Buongiorno,
amici lettori: perdonate la mia assenza. La verità è che sono
giorni, questi, in cui sto leggendo molto poco, perciò non sapevo
bene di cosa parlarvi. L'occasione giusta, oggi, con un post bello
denso in cui vi parlo di quattro film d'autore – immagino si
possano chiamare così: oh, sto diventando troppo intellettuale,
fermatemi! - che vi consiglio. In pole position, Il giovane
favoloso, visto ieri al cinema, e White Bird in a blizzard,
che non mi ha del tutto convinto ma che so essere molto atteso. Poi
c'è Eva Green nel cast... Eva, I love you. (So che è una mia
lettrice accanita, sure.) In coda, invece, due recuperi
settimanali: l'italiano La nostra vita, e si torna a parlare
così di Elio Germano nello stesso giorno, e lo sfortunato e
notevolissimo Little Children. Questo è tutto. Vi lascio col
mio pensiero e vi abbraccio. A presto. M.
Un
rischio grande, un'impresa necessaria e pericolosa Il giovane
favoloso. L'ho capito l'altro giorno, seduto in sala, in mezzo a
un pubblico misto, partecipe, tesissimo. C'erano anziani, vecchi
professori che al liceo chissà quante volte avevano spiegato quelle
poesie, e giovani, quegli studenti che a volte ascoltavano e più
spesso no, ma che Leopardi – a loro tempo - lo avevano letto,
interiorizzato, sentito. I posti erano quasi tutti occupati. Raro,
quando al cinema danno un film italiano di simile spessore; raro se
non si parla di vacanze a Rio e “miti” di Zelig e Colorado
passati al grande schermo. In sala quattro davano la vita di Leopardi
e tutti erano andati a vederlo spontaneamente, senza imposizione. La
pellicola di Martone ha pregi e difetti. Non è all'altezza della
perfezione formale dei versi che il protagonista, in appassionati
soliloqui, pronuncia, in una natura bellissima che lui vede come
feroce Matrigna. Dal punto di vista cinematografico e stilistico, Il
giovane favoloso è un film di modeste dimensioni, quasi; Martone
– regista di impianto teatrale che anche questa volta non mi ha
colpito come invece avrei voluto – predilige lunghi piani sequenza,
dialoghi che durano interi minuti, sale ampie e sfarzose in cui i
protagonisti sono collocati giusto nel mezzo, come se noi li
vedessimo dal nostro loggione privato. La staticità propria degli
ambienti interni, poi si anima bruscamente, con un montaggio
volutamente legnoso e una macchina da presa che trema, corre, sporca
lo schermo. Come Les Miserables, questa è una produzione
ricca, ma la cui opulenza – per scelte registiche oneste, ma scarne
– si manifesta di rado. Prevale l'umidità, una calma che opprime,
il grigio: manca quel sole che dovrebbe illuminarti l'anima, in
quelle due ore lì. Unica nota di colore, in un pacchetto altrimenti
vagamente scolastico nei modi, una colonna sonora per me molto
originale, in cui si alternano brani di musica strumentale e brani
cantati, moderni, in un inglese che tanti spettatori hanno trovato
fuori luogo. Personalmente, ho trovato perfetto l'inserimento di quei
pezzi: mi pietrificavano; erano inquieti e struggenti. Ti
contagiavano con quell'emozione in più che le immagini non sapevano
liberare. Il film, diviso in due parti simmetriche, è ambientato
nella prima ora a Recanati: un luogo verdeggiante e nebbioso,
filtrato dagli occhi di un bambino prodigio – poi ragazzo, poi uomo
– che lo odiava profondamente, percependolo come un carcere. Un
padre terrificante, una mamma dimessa e poco amorevole, due fratelli
minori verso cui l'affetto – alla fine - aveva trionfato sullo
spirito di emulazione voluto dai dispotici genitori. L'infanzia e la
salute fisica sacrificata per lo studio; per libri che ti spezzano la
schiena e ti accecano, facendoti scrutare il mondo da una
finestrella. Dalle sbarre. Fuori ci sono gli altri che giocano, fuori – al di là
del vetro – c'è Silvia che cuce e sorride e poi muore
all'improvviso. La seconda metà si svolge, invece, dieci anni dopo,
tra Firenze e Napoli: avvenimenti importanti che corrono più
velocemente. L'amicizia con Ranieri, la scoperta di quanto costi cara
la libertà e di quanto sia infelice l'amore, le delusioni e il
pessimismo cosmico, per un film che si apre con L'infinito e
si chiude, poeticamente, con La ginestra e il cielo tappezzato di stelle.
Nonostante la complessità dei temi e una fluidità in parte mancata,
il film – colto, ma mai saccente - non annoia: ho avuto, però,
l'impressione che prevalessero i punti di vista di tutti e di
nessuno. Come il mondo vedeva Leopardi e come Leopardi vedeva il
mondo insieme. Avrei voluto essere nella sua testa, tra pensieri che
viaggiavano con furia supersonica; avrei voluto sapere se conobbe mai
il sesso – perché sì, conobbe l'amore, in tutte le sue platoniche
forme – e se tra lui e l'amico Ranieri ci fosse di più. Le lettere private tra i
due lo lasciano intuire e nel film c'è una certa tensione. Lui era
geloso di Fanny o per Fanny? Lui, in una sequenza, si sofferma per un
secondo di troppo sul corpo nudo dell'amico: amicizia incondizionata
o amore non detto? A colpirmi, invece, l'immagine diversa che Martone dà: un
Leopardi che si faceva volere bene. Un uomo di buona compagnia,
goloso e con tante manie, ma che non fu mai solo. E noi che scambiamo
la sua infelicità per solitudine. Amava gli altri, amava una
gioventù sconosciuta che lui ammirava con gli occhi luccicanti,
amava le passeggiate e l'aria aperta in angoli di Italia catturati da
una fotografia che, a volte, si scopre magnifica. Un genio che non
voleva essere un peso per gli altri; un intellettuale che non turbava
l'ascoltatore con idee che straziavano solo e soltanto lui. I difetti
sono in una regia che si anima solo davanti a una o due scene
oniriche, per me molto suggestive: cinematografiche, finalmente, anche con impiego di accettabili effetti visivi. Ma il pregio, grandissimo, ha un nome e un cognome: Elio Germano. L'Attore,
con la lettera maiuscola. Si supera, si trasforma, diventa Leopardi.
Piegato in due. Sempre di più. Un angolo retto, un angolo acuto.
Come per raccogliere qualcosa; e cosa? Quello scampolo di vita che
gli restava? Quella gioventù che gli era mancata? Espressivo e
duttile, camaleontico e professionale, ci mette cuore, cervello e
sangue, in una prova da applaudire forte e da premiare: la cosa più
bella che c'è. Una voce sicura e roca che ti legge quelle poesie
come nessuno mai te le ha lette, un volto tormentato e segnato, due
occhi schizzanti all'infuori che bucano come proiettili. "Favoloso". La bellezza e
l'emozione del film: concentrata attorno a lui. Uomo gracile, minuto,
potentissimo, che regge una colossale produzione su di sé. Ottimo
anche il resto del cast. Michele Riondino, selvaggio, bello e
tenebroso, si esprime con sicurezza estrema, come a sfidarti
costantemente; la francese Anna Mouglalis, femme fatale, dà fascino,
irragiungibilità e cattiva malizia a Fanny Targioni Tozzetti;
Isabella Ragonese, nel piccolo ruolo di Paolina, è naturale e
dolcissima. Gli altri, noti interpreti di antica formazione e di
pregevole forgia, non sono da meno, anche se è l'Elio Germano show,
com'è giusto che sia. Un dramma biografico con pecche oggettive;
un'operazione complessa e ardua, troppo legata al teatro e poco al
cinema, troppo razionale e poco vivace, ma con un protagonista
assurdamente in parte – equilibrato e sorprendente - che ti
instilla il pianto, la malinconia, il dubbio e l'idea che la sua
prova sia abbastanza solida da spalmare stucco e cemento sulle lievi
crepe del resto. (7)
Un
uccellino bianco in una tempesta di neve. Così, tradotto,
reciterebbe il titolo dell'ultimo film del regista di Kaboom.
Per dire che c'è qualcuno che si è perso e che si è mimetizzato
col resto. Per dire che, a volte, le persone non possono essere
trovate: verità come aghi in un pagliaio. E chi è che si è perso?
Chi è la vittima nel rigido inverno dei diciassette anni di Kat,
quando sua madre scompare nel nulla, senza lasciare traccia? Colei
che è scomparsa; oppure l'altra, la giovane donna che può voltare
pagina e cominciare da zero? White bird in a blizzard è un
dramma dal titolo straordinariamente evocativo, in cui la crescita e
la perdita si fanno morboso mistero. Ironico, veloce, ma tutt'altro
che impalpabile, è un ritratto di due generazioni a confronto:
l'autopsia di un rapporto conflittuale e viscerale tra una madre e la
sua unica figlia: l'altra lei, l'anti-lei. Sono gli anni ottanta e la
famiglia Connors se la cava bene. Bella casa, bel quartiere e una
ragazza che sta venendo su bene, abbandonata la “ciccia”
dell'infanzia e alla ricerca, ormai, della sua identità permanente.
I suoi genitori non si stimano più: non parliamo, dunque, neanche
lontanamente d'amore. La mamma, casalinga perfetta e disperata, cerca
i segreti dell'orgasmo nei libri. Il padre, lavoratore indefesso e
uomo buono, non guarda più con quegli occhi una moglie ancora
splendida e sbava sui giornali porno, in cantina. Finché la donna di
casa sparisce. Non dice addio. Nei due anni successivi, quella Kat
che aveva scoperto il sesso e l'amicizia, la trasgressione e lo
stordimento, tenterà di fare i conti con il vuoto che le ha lasciato
in eredità. Ogni tanto la sogna. Nuda e infreddolita, nella bufera.
Quest'anno ho scoperto due grandi attrici e vederle nello stesso
film, nelle vesti di mamma e figlia, mi ha fatto effetto. Uno di
quelli positivi. Dopo Colpa delle stelle, Shailene Woodley si
conferma la mia personale rivelazione – e io che, convinto, la
odiavo. Convinto, io, che fosse anche una brutta ragazza. E invece
no: qui, nei panni di una ribelle tutta strepiti e fantasmagorica
musica anni '80 sparata nelle cuffie, è sexy e smaliziata. Collante
della storia e fisico da urlo, in una o due scene senza veli. Accanto
a lei, la Eva Green che amo e venero da The Dreamers in poi.
Un ruolo da non protagonista che sfrutta, di lei, un inedito lato
adulto: algida e inquieta, altera e ferita, interpreta una
quarantenne bellissima che non si arrende all'evidenza
dell'invecchiamento. Con voce dura e abiti demodè, inquieta quando
fissa la figlia come se le avesse rubato qualcosa: il più bello dei
suoi vestiti, la vita. Due ottime protagoniste, dunque, è un
ventaglio di buone controparti maschili – Cristopher Meloni, lo
Shiloh Fernandez di Evil Dead, Thomas Jane - per una versione
imperfetta di Lontano dal paradiso e American Beauty,
ma che nelle sue piccole sbavature e nei suoi brevi flashback trova
il suo ricercato, spasimato, disperato senso d'essere. Un fascinoso
romanzo di formazione giallo e rosa; una ricerca che continua e
continua, anche a visione ultimata. (6,5)
Come
può un film come Little Children rimanere ignoto ai più per
poi meritarsi – dopo tre candidature agli Oscar – un pigro
passaggio in televisione, in tarda serata? Non può, eppure in Italia
così capita spesso. Con i film di nicchia, con le pellicole
d'autore, con gli esperimenti. Strano, perché il film del lontano
2006 non rientra in simili categorie; non è bastato ciò, eppure,
per salvarlo, nel nostro Paese, dal quasi totale anonimato. Tratto da
un romanzo di Tom Perrotta, grande firma dell'acclamata serie tv The
Leftovers, Little Children è un dramma umano,
contemporaneo e bello, affacciato sui quartieri residenziali che più
affascinano i grandi autori di narrativa straniera. Parchetti curati,
ville a schiera, scivoli che non cigolano, una piscina attorno a cui
riunirsi nei fine settimana. Una Revolutionary Road in cui c'è
chi non si è ancora arreso al divenire: chi rifiuta di acquistare un
cellulare, chi è membro di attempati club del libro, chi cerca una
via di fuga in romanzi proibiti. Tutti conoscono tutti, e forse
quello è il guaio. Gli abitanti di quel quartiere tutto sorrisi,
chiacchiere e cortesie non hanno libertà: inchiodati, a casa, dalle
loro famiglie e, fuori, dagli sguardi giudicanti degli altri. I papà
vanno a lavorare, le mamme spingono i loro figli sulle altalene, ma
le eccezioni – pian piano – iniziano a manifestarsi. C'è una
mamma che vorrebbe fare la scrittrice e che sente il peso di una
bambina che piange e chiede troppo. C'è un papà che non lavora e
che, vecchia gloria del liceo, rimanda a data da destinarsi un
importante colloquio, perché la moglie guadagna abbastanza per
entrambi e il lavoro di “mammo” gli piace, anche se non lo
gratifica. Infine, c'è un pedofilo che tenta di rifarsi una vita in
un quartiere in cui nessuno lo vuole: vive con la madre anziana in
una casa presa di mira dai vandali e da chi ha sete di giustizia;
cerca – invano – di inserirsi in una società che non lo tollera.
Le loro sono vite che si incontrano e si scontrano, in luoghi
pubblici in cui cercano disperatamente di trovare un posticino per
loro. Tutti alla ricerca di un senso – che sia un ritorno alla
giovinezza, che sia una relazione, che sia l'espiazione alle loro
colpe. Il ritorno sugli stessi luoghi, i paesaggi familiari come
cornici, il sesto senso che ti dice che potrebbe succedere qualcosa
di straziante. Pacato e vero, invece, accende una luce sui pregiudizi
e le ipocrisie grandi e piccole. Riesce nell'impresa di vivere
attraverso personaggi che non vivono. Le riflessioni, disincantate e
amare, non risultano né didascaliche, né superflue: il tutto, con
rispetto e garbo, non cade mai nell'eccesso. Lontano dal
sentimentalismo, lontano dalla fredda satira, coinvolge, tocca, un
po' diverte. Il cast, eccellente, ha un Patrick Wilson carnale e
maturo, una Jennifer Connelly bellissima ma messa in un angolo, e le
due punte di diamante che valsero al film due nomination su tre. Che
dire della solita Kate Winslet: una Madame Bovary di provincia
che si scopre seducente con un costume intero rosso e il diritto a
una sfera privata da reclamare forte. Naturale, impeccabile, ti
scordi perfino che stia recitando. Come sempre. Non protagonista, un
pazzesco Jackie Earle Haley (l'ultimo Freddie Krueger nel
trascurabile remake di Nightmare), con un ruolo meschino,
arduo, sofferto. Un personaggio scomodo, ma di quelli che non scordi.
Comune, morbido, sensuale e forte insieme, Little Children è
un film che ho recuperato tardi e che meriterebbe di più. Ha un
occhio acuto, una voce personale, personaggi infuocati come fossero
fili dell'alta tensione, una fotografia luminosa. Per gente
insaziabile che ha fame di tutto, e quel tutto lo vuole subito. (7,5)
Dopo
una perdita che sconvolge, quello che va via e quello che rimane. Una
lista infinita di rovine e di caparbi, preziosi resti. Restano un
lavoro che strema, la famiglia, i figli. Resta la vita, anche se a
metà. In una domenica pomeriggio con un caldo fuori dalla norma, mi
sono dato a un doveroso e necessario recupero cinematografico. Ho
visto il film che - quattro anni fa - aveva fatto guadagnare al
nostro Elio Germano la Palma d'Oro al prestigioso festival di Cannes.
Vittoria meritatissima. Vedere per credere. E com'è? E' un film
doloroso, trattenuto, incredibilmente spontaneo. Annichilisce. Il
ritratto di una Roma coatta, luminosa e di cuore, in cui tra cantieri
infestati da operai in nero, malasanità, destini infelici che
permettono a una solare trentenne di morire di parto, non si
dimenticano i pranzi in balcone con la famiglia in gran
completo. Le discussioni in dialetto, le risate e i prestiti, le
confidenze e gli abbracci. Il protagonista si ritrova a essere papà
di tre figli, quando della sua anima gemella non gli rimane che un
cerchiotto d'oro al dito: una fede che, giura, non
toglierà mai. Lei muore, e non c'è più quella fame d'amore, i
pasti salutari, le gitarelle al centro commerciale coi bambini che
mettevano nel carrello cose che non potevano manco permettersi. Lei
muore, e lui piange una volta. Al funerale. Nel momento in cui, sulle
note di una canzone di Vasco, la più bella, esplode, con le lacrime
agli occhi, con la rabbia accumulata, con la voce stonata. Si getta a
capofitto nel lavoro, si indebita fino al collo, affoga e sale a
galla, Claudio. Prende sotto la sua ala il figlio di un custode
rumeno che ha trovato sepoltura in un cantiere incompiuto; cerca una
moglie per un fratello maggiore bello come Raoul Bova, ma timidissimo;
lascia i suoi bambini a destra e a manca - dal vicino spacciatore,
tipo, e dalla moglie prostituta - ma passa puntualmente a
riprenderli. In quel quartiere tutti sono chiassosi e un po'
razzisti, ma ci si vuole bene. La nostra vita è una doppia
foto. Un flash per immortalare i rischi quotidiani di un capo
cantiere, un altro per beccarlo nei suoi momenti di intimità, in una
casa di soli uomini che vizia e coccola, come fanno i padri quando le
mamme sono via. Ma quella mamma è via sempre, e non tornerà: come
reagire? come essere genitore senza la sua guida, le sue dritte, i
suoi suggerimenti sui danni dei cibi fritti e delle mille schifezze
precotte? Le risposte, incomplete ma senza imbrogli, in un film
piccolo e grande, dalla fotografia impura e con un cast naturale in
ogni sua sfaccettatura. Un Bova autoironico e intimidito da un
fratello più piccolo e evidentemente più in gamba; un Luca
Zingaretti istrionico e con un improbabile riporto; una Isabella
Ragonese - in un breve ruolo - che sprizza vita e gioia, per poi
stringerti il cuore nel suo pugno di donna. Regge il tutto un Elio
Germano clamorosamente, indescrivibilmente bravo. Un personaggio
taciturno, rozzo e intraprendente, che ha vita propria e parla e
agisce come se la macchina da presa non ci fosse. Elio Germano è
bravo, perché con lui non c'è mai finzione. Lo guardo, magrolino e
basso, e mi chiedo come possa in quel corpo minuto nascondersi il
nostro attore più talentuoso. Qui, in un film nudo e crudo, ma con
un sorriso nonostante gli occhi gonfi. (7+)