Glee
The Final Season
Al
tramonto del Glee Club, ho rinnegato l'universo e cuore a cuore con
la tivù, pronto ai playback – perché ero certo che Don't Stop
Believing sarebbe rispuntata – e a tamponare qualche lacrima
furtiva. Questione di moscerini nell'occhio. O magari di sciami
d'ape, o di ante di armadie a muri. Cose così. Non ho il pianto
facile, è che sono un nostalgico. Pensavo che mi sarei commosso per
quello che era stato e perciò mi ero barricato nella mia ricercata
solitudine: se ci fossero stati i lacrimoni, ci sarei stato solo io.
Non mi piace che ci sia gente intorno, quand'è così. Gli addii sono
cosa personalissima: gli addii sono cosa mia. In pubblico pare
brutto. Uno si trattiene. E l'ipotetico pubblico, a meno che non sia
cresciuto con noi, non sa che cosa ha significato Glee
all'epoca del ginnasio, dei passi incerti, delle cuffie dell'iPod
fuse nelle orecchie, col mondo e i genitori contro. Chi
guarda abitualmente serie Tv lo avrà sentito nominare: sa che è
quella serie sugli adolescenti canterini, di cui la giovane star
principale è morta in un'estate crudele per overdose, lasciando la
produzione in balìa di scritture incerte, comprimari jolly, stagioni
improvvisate da scordare. Lo scorso anno, una stagione scritta a mo'
di fanfiction, quando tutto sembrava perduto, mi avrebbe risollevato:
sarebbe stata il male minore. Se lo avete abbandonato, recuperate a
tempo perso questi rassicuranti tredici episodi per vedere che lo
cose vanno come era giusto che andassero: la morte di Cory ha messo
in ballo tutto e il finale con Lea Michele che, dopo Broadway, torna
a casa, dal suo Finn, è un'immagine bella e commovente che,
purtroppo, non può essere. Era stata evocata in The
Quarteback, quel vecchio
episodio commemorativo che mi aveva fatto piangere il mare.
Lucidamente, posso dirvi che qui c'è troppo. Mi piacciono le storie
sospese, i sapori agrodolci e tutto mi è sembrato troppo
affollato, troppo
colorato, troppo
felice, come se ci fosse il bisogno di mettere tutti i puntini sulle
loro care i. Quella atmosfera di festa contagia, I lived la
canti appresso a loro e ai OneRepublic, ma pensi. Pensi e dici che
l'episodio della stagione scorda – “New Directions” – sarebbe
stato senz'altro più perfetto per tirare le somme, beccandoti
inconsolabile. Io la quinta serie l'ho detestata e
non potevo credere che a Glee
avessero fatto quello. Lo avevano forzato, scardinato, trasferito a
New York. Ma Glee era
roba di provincia e ragazzi qualunque, di hit da karaoke e buoni
sentimenti, di aule e corridoi: una compagnia per superare gli anni
del liceo. Va avanti da sei anni; tanti. Mi sfiora questo: la
consapevolezza di quanto veloce passi il tempo, di cosa cambi e cosa
invece no; l'immagine del vecchio me che, come il nuovo, d'altronde,
stenta ad accettare i mutamenti tutt'intorno. Questo serial mi ha
preso ragazzino e mi ha lasciato sulla soglia dei ventuno, proprio
come Harry Potter – che,
per carità, ha avuto ben altro significato – mi aveva conosciuto
alle elementari e abbandonato otto film (e sette romanzi) dopo.
L'ultimo episodio di Glee si
è concluso all'insegna del benessere e della leggerezza e sono
andato a dormire con l'animo sereno, quando invece mi aspettavo –
emotivamente – meglio e peggio insieme. A scuotermi è l'idea che
non ci sarà la settimana prossima, che dovrò trovarmi altri
compagni di viaggio per altre avventure quotidiane: la chiusa mi ha
lasciato soddisfatto, ma con gli occhi asciutti e con un po' di cose
da dire. Dio, sono più Sue Silvester che Will. Preoccupante? A onor
del vero, dunque, i due episodi conclusi – un ritorno al 2009 e un
rigoroso The End –
si trascinano gli stessi difetti di un'ultima stagione imperfetta,
frettolosa, ma con la dote generosa della coerenza. Passi avanti
rispetto allo scatafascio dello scorso anno. Ci si poteva comunque
auspicare qualcosa di maggiormente curato, ma se hai resistito per
sei anni – nella buona e nella cattiva sorte – eri preparato ai
nuovi personaggi poco incisivi, alle punte kitsch, a una colonna
sonora che purtroppo regala stentati picchi. Ma la cosa più bella e
più brutta che posso dire della sesta stagione sapete qual è? Glee
sembra scritto dai fan. C'è un certo provincialismo in questo, vero; una
tendenza ai finali più che rosei rosa shocking - con matrimoni,
futuri gloriosi, salti avanti e indietro, nodi che vengono al pettine
-; ma c'è anche fedeleltà, amore. Sconfinato, cieco e stupido amore
da parte di chi gli ha voluto tanto bene, mentre lo rendeva così, su
misura di spettatore, e lui ci rendeva di conseguenza così, a un
passo dal sogno. (6/7)
The Casual Vacancy: Il Seggio Vacante
Miniserie tv
Quando
è arrivato in libreria, Il seggio vacante ha fatto parlare di sé. Prevedibile
quando una dell'autrici più influenti del mondo, nome di spicco nel
mondo della narrativa per ragazzi e non solo, si presenta con un
imprevisto malloppone giallo e rosso, in cui tutto ruoto attorno alle
imminenti elezioni cittadine e a un microcosmo perfettamente reso in
cui ci si comporta da razzisti, traditori, egoisti: esseri umani.
Il seggio vacante era una lunga
commedia dai toni sarcastici, con personaggi popolosi e un umorismo
britannico che lasciava scie velenose. I capitoli erano una finestra
segreta sulle famiglie di Pagford. La scrittura, ora elegante e ora
cruda, dava voce a giovani e vecchi impegnati in una lotta di classe
di notevoli proporzioni: cosa farne dei Fields, quelle vecchie case
popolari, covo di drogati e accattoni, che deturpano il volto di una
ridente cittadina? Alcuni volevano smantellarle e fare spazio a hotel
di lusso. Altri pensavano,
invece, che sbattere per strada famiglie a casaccio non fosse per
nulla cortese. Nelle discussioni, si era raggiunta la parità: i
Fields restavano. Ma morto l'uomo più generoso della comunità,
il suo posto al consiglio sarà occupato dal figlio di un viscido
conservatore, da un timido prof del liceo o dal subdolo fratello
dell'estinto? Mentre le mogli modello danno forfait e la prole
ribelle urla la propria insofferenza, con un misterioso hacker
disposto a portare alla luce del sole i loro sporchi segreti, i tre
candidati ci diverteranno – perché loro si divertiranno un po'
meno – con una galleria di intrighi, rivelazioni,
inciuci. Il The Casual Vacancy col
marchio BBC si segue bene, risulta ben scritto e ben recitato, ma tre episodi bastano giusto per dare una vaga idea di quel che è.
E non parlo da lettore che si diletta coi soliti paragoni e che dice
che tanto il libro è meglio: il libro lo ricordavo poco, sinceramente. Il primo
episodio, introduttivo e minuzioso, mi ha lasciato stranito. Era la Londra di Skins,
a tratti, non quella di Downtown Abbey e
leggendo lo immaginavo più raffinato... ma penso fossero semplici
suggestioni da Harry Potter.
Al secondo mi sono ricreduto: perfetto. Il terzo, per me decisivo
nella valutazione, finisce e tu, quasi quasi, aspetteresti il
successivo, pur sapendo che non c'è. Si stenta a cogliere il punto,
insomma, quando nel romanzo tutto mi era parso al proprio posto.
Relegate a personaggi di contorno Gaia, la nuova arrivata in città,
e la taciturna figlia della Dottoressa Jawanda, anche se accanto ai
veterani Michael Gambon (ma sì, è lui: Silente), Rory Kinnear e
Julie “Miss Marple” McKenzie, rivelazione sono i giovani del
cast: l'esordiente Abigail Lawrie, ad esempio, è la Krystal che ricordavo. Sputata. Blogger mi dice che, nel 2012, Il seggio vacante
lo avevo amato: i dialoghi dal forte impianto
teatrale sono pane per i miei denti e lo stile della Rowling restava
comunque una garanzia. La notizia di una miniserie tv, quando la
stessa autrice si era detta dubbiosa, mi aveva reso a mia volta
dubbioso, ma curiosissimo. Sono passati tre anni. Nonostante la trama
semplice, The Casual Vacancy
in tre ore stenta a starci. Si guarda, ha il
giusto mix di cattiveria e leggerezza, una fotografia splendida, ma
quel romanzo tutto pensieri, pieno di nomi e situazioni, rende poco
così, come renderebbe altrettanto poco in un film. Non che la resa non sia
all'altezza della situazione, ma l'idea di una riduzione – e parlo
di riduzione non a caso; di un riassunto alla buona – era difettosa a priori. (6)
Looking
II Stagione
Lo
scorso anno, al suo inizio, Looking sembrava
promettente. La HBO ad assicurare indiscussa qualità (e non manca),
un cast tutto al maschile (e quello c'è), atmosfere da Sundance
(presenti all'appello, insieme a un immancabile fare hypster, a una
colonna sonora dai colori indie, a una San Francisco piena di
malinconica e luci baluginanti), amori che vanno ma amici che
fedelmente restano (ed eccola qui la promessa mancata, e non è cosa
da poco). Alla fine di una seconda stagione non attesa, consumata
tutta insieme, senza dilungaggini o momenti di noia, potrei ancora
dire che Looking
sembra promettente. Ma il promettente è un qualcosa che di per sé è
destinato a prendere forma in tempi ragionevoli. Qui sono passati due
anni e ci si rende conto che l'aggettivo promettente è andato in
giacenza; lascia il tempo che trova. In parte, colpa della
cancellazione, che ci priverà di una terza stagione che nessuno
piangerà davvero; in parte, colpa dei creatori, abili con i loro
corposi dialoghi e il resto, ma incapaci di dare al prodotto una
direzione marcata. Lo spettatore armato della pazienza che non ho
avrebbe potuto aspettare una necessaria messa a fuoco, ma quanto? E
ci sarebbe stata, alla fine? Un senso di irrisolto, di incompiuto, mi
rendono perciò critico verso questo nuovo ciclo di episodi che, in
realtà, mi sono parsi anche più spediti di quelli dello scorso
anno. Ma con il guaio di risultare al solito autoreferenziali,
chiusi, compiaciuti. Come è stato un anno fa, ho apprezzato
l'intimità che si respira, gli attori credibili e una macchina da
presa poco invadente. Quello che avevo sperato – e mi è venuto in
soccorso un vecchio post affidato alla lunga memoria di Blogger –
era il rimarcare, in futuro, la “s” dei plurali. Era paragonato a
Girls, ma a Looking
mancava quel senso di
collettività e amicizia che ancora manca. Ho trovato Patrick, Dom e
Augustine ancora più distanti e la scelta di focalizzarsi sulla
vicenda sentimentale del primo e di mettere in ombra gli altri due
pesa: il nerd Patrick, con le sue insicurezze e la cotta per il capo,
ha più personalità dei suoi amici, destinati a essere comprimari di
passaggio, ma è colpa di una struttura che dà eccessiva importanza
al primo e troppa poca agli altri, eternamente macchiette. A fare
bella figura è il bravo Jonathan Groff scoperto con Glee,
ma Dom è fermo dove l'avevamo lasciato e Augustine, strampalato ed
eccentrico, si è dato al volontariato. L'unico a essersi messo in
marcia, in cerca di solo lui sa cosa, è proprio Patrick E sembrava
averla trovata, quella cosa, vicino al simpatico e traditore Russell Tovey, prima che il finale mettesse in discussione tutto. Finale che
ho trovato cresciuto, significativo, ma col problema di essere
indeciso come il resto. Con Patrick che confessa umanamente i suoi
bisogni e le sue gelosie, Kevin che si mostra terrorizzato dalla
convivenza, poligamia sì e poligamia no, tagli di capelli indici di
cambiamento. Looking
ha il pregio, per me, di fare passi avanti episodio dopo episodio –
ai primi, insinceri e statici, se ne affiancano alcuni degni di nota
e, a sorpresa, sono proprio quelli che chiudono il cerchio – ma con
troppa indolenza di fondo. Resta e resterà una di quelle cose
bollate come eternamente promettenti, ma destinate a non fare il
botto. Tipo quell'allievo spigliato e versatile che si ritira dagli
studi prima di prendere la laurea, mentre gli ultimi della classe si
sposano e cominciano a comportarsi finalmente da grandi. (6,5)