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giovedì 31 dicembre 2015

[2015] Mr. Ciak - Top 10

Buongiorno, amici lettori. Diversamente da quanto pensassi, entro l'anno, sono riuscito a stilare anche la Top 10 dei film – non ho la presunzione di dirvi che siano i migliori su piazza, ma sono quelli che penso avreste dovuto vedere, tra i tanti. L'attesa, l'incertezza - pubblicare adesso il post oppure no? -, tutta colpa di un anno, al cinema, di delusioni e di speranze mal riposte. Non mi è piaciuto Birdman, troppa forma, e le emozioni a colori di Inside Out non hanno fatto breccia. I film visti agli Oscar – The Imitation Game, La teoria del tutto, Wild – mi avevano intrattenuto a dovere, invece, ma dieci, undici mesi dopo non si fanno più ricordare dettagliatamente: per un pelo, alcuni di loro sono fuori dalle prime dieci posizioni. Nel recuperone degli ultimi giorni, ho visto cose che mi hanno colpito a sorpresa e che vi recensirò prestissimo – Per amor vostro, Love, Youth – e cose che non mi sono piaciute comunque abbastanza – Sicario e Le stazioni della fede. Sicurissimo sulle prime cinque posizioni – solo Noé, visto ieri, mi ha scombussolato il podio -, meno su quelle che restano. Riponevo speranze in altri titoli, ma il tempo stringe e, tra meno di ventiquattr'ore, sarà un altro anno e ci saranno altre storie. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori e no, non è la frase di lancio di Love. Ho fatto ordine e, blog mio, regole mie, ho inserito film distribuiti in sala e film ancora inediti. Addirittura, al primo posto, un film uscito lo scorso anno, ma così mal distribuito che l'ho recuperato solo ad aprile, in homevideo. Clicco su “pubblica”, va', prima di cambiare di nuovo idea. Ti è piaciuto fare il bastian contrario, mi direte, e nel listone che ci hai messo? Sperando che il 2016 ci riservi più gioie, nel privato e quando siamo seduti in poltrona, vi faccio tantissimi auguri di buona fine e di buon inizio. A presto, amici, e grazie ancora per la compagnia. Un abbraccio.


10. The Final Girls: Un brillante gioco di metacinema che non ci godevamo, forse, da Quella casa nel bosco. Qualche angelo dotato di abbondante autoironia, lassù, se ne procuri una copia per il Wes Craven che sempre ci manca: lo adorerebbe.
9. Per amor vostro: Napoli, e lì brilla sempre il sole, si spegne, se si accende la scintilla in Gaudino. Un lirico bianco e nero per il flusso di coscienza di una grande Golino. Un esperimento che non risulta mai manierismo fine a sé stesso, con la verità che non si discute e quelle famiglie in cui non c'è pace. Infelici a modo loro, ma anche a modo nostro.
8. Youth - La Giovinezza: Quante probabilità c'erano che l'ultimo Sorrentino mi piacesse, oltre qualsiasi mio fondato pregiudizio? Tanta poesia nelle rughe d'espressione di impareggiabili gentlemen e nella visione di un'orchestra invisibile, in mezzo a un prato. Dove tutto è musica e riconciliazione. Dove tutto è – davvero, questa volta – grande bellezza.
7. Il racconto dei racconti: Un filo teso nel vuoto e la significativa impresa di un funambolo fermo a metà. Il racconto dei racconti, facendo appello a un connaturato bisogno di suggestione, stai certo che non cade; sospeso nell'attimo.
6. Suburra: Uno di quei film che è una vergogna – ché siamo quello che siamo – e un orgoglio insieme – gli italiani sono ancora così provinciali come il luogo comune vuole? - esportare altrove.
5. Whiplash: Un Full Metal Jacket su un pentagramma strappato, che gronda viscido sudore, sangue copioso, vitale esuberanza. E tutto il resto è jazz.
4. Rudderless: Quando il peggio sembra passato, eccolo che riaffiora – con la sua faccia segreta, la vergogna – e lo si affronta, con la chitarra in braccio e le spiegazioni nel prossimo ritornello. Il commovente Rudderless mi ha rubato cuore e mp3.
3. Love 3D: Quanto sei disinibito? Quanto innamorato? Le inquadrature fisse, i corpi in moto, i giri di vite. Il fuoco dei lombi e il gelo dei cuori. I meccanismi del melodramma più struggente, prima, dopo e durante la passione. Il sesso incensurato ai tempi dell'amore.
2. Mad Max - Fury Road: Le magie di registi padroni del gioco e la settima arte che si fa pienamente spettacolo – senza trame, senza personaggi cesellati, senza la presunzione di cambiarti la testa. Al limite, quello che hai sulla testa: i capelli, elettrizzati. E il cinema – qui a livelli vertiginosi – è anche questo
1. Mommy: Ci sono giorni cattivi e giorni buoni, in cui la felicità, a portata di mano, è un'utopia in 16:9. I figli – e film come Mommy – so' pezzi 'e core.

Miglior attore protagonista:
Eddie Redmayne – La teoria del tutto
Paul Dano – Love & Mercy
Michael Caine – Youth
Migliore attrice protagonista:
Valeria Golino – Per amor vostro
Julianne Moore – Still Alice
Felicity Jones – La teoria del tutto
Migliore attore non protagonista:
J.K Simmons - Whiplash
Oscar Isaac – Ex Machina
Claudio Amendola – Suburra
Migliore attrice non protagonista:
Alicia Vikander – Ex Machina
Jane Fonda, Rachel Weisz – Youth
Jessica Chastain – Crimson Peak


Muchacha sexy:
Gemma Arterton – Gemma Bovery
Alicia Vikander – Ex Machina, Operazione UNCLE
Madalina Ghenea – Youth
Bello impossibile:
Matthias Shoenaerts – Via dalla pazza folla, Suite Francese, A Little Chaos
Jamie Dornan – Cinquanta sfumature di grigio
Michiel Huisman – The age of Adaline
Siamo la coppia più bella del mondo:
Anton Yelchin, Bérénice Marlohe - 5 to 7
Eddie Redmayne, Felicity Jones – La teoria del tutto
Jake Gyllenhaal, Rachel McAdams – Southpaw
Nice to meet you:
Alessandro Borghi – Suburra, Non essere cattivo
Dakota Johnson – Cinquanta sfumature, Black Mass
Taron Egerton – Kingsman, Testament of Youth


Sing:
Rudderless - Sing Along
La famiglia Belier – Je Vole
Spectre – Writing's on the wall
Psycho Killer:
Alba Rohrwacher - Hungry Hearts
Kevin Bacon – Cop Car
Lorenza Izzo e Ana de Armas – Knock Knock
Will you recognize me?
Jake Gyllenhaal – Southpaw
Nicholas Hoult, Charlize Theron – Mad Max
Roman Duris – Una nuova amica
I want your sex:
Aomi Muyock, Karl Glusman – Love 3D
Scamarcio, Trinca – Nessuno si salva da solo
Roman Duris, Anais Demoustier – Una nuova amica
Cry me a river:
Mommy – Ludovico Einaudi, Experience
Maggie – L'ultimo bacio a papà Schwarzenegger.
Southpaw – Jake Gyllenhaal e la rabbia del lutto
I love the way you l... die:
Malin Akerman e Bette Davis EyesThe Final Girls
La mattanza e, in sottofondo, WaitSuburra
Gli zii malefici uccisi a colpi di dildo – Deathgasm

martedì 29 dicembre 2015

I ♥ Telefilm Awards - 2015

Giorni di propositi e listoni. Dopo i romanzi, oggi, si parla dei telefilm che ci hanno fatto compagnia sul piccolo schermo, in un anno in cui – se il cinema, almeno a mio dire, ha deluso – le produzioni televisive e l'avvento Netflix hanno regalato, al contrario, sorprese su sorprese. Continuano a mancarmi le serie più amate dai colleghi blogger – Leftovers, Mad Men, Fargo, Mr. Robot – e a piacermi, con una certa convinzione di fondo, cose da poco: si celebrano perciò, in una Top 10 scritta di getto, le cose belle e le cose che, meno belle, mi hanno aiutato però a vivere a cuor leggero. Tra i doverosi recuperi, esclusi dalla lista, quattro stagioni di Scandal e il capolavoro Breaking Bad, che ovviamente avrebbe stravinto in tutte le categorie; stracciato a mani basse la concorrenza. Ti piace forse vincere facile? Oltre a una sfilza di titoli, due parole per dirvi perché li ho scelti, categorie, sottocategorie. I migliori attori e, a seguire, rubando strofe alle canzoni più trash su piazza – per pigrizia, ammetto che non le ho purtroppo aggiornate – i belli e le belle, gli esordienti e i momenti impressi a fuoco. La lista dei film – con la stessa struttura e le stesse identiche voci, più qualche aggiunta – si farà attendere un altro po'. Tanta indecisione e, ancora, qualche recupero dell'ultimo minuto. E le vostre serie dell'anno, invece?


10. London Spy: Il melodramma conosce il noir, con il rischio di risultare tutto e niente. Mostra, però, monito per gli spettatori più omofobi del cosmo, che c'è qualcosa di indescribile quando lui incontra lei, nei boy meets girl di ogni dove, ma che quando un lui incontra un altro lui – nella storia della spia e dell'uomo che la amò, ad esempio – la magia è la stessa.
9. Unreal: Commedia nera di notevole fattura dalla divertentissima componente trash – un programma come un'agenzia matrimoniale – ma dotata di un meticolo studio di reazioni, meccanismi di causa effetto, colpi di scena. Guilty pleasure? Un piacere sì, ma in definitiva poco colpevole.
8. Le regole del delitto perfetto: Ho conosciuto così la famigerata Shonda Rhimes. Un intrattenimento che risulta utile per ammazzare il tempo e per scagionarti con classe estrema, se insieme al tempo hai ammazzato pure qualcun altro.
7. Ash vs Evil Dead: Bruce Campbell, sessantenne, torna a indossare una motosega come guanto e a combattere il male, nella spassosa reunion che i fan di generazioni nuove e vecchie aspettavano. Ha il busto ortopedico, la dentiera e due pivelli come aiutanti; non perde i colpi. Raimi produce – e qualche volta dirige – un rinfrescante bagno di sangue e un caldo ritorno a casa. Anzi, nella Casa.
6. The Affair II: I punti di vista raddoppiano ed è triplicato l'impegno di sceneggiatori e interpreti. I dialoghi realistici, gli inevitabili faccia a faccia e le litigate furibonde si fanno più intense, se a raccontarsi a cuore aperto sono anche i traditi.
5. Scream Queens: Spassoso, violento, verso il trash infinito e oltre. Idiota con cura, semiserio con ironia. La parodia di un genere che ha detto tutto e adesso sa finalmente prendersi per i fondelli.
4. Flesh & Bone: Il folgorante Whiplash sul mondo del balletto. Dove non esiste un cigno bianco, senza un cigno nero.
3. Hannibal III: Una produzione che ci lascia prima del tempo, ma forse con la stagione più bella che c'è. Amara consolazione? La classe del tutto, comunque, non è acqua. E' sangue.
2. Daredevil: Un film lungo tredici ore: alta qualità, dialoghi corposi, momenti spettacolari che non vivono di soli effetti speciali. Ha, inoltre, un'armatura resistente, l'agilità per schivare proiettili di sarcasmo, la possibilità di difendersi – e di convincere – soprattutto a suon di parole. Anche se i calci rotanti, okay, hanno sempre la loro importanza.
1. Sense8: Una storia in cui credi a colpo d'occhio, e subito giureresti di credere nel prossimo, vincendo la tua diffidenza da misantropo. L'aspetto che immagino abbia l'armonia. 
L'ordine, sulla terra, è una forma geometrica tutta nuda e senza vergogna. 

Migliore attore protagonista:
1. Hannibal III: Mads Mikkelsen – Hugh Dancy
2. London Spy: Ben Whishaw
3. The Affair: Dominic West
Migliore attrice protagonista:
1. Penny Dreadful: Eva Green
2. Unreal: Shiri Appleby
3. Bates Motel: Taissa Farmiga
Migliore attore non protagonista:
1. Flesh & Bone: Ben Daniels
2. Daredevil: Vincent D'Onofrio
3. Shameless: Cameron Monaghan
Migliore attrice non protagonista:
1. The Affair: Maura Tierney
2. Penny Dreadful: Billie Piper
3. Scream Queens: Lea Michele – Jamie Lee Curtis



Sono una muchacha troppo sexy:
1. Flesh & Bone: Sara Hay
2. Quantico: Priyanka Chopra
3. Scream Queens: Emma Roberts
Bello impossibile:
1. Le regole del delitto perfetto: Jack Falahee
2. AHS – Hotel: Finn Wittrock
3. Unreal: Freddy Stroma
Siamo la coppia più bella del mondo:
1. London Spy: Ben Whishaw, Edward Holcroft
2. Catastrophe: Sharon Horgan, Rob Delaney
3. Billy & Billie: Adam Brody, Lisa Joyce 
Nice to meet you, where you been?:
1. Daredevi: Charlie Cox
2. Flesh & Bone: Sara Hay
3. Galavant: Joshua Sasse



Sing:
1. Sense8: What's Up
2. The Affair: The House of The Rising Sun
3. Please Like Me: Someone Like You
Psycho Killer:
1. Daredevil/Jessica Jones: Vincent D'Onofrio, David Tennant
2. The Royals: Elizabeth Hurley
3. AHS – Hotel: Lady Gaga
I Want Your Sex:
1. Sense8: Ammucchiata telepatica
2. AHS – Hotel: Lady Gaga e Matt Bomer, in un'orgia di sangue
3. The Affair: Ruth Wilson – Dominic West
Cry me a river:
1. Hannibal: Love Crime
2. Sense8: Mad World
3. Shameless: Ian, Mickey, il bipolarismo
I Love the way you l... die:
1. Scream Queens: Ariana Grande
2. Ash vs Evil Dead: dovrei scegliere una morte soltanto? 
3. Le regole del delitto perfetto: Tom Verica
Ops, I did it again:
1. Jane The Virgin - Stagione 2
2. Devious Maids - Stagione 3
3. The Royals - Stagione 2

lunedì 28 dicembre 2015

Book Awards 2015 - Cosa ho letto e cosa [forse] non avrei dovuto leggere

L'ultima settimana dell'anno è cominciata e, come da tradizione, possono avere inizio i famosi listoni. Da quando si chiacchiera, da queste parti, anche di cinema e telefilm, non soltanto sulle migliori letture – purtroppo per me. Il purtroppo è perché, nel fare bilanci, intervengono l'amnesia e la mia storica indecisione. Farò bene? Avrò dimenticato qualcosa, strada facendo? Sui miei libri preferiti – e quest'anno ne ho letti novantasette in tutto, compresi alcuni testi teatrali e Carol, di Patricia Highsmith, a cui prossimamente dedicherò un post per l'imminente trasposizione – non ho dubbi. Si parte, dunque, da qui: un podio ragionato e, a precederlo, sette titoli non disposti secondo un ordine rigidissimo. Alla fine del post, dopo il romanzo vincitore, qualche lettura che è rimasta fuori dalla lista e che, per meriti o demeriti, ricorderò insieme a voi. 
E la vostra Top 10, invece? 
 Amedeo, je t'aime:I dipinti di Modigliani e il romanzo di Francesca hanno gli stessi identici occhi. Occhi stretti e umidi. Senza segreti, quando si parla di Jeanne Hébuterne. L'unica creatura dallo sguardo azzurro mare, in un mondo imperscrutabile di orbite insonni.
 Suite francese: Una vinta tra tanti racconta i vincitori, con la leggerezza di chi guarda le cose dalla giusta distanza e non mette chincaglierie, a nascondere le crepe delle nostre contraddizioni e i fiori della loro indulgenza.
 Still Alice - Perdersi: Un countdown da incubo, che finisce con l'amore. E con l'Alzheimer. Se l'amore – secondo la leggenda, dalla parola latina “mors”, morte, con una particella privativa davanti – davvero è vita eterna.
 Dante e Aristotele scoprono i segreti dell'universo: La bellezza della prima edizione Loescher – che porta un romanzo sull'omosessualità tra i banchi di scuola - ci mostra che la cultura è libertà. Il posto nel deserto che solo noi, un filosofo greco e un poeta fiorentino conosciamo. Stesi nel cassone di un pick up, a contemplare quelle stelle che, secondo un altro Dante, l'amore stesso muoveva.
 Acquanera: Rimane accanto, prepotente e spietato, come una macchia sul soffitto.
L'amica geniale: Arduo dire quanto sia capolavoro davvero e quanto pensi sia capolavoro per tutti gli altri che l'hanno definito tale prima di te. Elena Ferrante, all'altezza della sua notorietà, non delude, con un album di foto seppia considerato, dai molti, già una specie di piccolo classico. Dai molti, più uno.
Ti prendo e ti porto via: Le pagine sono cinquecento in tutto, la giostra fila nella notte e, dopo l'ennesima sbandata, degli scossoni perdi il conto esatto. E no, non turba nel senso che si rivela un libro triste, e quindi resta impresso perché le cose tristi, alla gente come me e voi, piacciono un mondo. Ma turba nel senso che c'è il cielo sereno e poi grandina. Perturba.
3. Il ladro di nebbia: Quante domande, quante storie in una e, soprattutto, quanta bravura. L'arzigogolata e romantica storia infinita di Lavinia ha i toni surreali - i capelli multicolore e i "se mi lasci ti cancello" - del cinema di Gondry, i mondi fatati di papà geniali, paesi delle meraviglie e maghi di Oz in quantità. Una favola di esordio - in tutti i sensi possibili.
2. On Writing: L'esplorazione del profondo di Stephen King.
1. Stanza, letto, armadio, specchio - Room: Quanto amore possono contenere undici metri? Quanto bene e quanto male queste trecento pagine? Il miracolo raro del mondo visto per la prima volta. Come se Emma Donoghue ci avesse regalato un paio di occhi nuovi – e ogni tanto si inumidiscono – e tutta la speranza che serve. In attesa di vederlo, presto, anche al cinema.” 

I premi di (s)consolazione?
Thriller/ horror: La gemella silenziosa, di S.K. Tremayne
New adult: La nostra ultima canzone, di S.K. Falls
Young adult: Fino alla fine del mondo, di Tommy Wallach
Urban fantasy/distopico: Chaos - La fuga, di Patrick Ness
Romanzo storico: Il miniaturista, di Jessie Burton
Non solo per bambini: Il favoloso libro di Perle, di Timotée De Fombelle
Risate assicurate: L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome, di Alice Basso
La migliore storia d'amore: Un amore di carta, di Jean-Paul Didierlaurent
Il romanzo più... boh: Il manifesto degli attori anonimi, di James Franco
Shock: The Bunker Diary, di Kevin Brooks
Sta' senza pensier”: Giulia 1300 e altri miracoli, di Fabio Bartolomei
Guilty Pleasure: Io, Romeo e Giulietta, di Rebecca Serle
Guarda un po' chi si rivede – i sequel belli: Albion – Ombre, di Bianca Marconero
Be', dai, ci siamo visti – i sequel meno belli: Raven Boys – Ladri di sogni, di Maggie Stiefvater
Tanto rumore per nulla - la sòla suprema: La ragazza del treno, di Paula Hawkins

sabato 26 dicembre 2015

Recensione: Mare al mattino, di Margaret Mazzantini

"La storia è un millepiedi e ogni piede tira da una parte diversa, e in mezzo c'è il nostro corpo."

Titolo: Mare al mattino
Autrice: Margaret Mazzantini
Editore: Mondadori – Einaudi
Numero di pagine: 127
Prezzo: € 12,00
Sinossi: "Pensava soltanto a quello. Riportare la sua vita a quel punto. Nel punto dove si era interrotta. Si trattava di unire due lembi di terra, due lembi di tempo. In mezzo c'era il mare. Si metteva i fichi aperti sugli occhi per ricordarsi quel sapore di dolce e di grumi. Vedeva rosso attraverso quei semi. Cercava il cuore del suo mondo lasciato". Farid e Jamila fuggono da una guerra che corre più veloce di loro. Angelina insegna a Vito che ogni patria può essere terra di tempesta, lei che è stata araba fino a undici anni. Sono due figli, due madri, due mondi. A guardarlo dalla riva, il mare che li divide è un tappeto volante, oppure una lastra di cristallo che si richiude sopra le cose. Ma sulla terra resta l'impronta di ogni passaggio, partenza o ritorno che la scrittura, come argilla fresca, conserva e restituisce. Un romanzo di promesse e di abbandoni, forte e luminoso come una favola.
                                         La recensione
Farid vive nel deserto e non ha mai visto il mare. Ne ha sentito parlare, però, come fosse l'invenzione di una favola della buonanotte. L'ha immaginato con i suoi pochi strumenti – le dune come onde, gli insetti sotto la sabbia come pesci sul fondale. L'ha visto in televisione, nelle telenovelas egiziane che vanno per la maggiore – il padre, Omar, aggiusta antenne e regala a donne stanche attimi di evasione, il sogno dell'occidente. Un conflitto immotivato – uno di quelli senza nome, che rendono i ricchi ricchissimi e i poveri, per quanto possibile, più poveri ancora – porterà il bambino e sua madre, Jamila, a sfidare la sorte, le onde, per un futuro senza spari nel cielo. Accalcati tra cento, mille disperati, su uno scafo pericolante. 
Sarà abbastanza vicina l'Italia, si domanda Farid con un amuleto portafortuna al collo, mentre la mamma lo stringe fortissimo e, sulle labbra secche, immagina di sentire il gusto della prima Coca Cola? Angelina, invece, nel deserto ci ha vissuto, ma è tornata indietro a undici anni. I genitori facevano candele profumate e della sua infanzia ricorda l'abbandono dell'amico Alì, che non temeva le api, e l'addio alla bella Tripoli. Il suo mal d'Africa, per la vendetta del rais contro lo spietato colonialismo italiano. Il posto al sole che Mussolini aveva promesso ai suoi nonni e a cui successivamente, con Gheddafi, avevano dovuto rinunciare. Adesso, però, è mamma: caucasica, profuga in Sicilia benché italianissima, ha cresciuto un figlio – Vito, da poco maggiorenne – che, in regalo, di punto in bianco, le chiede un viaggio. Per vedere dove tutto è iniziato oppure finito. Due mamme, due figli, due viaggi – ma inversi. Una sola guerra che cambia appellativi, ma non faccia, e che ci vede o ci ha visto con il mal di mare, la terra strappata da sotto i piedi, i pensieri gravosi. Margaret Mazzantini, dopo il capolavoro Venuto al mondo, struggente e indelebile, firma un romanzo breve, di storie di clandestinità che si incrociano e migranti in balìa delle forze del destino. 
Vicende indigeste, di bruciante attualità, scritte con lo stile scabroso che so e amo e, in contrappunto, un tema che io – ignorante, se si parla di storia contemporanea – non conoscevo nel dettaglio. L'autrice mi illumina – ci spiega, infatti, gli strascichi profondi del colonialismo fascista, il dramma di generazioni nuove e vecchie in marcia: alcuni africani sognano l'Italia, ho capito, e alcune generazioni d'italiani la Libia – ma, nel farlo, spegne qualcosa, come d'abitudine. In questo periodo di festa, le luci del presepe, ora al buio, e le speranze. Vito nota che la madre non fa più il bagno a largo; si bagna appena, con il costume intero della piscina, e sguscia fuori. Non mangia il pesce delle spiagge dove affondano i barconi di fortuna. Ma Margaret Mazzantini, induscussa signora del dolore e cronista di pagine di storia che ci piace cestinare, può intristirci a piacimento. Stentate a immaginarlo, scommetto, il peso di un volume così piccino. Un romanzo breve in cui latitano i dialoghi e i sollievi, senza fronzoli e frontiere, sulle cose che restituisce il Mediterraneo all'alba. I messaggi in bottiglia, gli scampoli di stoffa, un talismano contro gli spiriti cattivi. Il cadavere di un Pinocchio di schegge, rovesciato sulla pancia, dopo che la balena l'ha sputato sul bagnasciuga. Il corpo di Aylan, già simbolo, che mette in ginocchio il mondo. E rare volte, nell'ultima pagina, magari, una mezza buona notizia. 
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale:  Luigi Tenco - Ciao amore, ciao

giovedì 24 dicembre 2015

I ♥ Telefilm: Catastrophe, The Affair, You're The Worst, Please Like Me

Catastrophe 
Stagione I-II
Immaginatevela pure. Sharon – quarantuno anni a breve, professione maestra – a gambe all'aria, durante un controllo medico. Scoprire, nella stessa mattina, di essere in attesa di un bambino e di avere quello che, evolvendosi, potrebbe rivelarsi un tumore. Il nascituro, risultato di una notte e via. La metastasi, invece, causa di ereditarietà e di malanni della mezza età. Al suo fianco, mentre il ginecologo dà notizie belle e brutte, Rob – americano lontano da casa, pubblicitario di successo. Un bicchiere di troppo, un corteggiamento spiccio e, tra mosse impacciate e risate involontarie, i due sono finiti a letto. Quella che per Rob doveva essere una tappa nella piovosa Londra, così, diventa un impegno più grande di lui; una pazza notte di passione, invece, una storia che vuole parlarci – ma coi toni politicamente scorretti che tutti noi amiamo – di responsabilità e piani alternativi. Eppure, quando hai una certa età e quel bambino concepito contro tutti i pronostici potrebbe essere l'ultima volta per essere mamma o papà, perché temporeggiare? Sospirare, accontentarsi e, magari, con la convinvenza e un matrimonio riparatore all'orizzonte, scoprire di volersi bene. Non tutte le catastrofi vengono per nuocere. Catastrophe è la comedy, irriverente e realistica, romantica in un modo che è solo suo, per chi ha apprezzato cose come Scrotal Recall e, a viva voce, si domanda: a quando un seguito? Queste serie inglesi – impeccabili per qualità, inaffidabili per puntualità: la seconda stagione di questa, però, ho avuto la fortuna di vederla subito dopo, e ci mostra i nostri protagonisti a due anni di distanza, con una ampia famiglia al seguito – hanno sempre temi semiseri, dialoghi esilaranti, attori che funzionano alla perfezione quando si cercano le risate e il momento di riflessione improvviso. Un po' come Sharon Horgan e Rob Delaney che non sono né bellissimi né giovanissimi ma che, con i ruoli cuciti su misura, sono folgoranti per la naturale alchimia e la reciproca confidenza. In cerca ora di un nuovo impiego, ora di un testimone di nozze, non mancano i comprimari bene a fuoco e esempi di triviale, pungente umorismo britannico. Ma quando sei nel mezzo del cammin della tua vita e la salute va e viene, è una inaspettata morsa al cuore attendere i risultati di quegli esami importantissimi – e, pensiero spaventoso, se il bambino non fosse sano? - e vedere come, nonostante gli ormoni rendano lei emotivamente fragile e vorace, il desiderio di cercarsi non manchi mai. (7,5)


The Affair
Stagione II
Scrittore sposato e padre di quattro figli, quarantenne di bell'aspetto e antica ambizione, perdeva la testa e il sonno per una cameriera dal sorriso sfuggente, durante le vacanze al mare, a casa dei facoltosi suoceri. Lei, agli occhi di lui seducente e fatale, in realtà aveva un lutto nel cuore – e un cuore, poi, lo aveva ancora? - e la paura dell'acqua: sposata per inerzia, ma purtroppo mancante di una parte vitale. Le bugie, il sesso di fretta, gli incontri rubati. Una relazione extraconiugale da nulla, un'avventura estiva per sentirsi giovani e contenti per un po', aveva avuto un esito imprevisto: felice per alcuni, infelice per altri. Dipende dall'occhio di chi guarda. L'abbandono dei rispettivi compagni di vita, la convivenza, un bambino in arrivo: la scappatella, tra confessioni dolorose e addii provvisori, era diventata amore vero. Il sesso occasionale, un divorzio: in mezzo, però, interrogatori serrati e il mistero. Nel primo The Affair, uno dei debutti più memorabili dello scorso anno, c'erano le molliche di pane di un giallo da risolvere: chi era alla guida dell'auto che ha ammazzato il subdolo Scott Lockhart? Si ritorna, intrigati al solito, sulla scena del crimine passionale – e, questa volta, si fa la spola tra la quieta Mountak e la città, luogo cardine di nuove tentazioni e svolte -, e qualcosa è cambiato. In tutti loro e nella struttura. I punti di vista raddoppiano e si triplica l'impegno di sceneggiatori e interpreti. I dialoghi realistici, gli inevitabili faccia a faccia e le litigate furibonde si fanno più intense, se a raccontarsi a cuore aperto sono anche i traditi: un Joshua Jackson con la pancia da birra, che torna a riporre fiducia in Cupido, romantico per natura, d'altronde, sin dai tempi di Dawson's Creek; una grande Maura Tierney, in cerca di ripicche da poco e della forza espressiva che, dopo tante partecipazioni in tivù, avevamo dimenticato. Il tempo cura la ferite: si resta in buoni rapporti, quando un matrimonio finisce, e i rimpianti si mettono da parte. Ma l'amore finisce così? Nel frattempo, Noah e Alison sembrano perfettamente realizzati: lui è un romanziere di successo, lei ha ripreso l'università e, dopo la perdita di Gabriel, aspetta un altro figlio. La spiaggia di notte e la clandestinità, però, hanno dato a lui una storia – il suo best seller parla di loro, coi toni pruriginosi che piacciono alle lettrici delle Sfumature di grigio – e a lei un'ennesima etichetta mortificante – l'amante può diventare moglie? Noah, non diversamente, si domanda: un uomo buono, mediocre, può essere un uomo grande? In un finale carico di colpi di scena, sospeso e orchestrato con lucidità, il duo diventerà triangolo, sulle note di una brilla ma magistrale The House Of The Rising Sun e di uno schianto che uccide. Dominic West, recidivo e granitico, ci terrà in scacco con un estenuante botta e risposta tra lui, artista in crisi, e la strizzacervelli Cynthia Nixon; la rivelazione Ruth Wilson, a lungo spenta, nei suoi vestitini floreali di casalinga e mamma, farà sentire una voce che pesa, sovvertendo i fragili equilibri raggiunti dai piatti della bilancia. (8)

You're The Worst
Stagione II
Gretchen e Jimmy, nemici giurati dell'amore, alla fine aveva ceduto al lato scuro: la convivenza. Mentre si tiravano le conclusioni della prima stagione, li vedevamo già provati e molto titubanti. Quanto avrebbero resistito? Se Edgar, reduce di guerra, sogna di andare a vivere con l'innamorata di turno e la sfacciata Lindsay, all'indomani del divorzio, si consola con gelato in quantità industriale e esilaranti piani di vendetta, in Gretchen – sfrontata e spensierata a forza – qualcosa si spezza. Abbandona il letto nel cuore della notte e piange in macchina. Spia i vicini felici, sognando la loro vita. Si ammala di depressione e non chiede l'aiuto di Jimmy che, checché ne dica il titolo, è andato a vivere con lei pronto al meglio e non al peggio. Ogni persona ha ombre nel passato e Jimmy, scappato da una famiglia chiassosa, avrebbe voluto vivere la convinvenza con serenità. L'egoismo sarà più forte di questo loro grandissimo non-amore? You're the worst, la sexy e divertente rivelazione Fox dello scorso anno, creatura estiva per eccellenza, è ritornata in autunno, con tre episodi in più e nuove tematiche. L'incesensurato Amici di letto a cui ci eravamo subito affezionati si scopre cresciuto. Diverso, nel bene e nel male. C'è più spazio per gli altri, si fa meno all'amore e, cose che capitano con la convinvenza, della persona con cui dividiamo il letto si scoprono le segrete debolezze. Come Jimmy, si è messi perciò davanti a una scelta. Abbandonare la nave che affonda, oppure rimanere accanto all'adorabile Aya Cash, che questa volta si concede di meno, ma si impegna di più? Per me, che nei precedenti episodi avevo trovato uno script brillante ma una certa ripetitività, la maturità fa tanto bene a un nuovo ciclo di You're the worst. La solita scrittura moderna e graffiante, la leggerezza che ha un suo peso specifico, gli attori in parte. Anche se il rischio di non prendere le loro storie sul serio, coi toni sopra le righe e il linguaggio colorito, era forte. Ma andava corso, suppongo, per scoprirsi adulti a trent'anni suonati. (7)  

Please Like Me
Stagione III
Vitale presenza nei famosi listoni, lo scorso anno, una freschissima comedy australiana che – a colpi di testa, colore, umorismo – era sbucata dal nulla per tenermi compagnia, con i suoi bizzarri personaggi extraterrestri, i cani a pelo lungo che stanno invecchiando, le torte fatte in casa. E quella sigla irresistibile che ti entrava in testa, invitandoti a fischiettare e a unirti a loro, tutti presi dalla convivenza, da relazioni sentimentali che cambiano dall'oggi al domani, dai preparativi per le affollate serate in famiglia. La storia di Josh – da etero a omosessuale senza drammi esistenziali – mi aveva fatto conoscere il talento sorprendente di Josh Thomas, attore protagonista e autore, e risate disimpegnate ma non troppo. Avevo visto la prima stagione, poi subito recuperato la seconda: con una maratona in piena regola si colmava la mancanza, anche se a rischio c'era che il tutto potesse venirmi leggermente a noia. Stessa sensazione prevale, ma più forte, durante il terzo anno in sua compagnia. Dieci episodi piacevoli e ben scritti, ma in cui ai personaggi accade poco. Il coinquilino Tom si innamora, ma pensa alla ex; i genitori vanno in crisi, di nuovo; la famosa ex, la bellissima Claire, ritorna a casa e semina dubbi. Josh, in tutto ciò, si prende cura del bisognoso Arnold: ragazzo fragile e tenero, a cui volere bene come un cucciolo; ma sarà davvero la scelta intelligente, se un sito d'incontri – i due, per un po', hanno deciso di essere una coppia aperta – gli fa conoscere un'altra persona, che non è solo la storia di una notte e via? Nell'arco delle puntate, inoltre, la gallina Adele verrà sacrificata per una nobile causa: nella scena più simpatica e memorabile, i commensali le rendono omaggio pregando e intonando, stonati, un'assurda Someone Like You. Le chiacchiere fitte fitte come in un giovane Woody Allen, figure che – alla fine - poco osano combinare, il sonnecchiare sui proverbiali allori per la tanta sicurezza guadagnata. Quanto sei simpatico, Josh? E qui, purtroppo, quanto autoreferenziale? (6,5)

domenica 20 dicembre 2015

On Writing - Autobiografia di un mestiere, di Stephen King

Buondì, amici lettori, e buona domenica. Come vanno le cose? Il cappelletto introduttivo, oggi, è per un'informazione di servizio o due. Ultimo giorno per partecipare al Giveaway – Fuori tutto, anche se vi anticipo che, per imprevisti di percorso, ci sarà un certo ritardo nelle spedizioni; abbiate pazienza, per favore. E, questione più evidente, tra ieri e venerdì il numero dei followers è calato a vista d'occhio. Mi avviavo verso i mille, e adesso – pare per le pulizie di Blogger, che ogni tanto elimina profili inattivi e fake – ne ho trenta in meno. Per fortuna, leggevo On Writing. Ringrazio, a tal proposito, la santissima Lucia per la copia omaggio. Non una recensione in piena regola, questo post, bensì un commento. Per dirvi, se il vosto spirito natalizio è sopravvissuto, cosa dovete pretendere di trovare sotto l'albero. Un abbraccio.
"La scrittura non è la vita, ma talvolta può essere una specie di resurrezione."

Titolo: On Writing – Autobiografia di un mestiere
Autore: Stephen King
Editore: Frassinelli
Numero di pagine: 284
Prezzo: € 20,00
Sinossi: Alla domanda: «Che cos’è On Writing?» Stephen King ha risposto: «È il romanzo della mia vita, non perché la mia vita sia un romanzo, ma perché la mia vita è scrivere». Ecco perché questo libro è l’autobiografia di un mestiere in cui la storia personale e professionale del Re si fondono totalmente. Il brillante «Curriculum vitae» d’apertura ripercorre gli anni della formazione, in un collage di ricordi che dall’infanzia arrivano al primo, grande successo con Carrie; «Cassetta degli attrezzi» è un’acuta e disincantata elencazione dei ferri del mestiere – quali sono, a che cosa servono, come mantenerli efficienti e sempre pronti all’uso –; «Sulla scrittura», la parte più interessante per gli addetti ai lavori, illustra le fasi del processo creativo fino all’approdo editoriale; e infine «Sulla vita», ricco di pathos, racconta come King abbia visto la morte da vicino, dopo lo spaventoso incidente in cui è stato coinvolto, e come, grazie alla scrittura, sia ritornato alla vita. Diario, confessione, chiacchierata... On Writing abbraccia e supera tutti i generi e, per l’aspirante scrittore, è uno strumento utile e illuminante, ricco di esempi e riferimenti pratici, capace di affrontare senza fumosità un argomento difficile; per il lettore affezionato è un must in cui potrà ritrovare, nella loro dimensione reale, un’infinità di situazioni, storie e personaggi che hanno ispirato i romanzi di King. Per tutti, è una lettura avvincente e profonda nello stile inconfondibile dell’autore, capace di trasformare tutto ciò che tocca in un racconto magistrale.
***
Ci sono personaggi dal profilo inconfondibile. Prendete Hitchcock, ad esempio, con l'ovale perfetto della testa, più di un cenno di doppiomento, le guance piene piene. Sulla copertina – la più bella in circolazione – della nuova ristampa di On Writing, una silhouette dalla fronte bassa, un paio di occhiali su un naso sottile, una mascella poco pronunciata, che si unisce al collo con una curva a gomito. Riconosceresti anche tu questo profilo tra mille. E, se così non fosse, scommetto che basterebbe dare solo una sbirciata all'interno – facciamo finta, infatti, che in copertina non ci sia il nome del più grande e prolifico romanziere vivente. La prosa fiume, l'ironia pungente, la fanciullesca schiettezza di chiamare ogni cosa con il proprio nome: la verità non ha bisogno di accorgimenti, uno scaricatore di porto a Natale giammai vorrà un libro in cui si discetta di etichetta e bon ton. Chi mi legge o anche no, chi comunque si prende la briga di ascoltarmi, sa dell'autore che mi ha cresciuto e di cui, in particolare alle medie, ho fatto incetta. Si parla di Stephen King, signore e signori, e di me, piccolissimo, che a casa della migliore amica di mio fratello saccheggiavo la libreria della madre, donna che fumava troppe sigarette e leggeva tutto il Re; di un narratore – purtroppo sottovalutato dalla critica ufficiale – che è maestro del brivido, in senso lato e in senso stretto. Lo si associa ai pagliacci assassini, alle infermiere killer, alle adolescenti che regalano il ricordo di un indimenticabile, infernale prom. Suoi, tuttavia, anche i bambini avventurosi di Stand by me, il gigante buono di Il miglio verde – autentico erede di Il buio oltre la siepe -, i sentimenti struggenti di Le ali della libertà. Tutti, però, quando lo definisco uno zio tenerissimo o, ancora, quando dico che farei  carte (d'adozione) false per essere un'unghia del suo piede, mi guardano scettici. Non che simili affermazioni siano le più preoccupanti tra le mie stranezze, ad orecchie profane. Basta prendermi in parola o cercarlo, vecchietto allampanato e divertente, con una maglietta con su scritto I Love Books e un enorme sorriso, in posa sulla copertina di una rivista; googlare il video della sua Ice Bucket Challange, in cui era fradicio, tremante e abbigliato come un turista tedesco, con sandali e calzini di spugna. Da un mese a questa parte, meglio, c'è un saggio autobiografico a raccontarvi chi è, che fa, com'è. In un'intervista, sempre che la voce non dia forfait per l'emozione, cosa gli chiedereste? On Writing è un lungo, illuminante monologo – tradotto dal sempre ottimo Giovanni Arduino e introdotto dalle parole di Loredana Lipperini – che sarà la gioia di ogni aspirante scrittore e di ogni fan. Per imparare dal migliore i segreti di un mondo che fa gola e la preziosa utilità di una vita vissuta pienamente; per scoprire, a sorpresa, che è per me possibile stimarlo e volergli bene di più. Parlate, d'altronde, con uno che in Stuck In Love, valida commedia indie che scommetto vi ho già consigliato, ha pianto a dirotto nella scena in cui il giovane protagonsita riceve una chiamata dal Re in persona. Nonostante tutto, qualche suo scritto manca anche a me e mi mancava, immenso vuoto nell'anima, questo On Writing: introvabile, se non su Ebay, in cui i pochi venditori giocano a sparare la cifra maggiore e con i sentimenti degli appassionati. Autobiografia di un mestiere è l'esplorazione del profondo di Stephen King. Un saggio che si legge come la migliore narrativa, in cui lui stesso ci racconta a blocchi la sua vita privata – l'infanzia, il matrimonio con l'inseparabile Tabitha, le dipendenze -, le cure miracolose del processo creativo, l'incidente automobilistico che ha rischiato di portarcelo via. Come tiravano avanti due giovani sposi con una laurea in Lettere nel cassetto, bambini fragili tra i piedi, lui con un lavoro in lavanderia e lei cameriera part time? I retroscena dei romanzi celebri, l'importanza che hanno i brutti libri sull'autostima di un autore in erba, le immagini di una gioventù picaresca e di un mestiere che non è stato un fulmine a ciel sereno: i primi incarichi nelle riviste per adulti – dove si era troppo presi dalle tette e dai culi, per accorgersi della sua prosa inimitabile -, l'arte di cavarsela, i figli arrivati prima di un incarico stabile. Per la prima volta (abominio!), ho inforcato il segnalibro a mo' di riga e, con una matita, ho sottolineato un testo che non fosse una dispensa universitaria. On Writing ci vuole, infatti, partecipi e attenti. Il cervello è una spugna, ma i post-it pure aiutano a fissare i punti chiave. Ho imparato che gli avverbi sono il male nel mondo, che il turpiloquio è una licenza poetica, che se sei in cerca di un sinonimo vuol dire che la parola non è quella calzante. Scrivere un romanzo – paragonato all'atto di uno scavo archelogico, alla cassetta degli attezzi che si portano appresso i falegnami – richiede metodo, l'arco di una stagione, una stanza tutta per sé. Ci scoraggia saperlo immerso nel verde del Maine, autore che non ha bisogno di un secondo mestiere per sbarcare il lunario, artefice della bellezza di duemila parole al giorno. L'italiano, ci diciamo, è anche una lingua più tortuosa dell'inglese, e meno redditizia senz'altro è la nostra editoria. Però le sue dritte, un faro per i principianti dell'intero globo terracqueo, e quello che almeno abbiamo in comune – una laurea che prevedo non mi darà pane, un passato nella redazione del giornalino scolastico, i primi racconti che in realtà erano i riassunti dei film visti in tivù: lui ricorda Il pozzo e il pendolo, io Il piccolo Lord – ti aiutano a non buttarti giù, se di Stephen King ne nasce qualcosa come uno ogni cent'anni. Ai margini della mia copia, quindi, ho appuntato minuscoli diagrammi; il proposito di parlare di più con la gente, altrimenti è impossibile dare vita a dialoghi decenti; la morale consolatoria che tutto questo dolore, un giorno, mi sarà utile. Questo blog, questo spazio, è il mio On Writing messo in pratica: un altro anno insieme, e con voi imparo puntualmente a mettere a posto i pensieri, a migliorarmi. E' tutta una questione di pratica, con la speranza che sopraggiungono il tempo che ci vuole e la magia; "la telepatia."
Quel “puntualmente”, lì, andava tolto. Vedete? Si fanno progressi a vista d'occhio; assicurato.

venerdì 18 dicembre 2015

Mr. Ciak: The Walk, Pan, Non essere cattivo, Gli ultimi saranno ultimi, One Chance, Sinister II

Sono i primi anni settanta e i giornali portano in Europa la notizia di un progetto straordinario. Due torri cambieranno per sempre la fisionomia dello skyline newyorkese, diventando simbolo universale; prima con la loro imponente presenza e, all'indomani di una indelebile tragedia, con la loro drammatica assenza. A sfidare quei giganti in costruzione, il giovane Philippe Petit, piccolo di nome ma di speranze grandi, che, mettendo insieme ciò che aveva imparato dell'arte funambolica e una squadra di complici, aveva teso un filo tra un edificio e l'altro. E, senza tentennamenti, fatto una passeggiata nel vuoto. The Walk, avventuroso biopic firmato da Zemeckis, è un film che all'inizio tentenna e poi, passo dopo passo, acquisisce, a sorpresa, fluidità: quando è troppo tardi o troppo pericoloso tornare indietro. A una prima ora poco coinvolgente – l'introduzione di anonimi comprimari, l'espediente di un narratore antipatico a pelle – ne segue un'altra, invece, che pietrifica e cattura come da copione. Zemeckis, in passato padre di personaggi che non si scordano, non prova neanche un po', però, a rendere indimenticabile il suo Philippe: farsesco, leggero, incauto. Colpa di una sceneggiatura esile, in cui soccorso arriva, per fortuna, un lato visivo che ruba il fiato; colpa di un Joseph Gordon Levitt che gigioneggia, camminando sui fili e recitando sopra le righe. Ma The Walk, scritto senza particolari guizzi e recitato in maniera meno convincente del previsto, nonostante un titubante inizio, si riscatta a metà strada. Elettrizzanti e spassosi i preparativi per l'operazione, impressionanti le camminate e i dialoghi con la polizia a mezz'aria. L'emozione assicurata da una regia da maestro e quella retorica tutta americana che, vuoi il senso generale di meraviglioso, vuoi la vertigine da capogiro, non disturba affatto. Così, con la settima arte che ci ricorda le sue infinite potenzialità, a centoventi anni dalla sua invenzione, sani e salvi si arriva dall'altra da parte. C'è stata una nuvola, un colpo di vento. Ma siamo bambini al circo, e il cuore non vuole saperne di smettere di battere forte. (6,5)

In una notte di nebbia, una giovane donna lascia suo figlio alle porte di un orfanotrofio. Al collo, unico collegamento con i suoi misteriosi genitori, una collana con un minuscolo flauto di Pan. Sarà proprio quel famoso Peter, accompagnato da uno Spugna in forma smagliante e da un giovane alleato, che si fa chiamare Uncino? Pan, accolto tiepidamente dalla critica e poco popolare in sala, sa meravigliare, e a sorpresa, in un universo in cui gli effetti speciali ci hanno abituati a tutto e in mezzo a tendenze che – da anni – vogliono i personaggi delle fiabe come nuovi eroi. All'inizio c'era la curiosità, l'entusiasmo, ma ci si è stancati in fretta. Come il Cinderella di Kenneth Branagh, però, Pan ha la fortuna di avere, a bordo, un grande regista – Joe Wright è un esteta esemplare, un fine artigiano – e un cast assai bene assemblato – Hugh Jackman, Rooney Mara, Amanda Seyfried, quel Garrett Hedlund che vedrei benissimo nei panni del nuovo Indiana Jones. Se la trama la conosciamo tutti – il nuovo Pan è un mito eziologico, un prequel della favola originale, ma le sorprese sono ben poche – e, al di là di un apparato visivo impressionante, poteva esserci un cuore più grande e caldo, il lavoro di Wright lascia ammaliati per la cura dei dettagli, i colori contagiosi, la sensazione di una storia conosciutissima, ma raccontata con il giusto spirito. Nella Londra bombardata della Seconda Guerra Mondiale, nell'istituto – luogo dickensiano per eccellenza, con monache crudeli e pargoli affamati notte e dì – gli orfani cominciano a scomparire. Nel cielo scuro, pieno di stelle e aerei nemici, vola un galeone che li rapisce tutti. Destinazione, l'isola dove il temibile Barba Nera – tiranno che entra in scena tetralmente, cantando Smells Like Teen Spirit – usa le sue macilente vittime come schiavi in cave magiche e minaccia l'esistenza di fate e nativi, ormai in via di estinzione. Unica speranza, il bambino delle leggende; quello capace di volare e liberarli tutti quanti. E, saranno statti vecchi flash che mi ricordano il mio amore non solo per il cartone Disney, ma anche per il biopic Neverland e per l'incontrastato Hook, ma io mi sono alquanto goduto questo nuovo viaggio verso l'isola che non c'è. Sebbene non servissero ulteriori indicazioni o promemoria per raggiungerla. Tutti ricordavamo, infatti, già la strada: "seconda stella a destra, e poi dritti fino al mattino." (6)

Cesare e Vittorio si muovono nella Ostia degli anni novanta, tra taccheggio e spaccio. Il primo, con una nipote in fin di vita e il fare irascibile, scopre di volere bene a una tipa, ma moltissimo, e stanno pensando di andare a vivere insieme. Il secondo, che non teme né il duro lavoro, né la redenzione, convive con una ragazza madre e con la paura costante che per il suo gemello diverso sia ormai tardi. La merce va prima testata, poi venduta, e l'eroina non perdona. Li risucchia nel suo vortice infinito e ora c'è da ridere, ora c'è da piangere, tra divertenti allucinazioni, guarigioni e ricadute, disastrose conseguenze. Non essere cattivo è il monito che compare sulla T-Shirt del peluche preferito di una bambina, vittima inerme dello stesso male dei suoi genitori. Non essere cattivo è il dramma romanesco, ancora, che dopo la calorosa accoglienza a Venezia l'Italia ha portato avanti per rappresentare il nostro cinema agli Oscar. Una storia di borgate e fame chimica - ma di vita – che mi ha emozionato e convinto, ma forse meno del previsto. Sono così fortunato, infatti, da appartenere a una generazione successiva e da non conoscere personalmente la strada senza uscita della vita di provincia, la dipendenza che uccide. La sfortuna, invece, è non avere visto altro di Claudio Caligari: regista underground, fotografo di spericolate vite al limite, che è andato via nel maggio di quest'anno. Non so dirvi, adesso, quanto influisca sulle impressioni dello spettatore appassionato trovarsi davanti a un'opera postuma. Non so dirvi quanto Claudio, interessato a una certa realtà, interessante per un certo pubblico, sarebbe stato contento delle luci dei riflettori. Non essere cattivo, opera con cui si congeda, è realmente il meglio di cui è stato capace? O più significativa è la genesi del progetto, l'immagine – per chi la sa cogliere – di un'epoca che cede il passo alla successiva? L'ho visto alla cieca e con alte aspettative, e l'ho trovato un film tutt'altro che perfetto – c'è qualche scena da libro Cuore di troppo, un epilogo inevitabile, un'atmosfera che chi legge la nostra narrativa ha incontrato nella Avallone, nella D'Urbano, nel primissimo Ammaniti – e non particolarmente adatto a figurare in una competizione di ampio respiro. Chi non legge, perché mancano il tempo o la voglia, non ha percepito il senso di dèjà vu? E, soprattutto, chi Calligari non lo conosceva, come il sottoscritto, quanto non ha colto? E' provinciale, il che - giuro - non vuole essere un'offesa nei suoi riguardi; è essenzialmente una piccola cosa nostra. Con le sue pecche, lo stile che ricorda quello di altri, ma con attori naturalissimi – il già noto Luca Marinelli e la rivelazione di Suburra, Alessandro Borghi, che bello e bravo com'è farà tanta strada – e un cuore incorruttibile. Perfino candido, a discapito dei protagonisti che pippano, della rudezza del dialetto, delle svolte senza ritorno. La sporcizia è in chi la vede. (7)

Luciana, con una pistola in mano e il trucco sbavato, cresciuta all'ombra dei tralicci e di un padre battagliero, ha un figlio in grembo e un impiego che la società le ha negato, spaventata da quella pancia che cresceva e dall'evenienza di un aumento. Nella stessa provincia romana è stato esilitato Antonio, poliziotto settentrionale, campione di scelte sbagliate; ne farà un'altra, lì, innamorandosi di una ragazza transessuale che fa chiacchierare i più. Dieci anni fa, con la crisi che ci colpiva di striscio e i tagli al personale che facevano feriti ma non vittime, avevo rimediato su un DVD una pièce che, quando il teatro nessuno me lo aveva ancora spiegato, quando l'economia vacillava ma non c'era granché da preoccuparsi, mi aveva scosso. Un incredibile one woman show, nero e lungimirante, in cui una giovane Paola Cortellesi – sola su un palco – interpretava decine di personaggi in cerca di un'illusoria felicità. Allora la crisi era circostanza, adesso è dura verità. Allora c'era una sola attrice sotto l'occhio dei riflettori, adesso si aggiungono il marito Gassman, l'ispettore Bentivoglio, la guardia giurata Fresi, anche se Paola Cortellesi – straordinaria – non ha rivali. Gli ultimi saranno ultimi, dalla pièce omonima, prende in prestito la solidità delle situazioni, un'interprete maiuscola, ma non l'aria teatrale; qui presente nella concretezza dello script e non in prove attoriali, in generale, assai spontanee. Ci si emoziona – le risate non mancano, con Radio Maria che risuona nelle tubature, e la cupezza diffusa genera rughe – e ci si prova, nel finale, almeno, a dare almena una specie di speranza. Ma quale consolazione può esserci? Dieci anni dopo, la crisi è all'ordine del giorno e i licenziamenti riempiono le mense dei poveri e le fosse. E' adesso, in tempi tanto così bui, che Gli ultimi saranno ultimi passa davanti alla macchina da presa e, con gli stessi nomi, fa un lungo salto. Trova accoglienze modeste in sala e un pubblico che una volta a settimana, al cinema, si trova purtroppo davanti l'ennesimo titolo sulla vita grama e il precariato. Sulla carta, qual era la sua utilità? Con mia somma sorpresa, io che pensavo che un cast ampio ne avrebbe compromesso la cifra stilistica e la tipica leggerezza di Bruno addolcito l'intensità, ho trovato felicissimo il tentativo di portare questa tristissima storia oltre il sipario rosso. (7+)

Britain's got talent ci ha lasciato un format da far nostro e la storia a lieto fine di Susan Boyle. Quanto piacciono le trasformazioni dei brutti anatroccoli in cigni? A me, che credo nelle seconde possibilità e nella benevolenza del destino, molto. E' da una favola, dallo stesso Britain's got talent, che prende avvio la storia vera di Paul. One Chance, con toni sognanti e tutta l'allegria di cui la commedia inglese è capace, racconta a fan e profani cosa c'era prima del successo mediatico. Un'infanzia di vessazioni – aggravante per i bulli, oltre al fatto che Paul fosse in sovrappeso, la passione per l'opera lirica -, l'amore online, il soggiorno a Venezia e Pavarotti in persona che ti chiude la porta in faccia. Ricominciare a crederci da capo. Con l'ispirazione, insieme alla salute, che va e che viene, mentre restano una compagna fedele, qualche amico prezioso, due genitori strampalati. L'americano David Frankel dirige una produzione tipicamente british, nello stile di Full Monty e Billy Elliot, in cui l'uomo medio, inquadrato in una grigia realtà industriale, non si arrende a ridimensionare la portata dei suoi grandi sogni. Una vita normale può essere un esempio illuminante, purché ci sia uno scopo preciso. Quella di Paul, come il melodramma nostrano predisposta ora alla leggerezza, ora alla tragedia, diventa così un cinema in cui crederci – al cambiamento e alla rivalsa, intendo – mi insegna a stare con meno livore al mondo. Sceneggia Zackham, e a tratti sembra l'adorabile Curtis; protagonista assoluto, con la faccia pulita e la fisicità dirompente, quel James Corden che conoscevo solo per Into The Woods. Si vuole bene a lui e al suo Paul – perché, c'è differenza? - e ci si emoziona a tutto tondo; a tutto cinema. E così, quando in una delle ultime scene intona Nessun dorma e c'è quasi, sta per arrivare al momento clou, quel “vincerò” ribadito e guadagnato, ripetuto per ben tre volte, suona liberatorio e un po' struggente. Parte l'applauso e il sospiro di sollievo. Paul Potts aveva già vinto allora. (7)

Una donna in fuga trova rifugio tra le mura di una fattoria. C'è qualcosa, però, che sovverte quella pace ritrovata. I piccoli fratelli Collins iniziano a svegliarsi in preda agli incubi e il più fragile dei due ha amici immaginari che, attraverso filmati cruenti, vogliono spingerlo a uccidere la sua stessa famiglia. Possibile scrivere, questa volta, un altro finale? Il primo Sinister che chissà perché, tre anni fa, non aveva trovato spazio sul mio blog, mi piace ricordarlo – sbaglierò? - come uno degli horror più a fuoco degli ultimi tempi. Un demone spaventoso, un mistero duraturo, un epilogo agghiacciante che non dava speranze. Le domande che, in una trama volutamente nebulosa, ti volevano attento fino alla fine. Sul suo seguito non gravavano, per forza di cose, alte aspettative. I commenti, in rete, mi dicevano che era cosa mediocre; nonostante gli utili avvertimenti e il partire negativamente prevenuti, tuttavia, Sinister 2 si impegna a risultare peggiore del previsto. Noioso, inefficace e, spesso, ridicolo. Unici lati positivi: gli studiati interni vintage; le immagine contenute nelle bobine, realistiche e sgranate soggettive di morte, quasi parte di uno snuff. La colpa dell'insuccesso è imputabile al pessimo cast e a una sceneggiatura che, giocando sin dall'inizio a carte scoperte, perde il minimo sindacabile di appeal. I piani di Mr. Boogie si conoscono; i suoi aiutanti, non più così misteriosi, svaniscono in amatoriali dissolvenze; l'epilogo, scontato, è quello canonico: troncato bruscamente per lasciare aperte le porte a un eventuale, indesiderato seguito. O magari, per regalarci un sussulto che tanto – ennesimo passo falso - non arriverà. (4)