogni tanto, certe cose è gradevole riascoltarle. Romanzo breve, delicatissimo, che ha la forma di una parabola moderna. Al centro, una protagonista contemporanea: una trentenne al tempo della crisi – quella che rende i fidanzati distanti, i capi insoddisfatti, il domani incerto. Ma Ovunque tu sarai è il riassunto della vita di Anita. Misurato, ponderato, studiato per mantenere la giusta proporzione tra amori, dolori, gioie. E non senti lo strazio della perdita – dilaniante nel recente L'amore involontario, ad esempio – né l'immediatezza del dialogo. Elaborati e rielaborati, i discorsi dei protagonisti compongono pagine belle da leggere, poetiche e musicali, ma quel modo di esprimersi – libresco, artificioso – e le chiuse dei capitoli – retoriche apostrofi alla vita e al domani: in rete, altri citavano Grey's Anatomy – mi hanno confuso le idee. Mi piaceva la Fioly narratrice, che descriveva la realtà con toni eterei. Ma con quella in cerca della frase d'effetto, dell'aforisma riuscito – ma saranno aspetti inscindibili della sua personalità, o è solo il caso dell'opera che me l'ha fatta conoscere? – non sono andato d'accordo. Come se quelle parole fatate, fluttuanti, togliessero carnalità al sentimento dei due protagonisti e di loro, alla fine, non mi rimanesse che la mera essenza. Non i corpi, non la verità, e tutto per via di un ricercato lirismo che non va fiutato: quando serve, viene infatti fuori da sé. Altrimenti si scambia il tutto per insincerità. Per i fan delle protagoniste della Rattaro e della assennatezza di un Gramellini, un romanzo puro e lieve, che ha una certa personalità ma che rischia di perdersi, qui e lì, poiché schiava della forma. Comunque sufficiente - un sei politico, ma in fondo meritato - per iniziare.

lunedì 25 maggio 2015

Recensione: Piccola Dea, di Rufi Thorpe

La vita era venuta a cercarmi, e anche mentre parlavamo, anche mentre facevamo giochi di parole e ci scambiavamo battute nella nostra lingua umana, formando strati e strati di simboli, la vita stava dirigendo la diramata rete di vene nel mio ventre e forgiando dal nulla una creatura.

Titolo: Piccola Dea
Autrice: Rufi Thorpe
Editore: Sonzogno
Prezzo: € 16,50
Numero di pagine: 269
Sinossi: A dispetto dei luoghi comuni, il rapporto più intenso per le giovani donne non è quello con il primo amore. È quello con l'amica del cuore. Lorie Ann e Mia, in riva all'oceano della California, sdraiate al sole a scambiarsi segreti, mentre provano a schiarirsi i capelli con il succo di limone, di questa amicizia ne sanno qualcosa. Diversissime tra loro, eppure unite come sorelle, crescono complici e spensierate: non passa giorno senza che l'una sappia nell'intimo cosa nasconde il cuore dell'altra. Siamo nei festosi anni Ottanta, e all'inizio di questa loro storia, che durerà per altri vent'anni, Lorie Ann e Mia si fanno una confidenza che scotta e che impone una decisione complicata: hanno sedici anni e sono rimaste incinte. Mentre Mia è la bulla, scostante, con una famiglia sgangherata, Lorie Ann è la perfezione, quella che tutti invidiano: per la sua bellezza solare, il carattere aperto e generoso, la vita serena avvolta da una famiglia unita. Se la biologia c'entrasse col destino, e la scelta coraggiosa di Lorie Ann di non abortire, all'opposto dell'amica, dovesse venire premiata, avrebbe dovuto essere lei quella baciata dalla fortuna e dal successo. Invece, anno dopo anno, Lorrie Ann scivola in tutt'altra esistenza, e a Mia, pienamente realizzata, non resta che documentare, e interrogarsi sulle ragioni per cui la sorte abbia riservato alla sua "divina" amica un percorso tanto accidentato.
                                           La recensione
Aiutavo mia mamma a piegare le lenzuola, una delle cose che più odio fare al mondo, e poi è naturale che mi chieda ma quando non ci sono io, a casa, da chi si farà mai aiutare?, e si parlava di chi stesse leggendo cosa. Avevo finito Piccola Dea, acclamato esordio di Rufi Thorpe, e non ero soddisfatto granché. Alla domanda com'era? avevo risposto una cosa che odio, quasi quanto la storia del bucato: così così. Appena qualche giorno prima, a metà lettura, avrei avuto un tono completamente diverso: non avrei potuto che parlare bene di quella scrittura matura, originale; dei sogni segreti di due protagoniste inquadrate tra gli anni che scorrono veloci; di un'opera prima che - per stile, contenuto, ironia sferzante  - non sembra tale. Un lenzuolo, poi eccone un altro, e io che parlavo e parlavo. Come quando un libro non mi piace, almeno non del tutto, e voglio capire perché. La mia ascoltatrice non mostrava segni di noia, e io giù di chiacchiere, ipotesi, metafore: le corde del balcone pesanti di felpe, camicie, pigiami perché ci preparavamo a chiudere tutto in uno scatolone per il cambio di stagione. E, come raccontavo, questo libro sembrava in linea con l'estate che arriverà. Luminoso, colorato, abbronzatissimo. A bordo piscina. La storia di Mia e Lorie Ann parte così, con i turisti e le creme solari, e prende le mosse da lontano, con gli iconici anni '80, i sedici anni, le scelte. Crescono come gemelle siamesi, le due, in quei quartieri pacchiani di gente arricchita che, con un tremolio di Wall Street, si impoverisce di nuovo, ma rimane sempre ancorata alla sua bella casa. Si completano: Lorie Ann bellissima, saggia, buona, figlia perfetta nella famiglia perfetta; Mia, la narratrice, arrivista e egocentrica, con la sua incasinatissima famiglia allargata e un cuoricino nero che la rende indifferente davanti alla prospettiva dell'innamoramento, ma non alle lusinghe dell'altre sesso. Ci rimane secca la prima volta: un lui impacciato coi profilattici, un amplesso di due secondi, la decisione alla leggera dell'aborto, perché 16 anni incinta non era ancora in onda e i bebé e le lettere morte, sua grande e inconsueta passione, non erano conciliabili. A Lorie Ann succede lo stesso qualche tempo dopo, ma lei al contrario crede di amare il suo lui impacciato coi profilattici, sceglie un matrimonio riparatore e non mette un freno brusco alla vita che le cresce dentro. Ma metterà un freno alla sua, di vita: un neonato problematico, affetto da gravi handicap, e la vedovanza all'improvviso - in una girandola di tragedie e malintesi - la costringeranno a dare una nuova priorità ai suoi sogni gloriosi. Rufi Thorpe, attraverso un tono cinico, civettuolo e pungente, senza dolcezze e senza retorica, ci parla di due amiche che ogni tanto si separano e ogni tanto si ritrovano. 
I telefoni squillano, anche dall'altra parte del mondo. Quando Mia si trova a lavorare nella fascinosa Istanbul e a custodire un test di gravidanza nel cassetto. Quando Lorie Ann, fragile e ingenua, con il destino infelice di chi è troppo buono, imboccherà la strada dell'eroina. Quando, in nome di un'amicizia non sempre disinteressata, ci si incontra a metà strada. Piccola Dea mi è piaciuto molto fino a quando era quello che la copertina prometteva: una spassosa adolescenza al sole. A un certo punto, ma non ricordo il momento esatto, ho iniziato a sviluppare una leggera intolleranza. Ci sono i romanzi che raccontano un'esistenza, questo finisce per diventare uno di quelli e la Thorpe mette per iscritto le contraddizioni di due vite vere e, purtroppo, i troppi lutti, il troppo disincanto, le troppe disdette diventano troppo. Per me, almeno, che sono un fan convinto del less is more. Da poco - un poco relativo, che coincide con la fine di tutti quei "prendi, piega e occhio alle grinze" - ho capito che, per una volta, il problema non è il romanzo, e non era nemmeno il suo essere pieno fino all'orlo di temi scottanti e avventure esotiche, bensì io. C'è che io sono maschio e Piccola Dea è un romanzo di donne, soprattutto per le donne. 
Attenzione, ché mi spiego meglio. C'è questa idea, un pregiudizio bello e buono, che i romanzi d'amore siano pensati per il solo pubblico femminile.
La Thorpe non fa parte di quel genere lì, non è cosa da ragazzine. E' cosa di mogli e di madri, neanche di figlie: lettrici mature, che sanno già un po' di tutto questo. Quello che le donne pensano e non dicono. Piccola Dea è un romanzo che richiede esperienza e doppio cromosoma X: vissuto, profondo, a modo suo anche criptico. Gli abissi del mondo femminile e dei suoi tabù scandagliati in maniera che esula qualsiasi logica scontata, moralistica e benpensante. Si parla di un aborto che a volte è giusto e basta, dell'accanimento terapeutico, di brave donne che sono messe al mondo per essere madri cattive. Di un istinto materno che non è vero sia innato, come invece dicono. Argomenti universali - nella coppia si è in due, tanto - ma sviscerati da chi detiene le chiavi di tutte le ragioni: i padri sentono di avere poca voce in capitolo, avendo fatto il minimo sforzo. E le motivazioni delle misteriose creature della Thorpe sono estreme, coraggiose, giuste. Ma io, che sono empatico e comprendo, talora ho avuto difficoltà ad accettarle: noi uomini siamo per le risoluzioni semplici, per i poi si vede. Lorie Ann e Mia invece mettono al vaglio tutto, sezionano l'amore e quello che viene dopo, pensano cose che non ho mai pensato. Inconciliabili, naturalmente diversi, ma ci si prova... E il fatto che me l'abbia suggerito una ragazza - la carissima Valentina dell'ufficio stampa, che ringrazio e saluto - mi fa sentire un privilegiato. Le donne leggono notoriamente di più e le donne, dunque, leggono il mio blog più degli uomini: a voi Piccola Dea proprio non posso sconsigliarlo, capito? Le tre stelle per un testo oggettivamente pregevole, piacevole da leggere, ma che alla fine dei conti non era cosa mia, a causa di una barriera invisibile che non percepisci ma c'è. Un passo di troppo e ci sbatti il naso contro.
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Cyndi Lauper – Girls Just Wanna Have Fun (George Ezra)

sabato 23 maggio 2015

Mr. Ciak: Insurgent, Kingsman, Musarañas, The Boy Next Door, Maicol Jecson, The Town That Dreaded Sundown

Un anno fa, quando dicevo ancora di odiare Shailene Woodley, Insurgent l'avrei forse aspettato con ansia. L'arrivo al cinema del primo episodio mi aveva convinto, ma passo dopo passo, avevo visto dissolversi tutto il potenziale della saga della Roth, che non aveva avuto chissà quale idea brillante o, complice uno stile acerbo, non aveva saputo metterla a fuoco. Il dente avvelenato, in particolare, ce l'avevo contro questo seguito, che mi aveva annoiato in maniera indicibile: non a caso ricordavo giusto il colpo di scena finale; non a caso – a marzo – non sono corso al cinema. E Insurgent il prezzo pieno del biglietto non lo valeva, ma mi aspettavo peggio. Fila liscio, lì dove il romanzo vegetava. Quanto sia rispettosa la trasposizione questa volta non so dirvelo. Il film riparte nel momento in cui si era fermato e scorre, ma – soprattutto all'inizio – manca di un collante. Ha l'aria di una maratona di episodi dell'ultima produzione The CW. Più avvincente che nel romanzo, invece, la seconda parte, che non salva il film da un aggettivo che ha un suo peso: Insurgent è gradevole, ma trascurabile. Nonostante i paragoni si sprechino, non è Hunger Games: prendiamo i pochi colpi di scena, ad esempio, snocciolati così, senza emozione. Il metaforico mastice – nonostante la regia di Schwentke, che con l'azione e gli effetti speciali ci sa fare – purtroppo sembrano averlo perso anche i membri del cast. Singolarmente convincenti, ma incapaci di amalgamarsi senza imbarazzi. Dei due premi Oscar – e mezzo – con una Octavia Spencer di passaggio e una Naomi Watts mai così spaesata, sarà perché madre impossibile di un trentenne, solo la fedelissima Kate Winslet sta al gioco. Il monolitico Quattro di Theo James, che regala tanti sospiri alla sua Tris, ne regalerà molto meno alle spettatrici; Ansel Elgort ci prova a scrollarsi di dosso l'aria adorabile da eterno Augustus Waters, ma ci riuscirà?; semplicemente terribile Miles Teller che, dopo il trionfo di Whiplash, fa passi indietro per colpa di un pedante epigono di Malfoy scritto da una che non è la nuova J.K Rowling. A capitanare la rivolta, la Shailene Woodley che adesso non odio più: White Bird in a Blizzard me l'ha fatta scoprire sexy, Colpa delle stelle me l'ha fatta piangere. Bravina, qui, anche se se la cava meglio a spezzare cuori che ossa: nonostante il capello corto e le braccia muscolose, non crede neanche lei fino in fondo alla sua aggressività d'intrepida. (6)

Qualche giorno fa ho rievocato il carnevale di un'infanzia lontana. Quando mi vestivo da supereroe e da grande dicevo di voler essere un fumettista. I sogni non avevano un numero fisso, e in alternativa avrei trovato stimolante anche la vita da agente segreto. Stravedevo per Spy Kids; poi alle medie per Agente Cody Banks – e Hilary Duff. Adesso non guardo cinecomic né pellicole di spionaggio. A me piace poco l'azione, ma parecchio due fattori che solitamente cozzano: l'elegante e il tamarro. In Kingsman, in due ore che volano, cafonate e alta moda si incrociano e danno vita a uno sposalizio irresistibile, anche per me, spia mancata senza rimpianti. Con la firma del Matthew Vaughn di Kick Ass, altra perla, questo film è una parodia di un genere che o si ama o si odia: ma come odiarlo se è riproposto in chiave ironica, con invasioni massive di effetti speciali, una regia strabiliante, combattimenti coreografici e dialoghi gustosi? In Kingsman non mancano le missioni impossibili, i cattivi che vogliono distruggere il mondo, le rivincite personali: il protagonista combatte contro le smanie dei figli di papà, sventa piani criminali, conquista principesse ninfomani. A fargli da guida, un magnifico Colin Firth che si congeda con un colpo di scena ad effetto ed è re di una tavola rotonda di moderni cavalieri. Picchia duro, ha pantaloni dalla piega perfetta, beve il té delle cinque in punto. Samuel L. Jackson caratterizza un antagonista che è uno spasso, a metà tra un Mark Zuckemberg pazzo e uno coi difetti di pronuncia del primo Muccino; Michael Caine dice due parole ed è subito un'icona; Mark Strong trova il supporto di uno script che, questa volta, lo vuole più presente del solito. A mancare in copertina, il nome del giovane Taron Egerton, quando questo poi è il suo picaresco romanzo di formazione. Chiassoso, sopra le righe, chic. Vive dei tòpoi dell'action movie e cita My Fair Lady. Con un fucile tra le mani e un paio di intramontabili Oxford lucide in cui specchiarsi. Kingsman ha la violenza esagerata dei cartoni, rumori fortissimi e colori che fulminano la cornea. Le scene d'inseguimento più spettacolari che vedrò quest'anno e uno degli intrecci più spiritosi che mi godrò nei sei mesi a venire. (7,5)

In una Spagna che ancora porta le cicatrici del conflitto mondiale, la storia di un soffocante mènage familiare. Un appartamento abitato da due sole donne, l'arrivo di un vicino di casa a comprometterne le fragili dinamiche. Montse, che non ha mai oltrepassato l'uscio del suo mondo asfissiante, dopo l'abbandono del padre orco, vive come una reietta, barricata nelle sue stanze piene di pizzi, sete, bottoni. Fa la sarta. Sognerebbe, un giorno, una boutique in centro e un rapporto esclusivo con quella sorella che non ha un nome e che, semplicemente, definisce la sua bambina. Anche se ha diciotto anni, è una giovane donna che fa innamorare tutti al primo sguardo e ha rubato le attenzioni di lui, Carlos, l'uomo ferito che le due accudiscono sotto il loro tetto. Ma Carlos, a letto con le gambe rotte, ha i suoi segreti, proprio come la paziente Montse: gli scatti di ira, le mani che tremano, l'ossessione di avere tutto, e tutti, sotto controllo. Personaggi prigionieri di una casa che è impossibile abbandonare; tutti vittime. Musarañas ha nel titolo i toporagni: roditori che vivono al buio, protetti a vita nel loro nido. Thriller psicologico dello scorso anno, è la rinnovata conferma di un cinema spagnolo pensato meravigliosamente, che sa intimorire con originalità e immensa eleganza. Sorpresa per molti? Non per me, che ai cugini d'oltralpe invidio le commedie romantiche a ai vicini spagnoli gli horror più rigorosi in circolazione. Questo, diretto a quattro mani da due esordienti, ha un intreccio classico e la tensione alle stelle. Girato interamente in un appartamento dal perimetro circoscritto, ospita tra i suoi corridoi i fantasmi della pedofilia e i tragici traumi che si trascina dietro. Si sguazza perciò nel sangue delle vittime della sarta assassina, una Misery che non potendo scappare dal suo incubo vuole trascinarci dentro anche chi le è vicino, ma a impressionare sono i chiaroscuri di personaggi con la guerra in testa. Nel cast, uno Hugo Silva poco approfondito, il viscido Luis Tosar di Bed Time, ma – ormai nomi di grido internazionali – sono nullità in confronto all'ipnotica Macarena Gòmez, che regge divinamente il tutto con una prova che vive di tic stizzosi e minuzie. Un personaggio ambiguo con uno spiazzante segreto che il finale, puntualmente, ci svela. Facendo pensare allo spettatore che Musarañas fosse bello già prima, ma dopo quella svolta a fior di nervi - già intuita ma cattiva - più bello ancora. (7)

Che è banale in maniera esasperante lo si capisce già dal titolo. Girato con quattro soldi e inaspettato successo, ha la storia dell'ennesima attrazione fatale. Virtuosa prof divorziata finisce a letto col suo vicino di casa pazzo. La bella Jennifer Lopez – sempre più sexy - non vincerà l'Oscar, ma la sua prova è dignitosa e in biancheria fa la sua porca figura. Con lei, dopo un paio di Step Up, Ryan Guzman: che va ancora al liceo non ci credo neanche se lo vedo con zaino in spalla, ma è un convincente squilibrato; meno pesce lesso del collega ballerino Channing Tatum, ha la faccia giusta e palpeggia le grazie della Lopez con la nonchalance di chi non deve chiedere mai. Questo thriller in rosa è scontato e classico così come appare. Ma fila, nonostante la trama la sappiano pure i sordi, e ha l'apprezzabile faccia tosta di cullarsi spudorato nei luoghi comuni, non arrampicandosi sugli specchi in cerca di novità impossibili. E' esattamente come lo si immagina, ma per quell'ora e mezza lo si tollera. Piacevole il giusto. E trash. (5)

L'estate del 2009: quella in cui Andrea perderà la verginità, quella in cui il fratello minore perderà il suo idolo. La storia delle loro prime volte – l'amore, il lutto – s'incrocerà con quella di un pensionato convinto di essere il loro nonno, di un cacciatore di alieni, di un viaggio verso la fine del mondo. Maicol Jecson è una commedia italiana e, a tratti, non ci si crede. La trama è vista e rivista. La voce fuori campo ricorda più quella di uno YouTuber qualsiasi che John Green. C'è una scrittura che va affinita, ma sulla resa non posso mettere bocca: non segue standard televisivi, è girato con intelligenza e con gusto internazionale, gli attori più giovani, ineditamente – anche merito del doppiaggio; ma perché doppiarli? -, non sono dei cani totali. Un bravo d'incoraggiamento ai registi, per l'idea e la buona realizzazione, e al cast di esordienti, capitanati del veterano Remo Girone. Maicol Jecson va visto come un vincente esperimento di prima commedia adolescenziale nostrana. Solo così può essere osservato con occhi diversi e un po' compiaciuti. E' la variante young adult di Il ragazzo invisibile, ma l'esperimento è dello stesso tipo. Territorio raramente esplorato, dunque, soprattutto con questi deliziosi toni indie. (6,5)

Titolo lungo, durata ridotta, un assassino mascherato che per i fanatici dell'horror, forse, è una vecchia conoscenza. The Town That Dreaded Sundown è il remake di uno slasher degli anni '70, e uno dice che noia. Ma questo film si rivela un'autentica chicca; un gioiellino insanguinato. Il regista è Alfonso Gomez-Rejon, nome di punta nella direzione di Asylum, il migliore degli American Horror Story, e ha un talento sorprendente. Nonostante la trama esilissima, uno Scream vintage che qualche colpo di scena ben piazzato lo regala, il film si fa guardare dal cinefilo attento con gli occhi a cuore. Non c'è una scena che non sia confezionata ad arte. Sangue contenuto, morti fantasiose e i volteggi funambolici di una macchina da presa che non sa stare ferma, in cerca delle angolazioni più originali, dei giochi naturali delle ombre, della qualità che nel genere di serie B per eccellenza si è raramente riscontrata. Il resto è roba che Craven, con più ironia e vivacità, ha già affrontato. Uno script più memorabile, al prossimo giro, e Gomez-Rejon potrebbe essere il profeta del nuovo modo di far paura, ma con classe. (6,5)

giovedì 21 maggio 2015

I ♥ Telefilm: The Royals, Bates Motel, New Girl IV

The Royals
Stagione I
Pensavo fosse amore, e invece... Voglio dire, per quanto si possa amare una serie come The Royals: scema, sfarzosa e incredibilmente pacchiana. L'erede apparente di quel Gossip Girl che ho seguito – e apprezzato – anche quando minacciato dal pericolo cancellazione. Dalle vite scandalose delle élite di Manhattan a quelle, altrettanto scandalose, ma senza dubbio più glamour, della Casa Reale il passo è breve. Vi siete mai chiesti che combinano lì a Buckingham Palace? Questa serie TV, distribuita in tempi record anche da noi, sguazza nel gossip, negli amori contrastati, nell'alto tradimento. La soglia tra satira e finzione è sottile. Il lezioso Liam di William Moseley, perfetto damerino innamorato di una bella popolana, è l'aspirante principe William. La sua gemella, Eleanor, interpretata da Alexandra Park, giovane attrice di cui mi appunto mentalmente il nome, va in giro senza la biancheria intima, si è fumata ormai anche il cervello, cerca con tutte le forze lo scandalo facile. Capricciosa e imprevedibile, è una scaprestrata Henry al femminile, con il fisichetto proprio non male della Effy di Skins. Accanto a un viscido zio, il leale Re Simon – che vorrebbe votare per l'abolizione della monarchia, disgustato da soldi sporchi e troppe svolte da soap – e soprattutto una sovrana che non ricorda granché la vegliarda Elisabetta. Regina delle Milf e di questa corte modaiola, una Elizabeth Hurley che non si scopre invecchiata di un giorno e, in quanto a sensualità e fascino, ha tanto da insegnare alle inesperte Ophelia ed Eleanor – trent'anni di meno, le curve al punto giusto, ma sprovviste di quell'aria strafottente da diva. The Royals ha l'accento british, ma è un'americanata grossolana e senza redenzione: ed è cosa buona e giusta. I primi episodi, esagerati e accattivanti, gli avevano fatto depositare sul capo regale il diadema ingioiellato di guilty pleasure dell'anno. Purtroppo, mi hanno trovato quasi favorevole al colpo di stato i conclusivi. Piatti, pigri, adagiati sugli allori. Quando The Royals diventa The Noyals, insomma, che fare? Resta un cast di cui non ci importa neanche un po' come recita, tanto è una notevole parata di bellissime e bellissimi; una colonna sonora alla moda e dalle entusiasmanti sfumature indie; gente sempre in tiro e impegnata a fare danni; la speranza, il prossimo anno, di una scrittura altrettanto tamarra ma più sensata. Solo allora, soddisfatto, potrò esclamare lunga vita alla Regina. E lunga vita a questo trash qui. (6)

Bates Motel
Stagione III
Parlavo di Bates Motel con la voce del rimpianto. Preso così, come teen drama a tinte fosche, male non era. Come riscrittura del capolavoro di Hitchock faceva però acqua. Ci si aspettava tanto, ci si aspettava altro. Non un'ambientazione spiccatamente liceale, non il politicamente corretto, non un Norman al venticinque per cento, da dividere con un sottobosco di spacciatori e piccoli mafiosi di paese di cui, sinceramente, a nessuno fregava. Avevo visto le prime due stagioni con un po' di noia e la paura costante della cancellazione: sì, avevo paura, perché – io che eppure faccio fuori più serie tv che zanzare, d'estate – avevo fiducia per il futuro della serie e non volevo che finisse lì. Così. Con una sufficienza regalata per bontà a un tenero germoglio di maniaco omicida. Questa volta – con una misteriosa ospite che, morendo, lascia a mamma e figlio una pendrive zeppa di segreti – le sottotrame viaggiano a una velocità diversa e ci sono scarsi elementi di disturbo a separare lo spettatore dal cuore pulsante, nero, vero della serie: accanto a un nuovo giallo, infatti, solo la romantica vicinanza tra Olivia Cooke e Max Thieriot ha un'importanza rilevante. Freddie Highmore e Vera Farmiga, ottimi anche con i passati copioni, striminziti e scialbi com'erano, adesso hanno l'occhio della macchina da presa puntato addosso. Nati per il cinema e prestati al piccolo schermo, per un'operazione che solo ora si scopre promettente, sono bravissimi e lo dimostrano. Lui, con un viso innocente che ti ispira sberle; lei, mamma coraggiosa che è nata tra i guai e, inconsapevolmente, ne ha messo al mondo un altro. Come smettere di volere bene a un figlio borderline? Come strapparlo da sé o, ancora, dalla naturale propensione a far del male? Più affiatati che mai, catturano e intimoriscono per la svolte che, a breve, la storia potrebbe imboccare: l'immagine celebre di un albergatore psicotico con lo scheletro della madre in cantina... Per adesso, a un passo dalla fine, continuano a fingersi normali; ma lui sta per diventare il Norman che tutti noi conosciamo, e infondo vogliamo – nei suoi black out indossa la vestaglia di Norma, vede il suo spettro accanto al letto nelle notti d'amore, ha pulsioni sessuali nei suoi riguardi -, e lei commuove quando cerca di avvicinarsi a un fratello rinnegato, incestuoso, che le ha reso l'infanzia sopportabile e bruttissima in un colpo solo. Con una Emmy Rossum a riposo e una Tatiana Maslany divina al solito, ma che inizia ad annoiare, la bella Vera – potentissima – non vi assicuro vincerà un Golden Globe per la sua vulnerabile e umana Norma, ma avrà un posto d'onore nella mia lista di fine anno. Orgoglioso, allora, di dire che non ho lasciato sfitta la mia stanza presso l'albergo di una delle mie famiglie televisive preferite e che, nonostante i limiti, Bates Motel fa enormi passi in avanti e si fa perdonare, episodio dopo episodio, tutto il poco che è stato. (7)

New Girl
Stagione IV
L'estate scorsa mi sono innamorato di New Girl, con qualcosa come tre anni di ritardo. Ho recuperato nel giro di un paio di settimane le tre stagioni che mi ero perso e, nonostante la terza fosse leggermente sottotono, si era rivelato una compagnia perfetta. Contro il caldo, lo stress, la noia da esami. Ricordo gelati, ventilatori e New Girl. Pochissimo mare, purtroppo. Ho avuto un rapporto senz'altro meno intenso con questa quarta stagione, e non per colpa di qualcuno in particolare. Che Jess si sia pettinata la frangia in un altro modo e che la sigla sia cambiata d'un tratto mi hanno sì causato un piccolo shock, ma il coccolone è venuto e se ne è andato in tempi ragionevoli. Il guaio con le sit-com è che venti minuti a settimana sono pochi e vanno guardate tutte insieme: ci vogliono abbuffate, mica appuntamenti a spizzichi e bocconi. Me lo trascino dall'autunno scorso, insomma, perché o aspetto tre anni o non so aspettare e, tra pause e ritardi, il colorato mondo di Jessica Day – in cui c'è sempre ma proprio sempre il sole – mi ha incantato leggermente meno del previsto, diluito com'era. Ma resta il solito. Spassoso, leggero, a fuoco. Chi trova un coinquilino come loro cinque trova un tesoro; allora perché cambiare formazione? L'insicuro Winston è entrato in polizia; Coach – per il colpo di fulmine con una seducente violoncellista – medita di abbandonare il nido; Cece e Schmidt si amano ma non se lo dicono; Nick fa Nick – beve, mangia, si incazza: al solito – e Jess, non più parte di una coppia storica, diventa vicepreside, vede sposarsi papà e sperimenta gli amori a distanza con un bel supplente dall'accento inglese. Ma poi davvero ha importanza quel che combinano? Insieme non conosco serietà e ci fanno ridere, tra siparietti e fraintendimenti, con il loro essere amichevoli, umani e tontissimi. Resta sempre adorabile la mia amata Zoey Deschanel dai vestiti a fiori e dagli occhiali a fondo di bottiglia – e leggo che avrà a breve un bambino, ma non sono io il padre – e il finale di stagione, aperto e con la prospettiva di un lieto fine sperato e atteso, è uno dei più soddisfacenti dell'ultimo periodo. Il prossimo anno, da brava formichina, permetterò ai ventidue episodi totali di accumularsi come da proposito? (6,5)

lunedì 18 maggio 2015

Recensione: Raccontami di un giorno perfetto, di Jennifer Niven

Tu sei tutti i colori in uno, nel loro massimo splendore.

Titolo: Raccontami di un giorno perfetto
Autrice: Jennifer Niven
Editore: De Agostini
Numero di pagine: 400
Prezzo: € 14,90
Sinossi: È una gelida mattina di gennaio quella in cui Theodore Finch decide di salire sulla torre campanaria della scuola per capire come ci si sente a guardare di sotto. L'ultima cosa che si aspetta però è di trovare qualcun altro lassù, in bilico sul cornicione a sei piani d'altezza. Men che meno Violet Markey, una delle ragazze più popolari del liceo. Eppure Finch e Violet si somigliano più di quanto possano immaginare. Sono due anime fragili: lui lotta da anni con la depressione, lei ha visto morire la sorella in un terribile incidente d'auto. È in quel preciso istante che i due ragazzi provano per la prima volta la vertigine che li legherà nei mesi successivi. I giorni, le settimane in cui un progetto scolastico li porterà alla scoperta dei luoghi più bizzarri e sconosciuti del loro Paese e l'amicizia si trasformerà in un amore travolgente, una drammatica corsa contro il tempo. E alla fine di questa corsa, a rimanere indelebile nella memoria sarà l'incanto di una storia d'amore tra due ragazzi che stanno per diventare adulti. Quel genere d'incanto che solo le giornate perfette sono capaci di regalare.
                                          La recensione
Un lustro è passato da quando avevo sedici anni: l'età giusta per essere il protagonista di un romanzo young adult. Be', non troppi, uno dice. Ma, ripensandoci, cinque sono gli anni delle elementari e, ancora, del liceo; cinque sono gli anni che in media impieghi a laurearti, quando tutto, ma proprio tutto, va secondo i piani. Cinque anni sono un po', anche se non sembra, e sembrano chissà quanti una volta passati i venti. La maturità liceale, il superamento di una soglia che non sapevo neanche di avere valicato, i sedicenni che – ancora a casa, lo zaino in spalla, la strafottenza degli immortali – ti sembrano dei bambini anche se continui a sentirti bambino anche tu, a dirla tutta. Hai presente quando fai il compleanno e i tuoi amici ti chiedono come ci si senta a essere di un anno più vecchio? Ridi, fai spallucce, rispondi sempre uguale. Mi sentirò per sempre sempre uguale? Mi accorgo che sono cresciuto davvero quando leggo di adolescenti e mi trovo a contare gli anni sulle dita. Conto cinque anni, mi finiscono le dita di una mano, e mi viene in mente che non sono mai stato bravo in matematica e che il tempo mi è sfuggito. Da bambino, quando ero un lettore in erba e leggevo di ragazzi ribelli che mi sembravano inarrivabili, i sedici anni li avevo aspettati. Ma li ho passati senza accorgermene, come quando in autostrada sbagli casello ed è tardi. Metto la mia maturità in relazione a questo. Gli attori ci passano quando dal ruolo del figlio, nel film successivo, finiscono per interpretare il ruolo del padre? Da blogger, mi misuro invece per pile di libri e età media dei protagonisti di quel che ho tra le mani. Non ho più l'età dei romanzi young adult, ma non per forza per i romanzi young adult. Questo strano, stranissimo ragionamento – voi lo avete capito? - mi ha fatto compagnia mentre martedì mattina, in treno, leggevo Raccontami di un giorno perfetto. Nonostante il titolo italiano mi piacesse molto, e nonostante mi piacesse ancora di più la sensazione di avere davanti una storia d'amore nelle mie corde, in circense equilibrio com'è tra il romantico e il deprimente (e sì, in equilibrio anche sui cornicioni delle torri campanarie), il romanzo uscito in contemporanea, e a breve un film – non mi urlava a gran voce di farsi leggere, prima che iniziassero a fioccare, almeno, le più contraddittorie delle recensioni. Dovevo sondare il terreno di persona: indagare. Mi sono deciso quando ho visto un'intervista dell'autrice e la sua gentilezza, quasi d'altri pianeti, mi ha toccato. Una persona così dolce e a modo non poteva scrivere storie brutte. 
E Raccontami di un giorno perfetto dolce lo è, a modo non troppo – con quel filino di politicamente scorretto che mi fa sorridere parecchio -, ma mi è piaciuto. Perché Jennifer Niven è una persona gentile e scrive molto bene. Francamente, in questa sua storia giovane e disperata ci ho sguazzato e non ho avuto paura delle acque agitate. Mi sono affezionato ai protagonisti nel momento in cui li ho visti lassù in cima, e scoprire che Finch era più spigliato e allegro del previsto e che Violet si discostava sì e no dalla reginetta del ballo tipo, con un peso nello stomaco, mi ha sorpreso in positivo e mi ha aiutato, strada facendo, a disegnare nuovi tratti su quelle vite in corso di svolgimento. Su quei problematici destini dai lavori in corso. Poi, la ricerca del posto – e del giorno – perfetto, i sassolini contro la finestra, una prima parte leggerissima e una conclusione che invece pesa eccome. Se Violet può risultare spesso sottotono, Finch è invece un calamita: attira guai e attenzioni. E' un buco nero. Protagonista carismatico, originale e profondo, che sfugge al cliché di cattivo ragazzo perché lui è cattivo solo con sé stesso. Il pericolo: lasciarlo solo nella sua testa. Dove ci sono le scintille, la negatività cronica, minuziose, e a tratti curiose, statistiche su come farla finita. Mi è stato a cuore per i post-it colorati, le parole belle ritagliate dai libri brutti, le pareti magiche di una stanza ora rossa e ora azzurra, un profilo Facebook che conta una sola amica e una chat in cui si parla citando Pavese e la Woolf. Gli si perdona anche il fatto di essere un bel tipo – ma è nei patti, perché non ci sono più gli sfigatelli di una volta in certi libri pensati per certi lettori – in virtù del fatto che, se non fosse per il metro e novanta e gli occhi blu che solo nei romanzi, sarebbe uno di quei personaggi che mi vanno a genio e che, in mancanza di aggettivi, definisco semplicemente "un po' così". Alla Charlie di Noi siamo infinito
Con le tasche piene di sassi. Difetti: un protagonista troppo popolare per essere un impopolare, ma ovviamente si scherza; la discontinutà dei toni – che poi per me è un pregio grande: io ero nel cervello di Finch e volevo essere un giorno tristissimo e un giorno felicissimo, per condividere con lui tutto, il bene come il male –; le assenze a capitoli alterni di un lui interessantissimo, contrapposto a una lei poco memorabile. Inoltre, un finale tirato forse per le lunghe. Raccontami di un giorno perfetto è la storia di una vita in un guardaroba, della ricerca di un portale sul fondo di un lago leggendario e del cercasi disperatamente anima gemella per condividere un po' di bellezza. Ma non allontanandosi mai dal buio dell'armadio di Theodore Finch. Ci sarà abbastanza aria per due? Si riuscirà a mettere la testa fuori, in nome di un amore tenero e a prova di vertigine? Quattrocento pagine con tematiche importantissime e io che solo con questa Jennifer Niven mi rendevo conto di non ricordare più come suonassero i miei pensieri nell'età in cui Violet e Finch meditavano di buttarsi giù da un cornicione. E per quale motivo, poi? Magari, in un gioco di ruolo, mi ero immaginato loro coetaneo, ai piedi della torre, e avevo fantasticato di salvarli tutti. Con un epico se vi buttate voi, mi butto anch'io, capito? Ho avuto una fulminazione ho realizzato che quella – ma che? - che non era più cosa mia. C'erano chilometri e chilometri, un intreccio di fantasia e quei famosi cinque anni a separarci. Dico questo non so esattamente perché. Finch, che pensa troppo, mi avrà fatto pensare troppo. A quando ero più fragile e disarmato, e a quando sognavo di fare lunghi viaggi in macchina, con la patente fresca fresca, proprio come loro, ma invece non l'ho fatto. Ma, sarà un pensiero banale, se c'è una cosa che ho imparato da questa storia di ragazzi stanchi di vivere a tre metri sopra il cielo, prima di schiantarsi a terra, è che non è mai troppo tardi.
Loro lasciano un buco nell'asfalto. E nel cuore. Ma l'urto, alla fine, è evitato
Finch e Violet sanno volare.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Dido – White Flag


And I will go down with this ship 
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door. I'm in love...

giovedì 14 maggio 2015

I ♥ Telefilm: Revenge, Secrets and Lies, Weird Loners

Revenge
IV (e ultima) Stagione
Ha avuto un inizio non dico promettente, ma dignitoso, questa quarta stagione, e grande esclusa, sin dal primo episodio, la suadente voce narrante che aveva accompagnato i fedelissimi nelle stagioni precedenti. I colpi di scena dello scorso anno non hanno lasciato scie degne di nota e i morti ammazzati, resuscitati secondi le Sacre Scritture e le sceneggiat(ur)e di Mike Kelley, sono lì che vegetano sullo sfondo. Avevano più utilità quando si pensava non fossero più tra noi. Si aggiungono comprimari – la provocante Louise – e altri purtroppo non si smarriscono lungo il tragitto – l'odiosa Margot. I personaggi zavorra trovano redenzione e abbandonano a forza la nave. I più cari – Nolan, ad esempio, con una vita sentimentale di cui non ci frega niente – perdono il loro smalto. Restano la crudele Victoria, villain cult, e Emily, contessina di Montecristo che, risolto un enigma, potrebbe starsene tutta quieta, se non fosse che negli Hamptons è sempre guerra e che c'erano ventidue episodi da riempire d'aria fritta. Revenge si perde e non si ritrova. Ha almeno il coraggio di finirla qui: davanti alla prospettiva estrema della cancellazione, sceglie un epilogo sì definitivo, ma talmente rose e fiori da fare impallidire Glee. Se deludono gli sviluppi più recenti, non si può fare affidamento neanche sullo charme di una protagonista venerata anche da me. Quella Emily VanCamp che aveva il senso della misura anche nell'esagerazione. Mentre la sua rivale ringiovanisce, la bella Emily perde il controllo – del copione e della forma fisica. Addio charme, moda, riccioli d'oro: trasandata, mascolina, arruffata. Che fine ha fatto la bambolina che faceva con l'arzilla Stowe a gara di femminilità e cambi d'abito? Revenge era anche quello. Frivolo e, in mancanza di profondità, tutta apparenza. Insomma: io so due cose in inglese. Che the pen is on the table significa “la penna è sul tavolo”. E che revenge sta per “vendetta”. Perciò che Revenge c'era senza vendetta? Emily Thorne, la mia imbattuta ed elegante reginetta trash dei lunedì sera, non aveva più nulla da dire. Nessun sassolino da togliersi nel tacco dodici, qui diventato scarpa da ginnastica puzzolente. La sua missione è compiuta: quella che fa di Revenge Revenge, dico. E che cos'era la serie della Abc, venuto meno il suo perché? Sempre un piacevole modo per ammazzare la noia, ma un controsenso. A testimoniare che il trash è bello quando dura poco. (5,5)

Secrets & Lies
Stagione I
Qualche settimana fa, al telegiornale, hanno mandato in onda le scene dell'arresto di Bossetti. Che sia colpevole o meno – sono solito lasciarmi aperta l'ipotesi dell'innocenza, perché la giustizia italiana fa spesso cilecca e i colpi di scena, anche nelle storie vere, possono saltare fuori, benché qui sembri tutto già scritto -, di quelle immagini ho odiato l'accanimento. Ho pensato che quella persona – colta di sorpresa a lavoro – a casa avesse una famiglia. Se lui ha fatto quel che ha fatto, con l'arresto in diretta, ha ucciso anche la fiducia dei suoi figli; se invece non l'ha fatto, cosa sarà dopo la gogna pubblica della sua vita? Mi è venuto in mente questo caso di cronaca guardando Secrets & Lies. Un bambino assassinato, un padre di famiglia accusato, le persecuzioni di vicini sospettosi e di poliziotti instancabili ai danni di uno che ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. La vita da sogno di Ben Crawford crolla sotto l'ombra del sospetto, mentre la moglie si allontana e fuori ci si prepara a un Natale solitario. Le decorazioni delle case adiacenti, i flash dei reporter, le porte che sussultano sotto i tocchi insistenti della detective Cornell, un segugio che fiuta l'inganno ovunque. L'originalità non è di casa. Secrets & Lies ha pochi spunti per uscire dal suo anonimato e affinità con gli applauditi Broadchurch e The Missing. Messi da parte i paragoni, si può però ammettere che, a sorpresa, sa difendersi. Gli episodi catturano. I pezzi forti sono nei finali di ciascuna puntata, appositamente pensati per mantenere alta la suspance, e nella struttura delle dinamiche familiari, importanti quanto la risoluzione del caso. Nel cast, i bravi Ryan Philippe e Juliette Lewis. Lui, idolo dei film anni '90, con il guaio di avere geni generosi: invecchia bene; è bello e biondo come un tempo; dimostra la metà dei suoi quarant'anni. Nei miei giorni migliori sembro suo nonno. La natura, invece, è stata forse meno gentile con la Lewis: sfiorita, ma adatta a ruoli di spessore. Qui ha tra le mani una figura di poche parole e dalle espressioni del viso contate. In un climax continuo di bugie e depistamenti, si arriva presissimi a un epilogo definitivo ma giusto, che potrebbe considerarsi anche autoconclusivo, se si amano quei finali sospesi, tesi, un po' beffardi. Il season finale, per me, è stato l'affermazione della buona riuscita del tutto. Sarà che amo particolarmente il non detto, anche quando resta tale. (7)

Weird Loners
Stagione I
Quattro “strambi solitari” – alcuni per scelta, altri per scelta degli altri – che si scoprono dirimpettai. Due uomini, due donne. I simpatici disastri della convivenza, gli immancabili amori capricciosi, lo spasso dei qui pro quo. Questo Weird Loners l'ho guardato in una sola sera. Non avevo niente di meglio da fare e mi andava di passare due ore – in totale, sei episodi di venti minuti ciascuno – in compagnia di qualcosa di fresco e divertente. Magari con il famoso marchio Fox, che da New Girl a The Last Man On Earth di rado, in materia di sit-com, delude. A deludere non delude – sarà che la delusione è generata da aspettative alte, e questo Weird Loners nessuno l'ha sentito nominare – ma non si ricorda, a fine visione. La colpa, adesso, della durata ridotta o di una cattiva scrittura? La risposta, a metà strada: non c'è il tempo materiale per scoprire se quello che vedi ti piace o no, ma non c'è il dubbio che i creatori – gli stessi della fortuna serie con la mia amata Deschanel – non siano al loro meglio eppure sappiano il fatto loro, in quanto a tempi comici giusti e a battute che fanno ridere con un niente. Già visto tutto, compresi i personaggi. Nel senso che sono attori riciclati da altri serial e che non hanno personalità innovative. L'imbarazzante nerd Nate Torrence – sì, quello che c'è in qualche film di Adam Sandler; Zachary Knighton, il piacione di turno, che recitava nel piacevole Happy Endings prima della cancellazione; Becki Newton – la mitica segretaria Amanda, in Ugly Betty – che, solita single sfortuna, fa una dignitosa figura. Evitabile, ma onesto. Di poca utilità, ma non sconsigliabile. Come una di quelle commedie americane che, carine e un po' scontate, ti regalano un sorriso e via: finisce lì. (6)

martedì 12 maggio 2015

Recensione in anteprima: La morte avrà i tuoi occhi, di Josh Malerman

Che aspetto ha il mondo, oggi? Lo riconoscerai? E' grigio? Gli alberi sono impazziti? I fiori, le canne, il cielo? Il mondo intero è uscito di senno? Combatte contro se stesso? La terra rifiuta i suoi oceani? Il vento è aumentato: ha visto qualcosa? E' pazzo anche lui?

Titolo: La morte avrà i tuoi occhi
Autore: Josh Malerman
Editore: Piemme
Numero di pagine: 306
Prezzo: € 17,00
Data di pubblicazione: 12 Maggio 2015
Sinossi: Là fuori, in un mondo dove nessuna certezza è più tale, c'è qualcosa di terrificante. Qualcosa che non deve essere visto. Chi è così folle da tenere gli occhi aperti, va incontro a un destino spaventoso. Cinque anni dopo i primi episodi di terrore, pochi sono rimasti a popolare la terra. Vivono bendati, in una cecità autoimposta che li confina in un'oscurità perenne, in case buie e polverose con porte e finestre sprangate. Nessuno di loro ricorda di che colore è il cielo, com'è fatta una nuvola, quanto può abbagliare la luce del sole. Come Malorie che, rimasta sola con i suoi due bambini, ha soltanto una speranza: attraversare il fiume, bendata, e raggiungere un luogo dove alcuni uomini stanno combattendo contro quel male senza nome. Ha aspettato quattro anni perché sa che il fiume, a un certo punto del percorso, si divide in quattro rivoli. E, per scegliere quello giusto, Malorie dovrà fare qualcosa che non fa da anni: aprire gli occhi. E sfidare la sua stessa mente per non cedere alla follia.
                                          La recensione
"L'uomo è la creatura che lui stesso teme." 
Una mamma, scalza in una casa buia, i capelli spettinati, magari un pigiama sbiadito, va a svegliare i suoi piccoli. Le finestre chiuse, ma fuori è già giorno. Gli uccelli, nella loro gabbia, cantano: il suono che fanno somiglia a un allarme antincendio. Ora di andare a scuola. Il Bambino e la Bambina – privati del nome, condannati per sempre al buio – si vestono, indossano da bravi il loro zaino, non si lamentano. Risparmiano sulle parole, il cibo, la luce. Allevati come segugi ad assecondare il più utile dei cinque sensi in un mondo da affrontare tutto ad occhi chiusi: guidati dall'udito. Escono di casa che è ancora presto, ma non hanno un pulmino giallo, bravissimo sui compiti e compagni di giochi ad aspettarli. Una panoramica di quel quartiere in rovina di un mondo in rovina per precisare che quella non è la storia di una famiglia americana. Il che non è del tutto corretto: Malorie, un figlio per mano e gli occhi bendati, i piedi che si muovono accorti lungo i giardini di un vicinato decimato, è il soggetto principale di una grande storia di famiglia; solo, ha lo sfondo nero dell'apocalisse. Cinque anni prima, un boom di suicidi inspiegabili e la necessità di barricarsi in casa come topi in una tana, per non avere contatto alcuno con le creature che hanno rubato i nostri spazi: sono silenziose, invisibili, misteriose. Non chiederti cosa vogliono. Non guardarle. Chi le ha fissate negli occhi – ma hanno occhi? - è diventato pazzo. Malorie non esce da allora, e i suoi figli non sono usciti mai. Il romanzo ha inizio con il loro primo e falso giorno di libertà, in fuga da una casa con la moquette e le pareti luride di sangue, verso un fiume che scorre e una voce – finalmente una voce umana, dopo tanta solitudine - che chiama. E dice vieni qui, ché c'è un posto: speranza. Il romanzo di Malerman si è imposto in cima alle mie letture, arrivato con qualche giorno d'anticipo, grazie alla sua copertina. Osservatela, in libreria. La “o” di “morte” è come un oblò e le rondini in picchiata si vedono da quello spiraglio rotondo, stampate sulla copertina rigida. E' tridimensionale. Ci giocherellavo, facendo scorrere le dita lungo il taglio nella carta, e ho iniziato a leggerlo sovrappensiero. Mi aveva attirato, mesi prima, ma l'altro giorno non sapevo... Il booktrailer ben confezionato, l'autore famoso in un campo diverso da quello letterario, la prospettiva di un film mi insospettivano. 
Temevo delusioni. In trecento pagine, predisposto al fiasco, ho temuto sì, ma il sentirmi esposto agli artigli – ma hanno artigli? - degli invasori, mentre facevo miei gli occhi bendati di personaggi che guidano il lettore, al buio, tra impieghi quotidiani e piani persi in partenza. Se la trama non si rivela troppo originale, si apprezza però la struttura nata per farsi cinema e la curiosa limitazione dei punti di vista: La morte avrà i tuoi occhi è soprattutto la storia di Malorie, ma è raccontata in terza persona e si apre, capitolo dopo capitolo, ai caratteri vari di quelli che saranno i suoi compagni di viaggio durante i nove mesi di “dolce” attesa. Le tensioni interne, la repulsione dell'esterno. Sei Malorie che partorisce da sola, Felix che va al pozzo, Tom che strimpella al piano Cole Porter, Don e Gary che seminano dubbi. Ma sei limitato, bendato, imprigionato come lo sono loro. Vivi al di qua della loro benda sugli occhi, pensi con le orecchie, leggi di continuo tra le sfumature di un panno nero. Un fruscio fa saltare, un ramo spezzato spezza il fiato: sarà il vento, o altro? Intanto, nella loro gabbia, gli uccelli urlano. Come quelli che si portano appresso gli operai delle miniere, per presagire gli eventuali crolli. 
Con la scusa perfetta di una cecità forzata, Malerman, che ha una personalità stilistica da mettere ancora a fuoco ma un ottimo trampolino di lancio, ti distoglie dal pensiero che la storia di Malorie, in altri modi, sia già stata raccontata altrove e fabbrica atmosfere dense di fascino e spifferi gelidi. Non scorre il sangue, non c'è un serial killer da cacciare, ma la sua apocalisse alternativa di cieli che crollano e genitori che allevano imperturbabilmente la loro prole, nonostante il futuro sia una tempesta di punti di domanda, inquieta ed emoziona.
Al regista del Sesto senso, e parlo di quello che era ancora artefice di storie di un certo peso, non del successivo, purtroppo non ruba un epilogo psicologico e sferzante dei suoi. Eppure la fine – e l'immagine di una barchetta alla deriva, e di due piccoli eroi che remano, e del sole all'improvviso – mi piace. Tira le fila di un romanzo non straordinario, ma che ha il pregio di essere costruito con consapevolezza. Si ferma e potrebbe benissimo ripartire da dove l'avevamo lasciato. La morte avrà i tuoi occhi ha una trama accattivante, da film dell'orrore, e una dedica lunga e toccante che l'esordiente Josh Malerman, cantante e scrittore, rivolge alla donna che l'ha messo al mondo. Scelta curiosa: ho questa idea che le madri non leggano storie di paura, e voi? Mia madre, al posto della Signora Malerman, mi avrebbe ringraziato, si sarebbe anche un po' commossa, ma un romanzo così, con spunti fantascientifici e il ritmo del thriller, probabilmente non lo avrebbe letto. Già papà che russa forte contribuisce a toglierle il sonno, di tanto in tanto. Invece Josh Malerman – leader di quegli The High Strung a cui dobbiamo la Luck you got che risuona da sei stagioni nella sigla cult di Shameless – avrà pensieri truci e farà il rock 'n roll, ma scrive con musicalità e conquista, anche il pubblico femminile, con una fiaba dark dotata di un incipit diretto e di grande sensibilità. Ragiona come M. Night Shyamalan – e qui c'è il meglio, a tratti, di The Village e di E venne il giorno – ma fa sua, con l'ammirazione e l'invidia di noi, uomini grandi e grossi che vediamo donnine minuscole mettere al mondo miracoli, la forza delle donne. Quelle che, in una casa assediata da demoni, si domandano se accecare i loro figli in culla, così che non sappiano quanto è azzurro il cielo, o se farli vivere nella mancanza. Quelle che, negli incidenti automobilistici, sollevano le macchine.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Negramaro – Via le mani dagli occhi


lunedì 11 maggio 2015

Mr. Ciak: La famiglia Bélier, Hungry Hearts, Sarà il mio tipo?, Lost River, The Last 5 Years, It Follows

La famiglia Bélier era finito nella lista delle prossime visioni da sé. Destino di ogni commedia francese in cui mi imbatto. E la storia di questa famiglia speciale è tutto quello che è stato detto, ma io l'ho trovata troppo americana per i miei gusti. Pensata per il remake lampo. Svendutella. A me il cinema dei cugini d'oltralpe piace invece quando è colto, raffinato, snob. Sono abituato a francesi che hanno tutto sotto controllo, eppure – nonostante la trama lineare – qui ci sono svolte inserite a casaccio. La candidatura del padre, la buffa prima volta del fratello, la storiella d'amore della protagonista con uno che entra in scena come Edward Cullen e rimane poi nell'anonimato: tutto accennato e messo in ombra dal sogno di diventare cantante e da un provino, nelle scene conclusive, che so ha commosso molti. Ho riso poco - risate concentrate soprattutto nella scena del ginecologo, esilarante - e purtroppo le lacrime non sono arrivate. Il resto, tra battute non troppo fulminanti e sottotrame abbozzate, è una sorta di I ragazzi stanno bene che indugia troppo a lungo dalle parti del film per teenager con, chessò, Hilary Duff. Carino ma deludente. Mi sento come il Grinch a Natale, perché gli ho trovato un pregio solo e si chiama Louane Emera: questa ragazzina bionda, che ha fatto The Voice ed è carinissima, rotonda, spontanea. Ma tanto ho la coscienza pulita. Lo sanno tutti che sono buono, ma a pranzo – e al cinema – dai Bélier non vi consiglio entusiasticamente di andare. (6)

Ragazzo conosce ragazza nel bagno di un ristorante. Ridono, si sposano: mandano avanti veloce. Sembrano i minuti iniziali di una commedia indie. E quella tra Jude e Mina una grande storia d'amore. Niente di più sbagliato; niente di più giusto. Hungry Hearts è un amore tirato per i capelli, nutrito a suon di bugie e cibi ipocalorici quando unica soluzione sarebbe stato abortirlo sul nascere. Lasciarsi andare, strade separate e via, prima che Mina diventasse una madre folle e Jude un padre sceso a compromessi. Prima che un innocente ne pagasse caro il prezzo. Il dramma di Costanzo è una mosca bianca che ronza, fastidiosa ma alta, nel panorama italiano. A metà tra i drammi indipendenti che non ci sono estranei e il thriller psicologico, genere che al contrario non appartiene alla nostra genetica. Dopo le atmosfere orrorifiche di La solitudine dei numeri primi, il regista ha la storia adatta e un cast all'altezza. Sullo sfondo di una New York caotica e lirica, l'ossessione serpeggiante, e gli abbracci materni che diventano una morsa. Un Rosemary's Baby ai tempi del veganesimo, con la scusa del troppo bene. Lento, gelido, straniante. A colpire, la forza delle citazioni e un uso ipnotico della macchina da presa che schiaccia, deforma e inchioda le facce affascinanti, malate, stambe di Driver e di una spregevole Rohrwacher. Lei, per me, più brava di lui: coraggiosissima. Peccato che il doppiaggio appiattisca l'intensità dei loro dialoghi. Avrei voluto sentire il brutto inglese di lei, lui che storpiava Modugno. Cuori affamati, corpi a digiuno e rabbia che si nutre d'altra rabbia però si vedono. E come attraverso uno spioncino che ci sbatte in faccia la nostra impotenza di spettatori. (7)

Ecco, qui ci avviciniamo. Alla mia commedia francese. Alle giusta proporzione tra semplicità e impegno. Il titolo italiano prometteva risate e un epilogo solito. Non che quello originale fosse diverso, non che la trama brillasse: professore di filosofia in esilio, intreccia una relazione con una ragazza che non ha grossi sogni. Lui frequenta convegni, lei si esibisce al karaoke. Lui legge saggi, lei ha la fissa per i rotocalchi e la Aniston. Uno orgogliosamente parigino, l'altra – sia nel nome, sia nello studiato look – esterofila. E ci provano sì a venirsi incontro. Ma Clément è scettico, perfino sui dettami del cuore; Jennifer, a un bivio, è stanca di inseguire l'uomo impossibile. E' lei a dire il primo e unico ti amo; è lui a tenere gli occhi aperti mentre si baciano. La freddezza del prof e il romanticismo della parrucchiera sono due modi di vedere la stessa storia. Il punto di vista dello spettatore, però, finisce per coincidere con lo sguardo limpido e comune della bravissima Emilie Dequenne – la Rosetta dei fratelli Dardenne ormai diventata donna. Ma è in lui, opportunista e misantropo col volto impenetrabile di un ottimo Loic Corbery, che mi sono un po' rivisto: brutto ammetterlo, ma viva l'onestà. Parte con la consueta leggiadria e con ritmi perfetti questo Sarà il mio tipo?, per poi imboccare l'inconsueta strada dei drammi da Sundance. Allora sorprende, per l'amaro in agguato. Per quel titolo originale, Ne pas son genre, che è simile al nostro, ma manca del punto interrogativo. Non c'è dubbio, è una dura presa di coscienza: non è il mio tipo. Illudersi del contrario è un attimo, un errore, una bugia. (7+)

Nonostante sia bello e bravo in quantità uguali, Ryan Gosling lo si invidia un botto, ma non lo si odia. Si attendeva, dunque, il suo esordio alla macchina da presa. Lost River si fa fatica a metterlo a fuoco. Non è quel che sembra, ma non si sa cos'è: è girato da dio – anche se, a sprazzi, sembra più un lavoro di Nicolas Winding Refn che dell'onnipotente – ma è scritto da chi non sa bene come e cosa comunicare. Un puzzle di storie dolci e crudeli, in un'oscura fiaba che ha le ambientazioni surreali, i lupi cattivi esagerati, personaggi dai nomi parlanti e una morale della storia che sfugge. La procace Christina Hendricks è una madre che, per campare, ogni notte lavora in un club di sensualità e massacri. Suo figlio, perseguitato dal bullo Matt Smith e innamorato di Saoirse Ronan, la aiuta come può, rubando rame e cercando Atlantidi sommerse. Ma non c'è un attore che brilli davvero sugli altri, tant'è vero che la particina della Mendes è aria fresca e l'iconica Barbara Steele strega. Tra rimandi, fuoco e acqua, immagini sanguinose e suggestive e la ricerca della fuga. Tecnicamente all'avanguardia, ma secco, troppo, nella trasmissione del messaggio. Messaggio che ci sarà, ma personalmente ho stentato a recepire. Come dire che sia brutto? Come dire che sia bello? Si opta, perciò, per un è già finito; tutto qui? Resoconto di un fantasmagorico videoclip muto. Senza canzone. (6)

The Last Five Years è un altro spettacolo di Broadway che fa il grande salto. Fatto strano, perché quando si immagina il musical non si fa che pensare agli epiloghi felici. Eppure le canzoni vivono di cuori spezzati, fiducia infranta e continui facciamola finita. Into the woods però era una fiaba Disney, e vedi che noia. Figuriamoci se Like Crazy o Blue Valentine diventassero una ballata sull'amore tradito, sorretta da un cast di due attori. Inaspettatamente  purché piaccia il genere – si rivela un musical moderno e adulto, originale nella sua normalità. Cathy e Jamie si innamorano subito e si disinnamorano in fretta: lei, il sogno dello spettacolo e le insicurezze della moglie oggetto; lui, prodigioso scrittore che colleziona riconoscimenti e musi lunghi. A reggere il tutto, i bravissimi Anna Kendrick e Jeremy Jordan. Che lei canta e recita bene lo testimoniano quella Cups Song tormentone e una nomination all'Oscar, mentre le doti di lui – assodate per chi ha seguito Smash – si fanno ricordare grazie a note altissime e al personaggio più umano della storia. Unico appunto: alcune canzoni, registrate in presa diretta, sarebbero state meno precise ma più intense, con un sospiro o un singhiozzo piazzato al momento giusto. LaGravenese, con la leggerezza di chi da tanto è tra gli addetti ai lavori, confeziona un dramma sentimentale dal finale annunciato, in cui i punti di vista di lui e di lei si alternano, passando da toni effervescenti a maturi faccia a faccia. E non ci si annoia, nonostante la musica perenne e il tema agrodolce. Con l'allegria contagiosa delle prime volte che sfuma canzone dopo canzone, mentre i due si allontanano piano, tra loro e da te, senza lasciarti amareggiato. (7)

It Follows non è il classico horror di nicchia che si pesca tra i film inediti e si guarda con aspettative zero. Su di lui, pesavano attese poderose. Chi dice sia il film di genere più bello dell'ultimo decennio ha incuriosito e ha detto anche una cazzata da guinness. Non so se le attese mi hanno reso troppo fiducioso, ma al posto del troppo io ho trovato il nulla. Mi ero informato a stento sulla trama e, per un'ora e quaranta, paziente, sono andato in cerca di un senso. Horror indipendente, premiatissimo, parla di un terrore che si diffonde come una malattia venerea. Attraverso un rapporto sessuale, un'adolescente contrae una maledizione e unico modo per liberare la sua casa infestata – fior di metafora - è fare ancora sesso, per passare sortilegio e gonorrea al partner successivo. Il meccanismo della videocassetta di The Ring, insomma, ma con la firma della Durex. Disposta ad aiutare la bellissima Maika Monroe, spalla di Dan Stevens nell'idolesco The Guest, al gioco della patata bollente - altra metafora - una fila lunga così. Riuscirà la nostra eroina a darla via prima che oscure entità la facciano pentire della notte in cui ha ceduto all'altro sesso? Trama ridicola, personaggi insensati, una regia particolarissima ma che dopo un po' viene a noia. Mitchell scimmiotta Carpenter – vedi le sonorità vintage della colonna sonora e l'ambientazione indefinita: kitsch e con sprazzi futuristi - ma il suo è un omaggio inutile: ama tanto la macchina cinema e poco il genere. Magari ho visto il film sbagliato e, sotto il nome giusto, c'era un video degli anni '80 sui giovani e l'importanza del sesso protetto? Non fa paura, annoia, sembra nato vecchio, ed è mortalmente serioso: fattori ricercati, tra l'altro, negli horror di ultima generazione. E i tempi cambiano, e nostalgicamente preferisco quelli vecchi: non c'ero io, ma vi ho assistito in differita. Una volta la paura viaggiava sul filo del rasorio. Oggi, al massimo, sulla punta del pisello. Avrei usato un'altra metafora, ma le ho finite, sorry. (4)