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mercoledì 30 ottobre 2013

Recensione: Il mio disastro sei tu, di Jamie McGuire

Buongiorno a tutti, amici miei! Non sono sempre presente come un tempo, ma, statene certi, ci sono: in questo weekend – di ritorno a casa – prometto che tornerò a rompervi le scatole per bene. Oggi, vista la cancellazione della lezione di storia del cinema, ho portato a termine il romanzo che avevo il lettura e ho scritto questi pensieri per voi. Quando si parla di new adult è un dilemma continuo: la recensione sarà positiva o negativa? Io ve lo dico: è positiva, come lo è stata quella di Uno splendido disastro. Se non vi è piaciuto il primo, credo che nemmeno questo romanzo farà per voi, almeno che non abbiate uno spirito sadico e sanguinario! Altrimenti, ve lo consiglio. Soprattutto se avete bisogno di una lettura che vi coccoli un po'. Un bacione e a prestissimo, M.
Un giorno ti innamorerai, figliolo. Non accontentarti di una ragazza qualsiasi. Scegli quella che hai difficoltà a conquistare, quella per cui devi lottare e non smettere mai di combattere. Non smettere mai di combattere per ciò che vuoi.

Titolo: Il mio disastro sei tu
Autrice: Jamie McGuire
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 363
Prezzo: € 16,40
Data di pubblicazione: 17 Ottobre 2013
Sinossi: Travis Maddox è solo un bambino quando sua madre, ormai con un filo di voce, gli lascia queste ultime parole. Parole che Travis conserva come un tesoro prezioso. Adesso Travis ha vent’anni e non conosce l’amore. Conosce le donne e sa che in molte sarebbero disposte a tutto per un suo bacio. Eppure nessuna di loro ha mai conquistato il suo cuore. Provare dei sentimenti significa diventare vulnerabili. E Travis ha scelto di essere un guerriero. Finché un giorno i suoi occhi scuri non incontrano quelli grigi di Abby Abernathy. E l’armatura di ghiaccio che si è scolpito intorno al cuore si scioglie come neve al sole. Abby è diversa da tutte le ragazze con cui è sempre uscito. Cardigan abbottonato, occhi bassi, taciturna. E soprattutto apparentemente per niente interessata a lui. Ma Travis riesce a vedere dietro il suo sorriso e la sua aria innocente quello che nessuno sembra notare. Un’ombra, un segreto che Abby non riesce a rivelare a nessuno, ma che pesa come un macigno. Solo lui può aiutarla a liberarsene, solo lui possiede le armi per proteggerla. L’ultima battaglia di Travis Maddox sta per cominciare e la posta in palio è troppo importante per potervi rinunciare. Solo combattendo insieme Abby e Travis potranno dare una casa al loro cuore sempre in fuga…
                                                    La recensione
Avevo deciso da tempo che avrei sfruttato gli avvoltoi finché non fosse comparsa una colomba. Una creatura che non divora nessuno, che vive la sua vita senza distruggerti per soddisfare i propri bisogni e i propri egoismi: coraggiosa e comunicativa, intelligente, bella e dolce, in cerca di un compagno con cui trascorrere l'intera esistenza. Irragiungibile finché non ha motivo di fidarsi di te.” Raramente mi è capitato di rileggere lo stesso libro nel corso degli anni. Mai, ancora più che raramente, mi è capitato di rileggere lo stesso libro nel corso di un anno solo. Ho una memoria piuttosto buona e tendo a tenere a mente i dettagli essenziali. L'importante. Odio ritrovarmi a leggere ancora gli stessi discorsi, detesto saper anticipare le singole scene con la puntualità di un orologio svizzero, m'innervosisce da matti l'idea di conoscere già in anticipo l'epilogo. Soprattutto quando si parla di gialli. E i due romanzi di Jamie McGuire, apparentemente legati al filone del new adult, cos'altro sono se non due gialli; due misteri in piena regola? La scorsa primavera, Uno splendido disastro si era rivelato un sorprendente caso editoriale. Di sorprendente c'era solo il successo incredibile che aveva riscosso, grazie al più contagioso dei passaparola. Tutti ne hanno parlato e tutti hanno voluto leggerlo, almeno per provare. Per criticarlo, come previsto dal prevedibile copione del recensore cinico e spietato, e, talora, anche per applaudirlo. Non ci sono spiegazioni per le tante chiacchiere e per la troppa pubblicità senza fine. 
Non ci sono vere motivazioni, a mio parere, per le tante critiche, che hanno fatto di Uno splendido disastro un romanzo di cui parlare male per forza, al pari delle Sfumature, dei romanzi di Fabio Volo e di altri libri scritti per vendere – come se la cosa fosse un crimine federale e lo scopo principale di ogni autore di best-seller fosse quello di lasciar marcire il suo manoscritto in un cassetto, nell'anonimato, anziché darlo alle stampe. A pochi mesi dell'uscita del primo, la Garzanti ha portato da noi Il mio disastro sei tu, facendo la gioia di molti lettori e l'ira di altrettanti che, da secoli, aspettano che tante serie a loro care giungano giustamente a conclusione. Io non so quanto si sentisse realmente il bisogno di questo romanzo e quando sia stata brillante l'idea dell'autrice di pubblicarlo subito, anziché aspettare qualche anno per aumentare la curiosità e l'attesa dei suoi fan. So che è stato scritto, probabilmente, per motivi puramente economici e che, anche se arricchito da un punto di vista diverso, racconta la stessa identica storia del primo volume: una storia che già conoscevo e che ancora ricordavo. Ma, in tutto ciò, non so, invece, perché Il mio disastro sei tu – così come l'altro disastro che l'ha preceduto – mi sia piaciuto così tanto. Altro mistero... La risposta plausibile è una, o almeno credo: come cantava Paul McCartney, la gente non è ancora stanca di sciocche canzoni d'amore. Non è mai stanca, e mai lo sarà. Travis e Abby sono la fonte d'ispirazione di una di quelle canzonette in rima per l'estate: una di quelle di cui ho imparato il ritornello a furia di sentirle passare alla radio e che, ogni tanto, protetto dalla fedele segretezza delle mie cuffiette, ascolto e riascolto volentieri, senza vergogna. Per ritrovare il sorriso. Per il bisogno egoistico di stare un po' meglio al mondo. Avevo letto il primo romanzo in un momento no; in uno dei tanti e onnipresenti miei momenti no. E, grazie o a causa dell'inquietante simmetria del destino, mi sono trovato tra le mani Walking Disaster in un weekend di completa, totale solitudine universitaria. Come per magia, mi sono sentito meno triste, meno solo, meno tutto. E' stato inaspettatamente rassicurante, per una volta, leggere due volte la stessa storia. Rincontrare gli stessi volti, riassistere agli stessi baci e alle stesse discussioni, prendere gli stessi pugni in faccia e farsi spaccare ancora un po' un cuore già ulcerato dalla stessa catastrofe col gardigan e gli occhi grigi, che il protagonista – un ventenne con le spalle e l'anima più ampie della media – ha ribatezzato teneramente Pigeon dal primo istante. Travis Maddox, già cuore pulsante del primo romanzo, si racconta e ci racconta la storia del suo primo e ultimo grande amore. Quello che l'ha portato ad ubriacarsi e a piangere come un bambino abbandonato, a fare a botte e a dar vita a esagerati momenti di esagerata gelosia. A riempire la sua stanza asettica di fotoricordo sparse e il suo letto di una ragazza da custodire come un tesoro prezioso, dal tramonto all'alba, dal lunedì alla domenica, per tutta la vita che verrà. Nel primo romanzo era lui a essere raccontato e, anche se visto dagli occhi della volubile e dolcemente complicata Abby, avevo colto il suo mondo a colpo d'occhio. Travis era una persona che, nella vita di tutti i giorni, non mi sarebbe mai piaciuta, ma, nel corso della lettura, inaspettata come la neve ad agosto, era giunta l'illuminazione. Perché, in verità, io l'avevo capito, nonostante tutto. E, in questo Il mio disastro sei tu, l'ho scoperto ancora più vicino a me; ancora una volta, nonostante tutto.
Le nostre voci, fondendosi, risultavano più simili del previsto e i nostri pensieri, tante volte, combaciavano, incastrandosi a formare la parte di un insostituibile tutt'uno. I pensieri sono più semplici e immediati: noi ragazzi non amiamo troppo i giri di parole. Le emozioni, tuttavia, sono più intense e viscerali: noi ragazzi – ben nascosti sotto le antenne dell'articolato cromosoma Y – possediamo strane cose, misteriose e imprevedibili, chiamate “sentimenti”; ci affezioniamo di più, e più in fretta. Amiamo anche chi ci abbraccia e ci insulta a fasi alterne, sì. Ho trovato tanta tenerezza in Travis, romantico e delicato nonostante le nocche livide e gli attacchi incontenibili di gelosia. L'autrice, nelle prime pagine, fotografa da vicino il suo dolore, in presa diretta, e descrive l'attaccamente per una famiglia tutta al maschile, l'amicizia e il cameratismo con il simpatico Shelpley, il rimpianto verso l'unica donna che non è riuscito a mantenere con sé, la ricerca di un colomba bianca in un mare di avvoltoi egoisti, famelici, spietati. Il tono è colloquiale, giocoso, spontaneo, melenso nemmeno un po'. E' proprio di una commedia romantica che è già cult, con gli occhi puntati al passato e lo sguardo rivolto altrove, verso il futuro di una vita tinta di rosa felicità. I romanzi di Jamie McGuire non saranno senza tempo, ma sono fuori tempo. Fuori dal tempo. Sembrano appartenere a una generazione fa: figli di troppe proiezioni private di Ufficiale Gentiluomo, Top Gun e Amore senza fine, di gite al cinema in compagnia di Animal House, di estenuanti letture di Love Story, di corse in moto, a fari spenti nella notte, e scene d'amore scandite dalle musiche dei Police, dei Rolling Stones, dei Berlin. Alcuni userebbero l'aggettivo “tamarro”, io preferisco “vintage”.
L'epilogo, di questo come del precedente, potrebbe risultare frettoloso, stupido ed improbabile: è perché è l'amore, ai giorni nostri, a essere considerato frettoloso, stupido e improbabile di per sé. La generazione dei nostri genitori – la stessa di cui parlavo – è la dimostrazione che non è esattamente così. Noi siamo la dimostrazione concreta di quella forma d'amore. Forse sarò credulone io, ma all'amore di Abby e Travis ci ho creduto. Anche se non incontravo una ragazza così spietata e spaccacuori dalla Sole di 500 Giorni insieme. Anche se Travis, nella vita vera, sarebbe uno di quei tipi assurdi con gli occhiali da sole anche di notte, con un bel nome del cavolo tra parentesi su Facebook e, nei nostri anni peggiori, ci avrebbe preso puntualmente in giro. La vita, però, non è bella come un romanzo e loro, così presuntuosi e orgogliosi, descritti da una prosa semplicissima e lucida, risultano bellissimi: una bellissima coppia improbabile. I ragazzi acqua e sapone in copertina, che colgono l'oggi nell'attimo appassionato e fugace di un bacio offerto alla macchina fotografica. Il mio disastro sei tu non brilla per nessun motivo in particolare. Non scandalizza gratuitamente come la duologia di Abbi Glines, non si avvale di uno stile particolarmente memorabile, non sconvolge, ma le sue quasi 400 pagine – pagine che, nelle linee generali, già conoscevo – non mi hanno dato un attimo di noia o di tregua. Il motivo non lo conosco, ma alla fine, come una persona più intelligente e grande di me ha scritto, all'amore non si chiede perché; esente da questa domanda anche l'alchimia. Il mio disastro sei tu non sarà di certo il romanzo più bello di questo 2013, ma se ci fosse una categoria speciale, dedicata alla migliore coppia, ai migliori baci, ai migliori addii, Travis e la sua Pigeon sarebbero ai primi posti. Forse, tra un mese o un anno, rivedrei i punti salentieti di questa recensione, ne modificherei il tono e il linguaggio, eliminerei una stellina dalla generosissima valutazione complessiva. Ma questo è quello che mi sono sentito di scrivere adesso. Questo è quello che sento. Non infierite... o fatelo pure! Chissene... Io sono felice. E la felicità porta fortuna. In fondo, credo che non ci sia niente di più bello che chiudere un libro con il sorriso ancora sulle labbra. Uno dei tanti lati positivi di queste silly love songs, o forse no? “Forse ero solo io. Forse eravamo solo noi due. Forse insieme costituivamo un'entità instabile, pronta a implodere o ad amalgamarsi. A ogni modo, quando l'avevo conosciuta la mia vita si era rivoluzionata e non volevo fosse altrimenti.”
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: P!nk feat. Nate Ruess – Just Give Me a Reason

martedì 22 ottobre 2013

Recensione: Tenebre e Ghiaccio, di Leigh Bardugo

Ciao a tutti, amici! Come state? Dopo quasi una settimana, torno a rompervi le scatole con una nuova recensione. Si parla, questa volta, di Tenebre & Ghiaccio, il recente fantasy arrivato per la Piemme nelle nostre librerie, appena la settimana scorsa. Ringraziando Lucia per avermi dato modo di leggerlo, vi saluto e vi auguro buona lettura. Fatemi sapere la vostra: credo che, per una volta, non saremo d'accordo. Sarà per la prossima! Un abbraccio. Ps. Tutto normale nella visualizzazione del blog? Questa mattina, il computer mi faceva scherzi... E siamo arrivati a 500. E io, vabbè, vi amo.
Chiedi forse al tuo cuore di battere o ai tuoi polmoni di respirare? Il tuo potere ti obbedisce perché quello è il suo scopo, perché non può fare altro.


Titolo: Tenebre e Ghiaccio
Autrice: Leigh Bardugo
Prezzo: € 17,00
Numero di pagine: 280
Sinossi: La grande nazione di Ravka è divisa in due dalla Distesa delle Tenebre, un varco di oscurità impenetrabile popolata da mostri feroci e affamati. Alina Starkov è sempre stata una buona a nulla, un'orfana il cui unico conforto è l'amicizia del suo solo amico, Malyen detto Mal. Eppure, quando il suo reggimento viene attaccato dai mostri e Mal resta ferito, dentro di lei si risveglia un potere enorme, l'unico in grado di sconfiggere il grande buio. Immediatamente la ragazza viene arruolata dai Grisha, l'elite di maghi che, di fatto, manovrano anche lo zar, capeggiati dall'affascinante mago Oscuro. Ma niente alla sontuosa corte è ciò che sembra e Alina si ritroverà presto ad affrontare sia le tenebre che minacciano il regno, sia quelle che insidiano il suo cuore.

                                                   La mia recensione
"Il problema del volere qualcosa è che diventiamo deboli.”  In una Russia buia e gelida – misteriosa e impenetrabile come lo fu durante i controversi anni della Guerra Fredda e oscura e magica come in una fiaba tramandata da una centenaria e romantica babushka, nel cuore glaciale di un inclemente inverno, riscaldato appena dal calore del caminetto – si muovono i protagonisti di Tenebre & Ghiaccio, l'acclamato e atteso romanzo d'esordio di Leigh Bardugo, autrice israeliana d'origine e americana d'adozione. Un'ambientazione affascinante e inusuale, un linguaggio tutto da scoprire, una trama di cui conoscevo pochissimi dettagli; giusto il necessario. Senza bussole e sicure scorciatoie, ho voluto che questo suo mondo diventasse il mio per la durata di una lettura. Senza guide impavide e un po' folli a conoscenza della lingua indigena, ho sfidato, tutto solo, la Distesa delle Tenebre e ho seguito convogli interminabili, partecipato a sfarzosi balli, ascoltato parole di pericolose cospirazioni. Non sapevo cosa aspettarmi. Avevo preferito che la trama rimanesse una sorpresa da scoprire a piccole dosi e, alla cieca, in recensioni venute prima della mia, avevo adocchiato l'elemento più appetitoso e interessante: la valutazione finale. Tenebre & Ghiaccio, con i suoi voti altissimi, doveva essere un trionfo. Per forza. Doveva essere la novità che tutti noi aspettavamo, dopo vampiri tornati dalle loro bare, lune piene risalite nei cieli notturni con la mezzanotte, angeli ribelli, estenunati incursioni nel mondo del distopico. Necessariamente. Avrei dovuto capirlo dall'inizio, quando tutti criticavano quella copertina in stile graphic novel che a me piaceva parecchio. Già allora ero un filino in disaccordo con i miei amici lettori. E lo sono anche adesso, dovendo ammettere che Tenebre & Ghiaccio non mi ha entusiasmato, purtroppo, come da programma. Non mi ha contagiato, non mi ha conquistato senza riserva alcuna. A lettura ultimata, sfiorando con le dita il dorso liscio e blu del volume, non posso nemmeno ammettere che il romanzo non mi sia piaciuto, questo no; ma mi è piaciuto totalmente e incondizionatamente quando avrei detto che, ormai, era già troppo tardi per il colpo di fulmine. Mi è piaciuto a scoppio ritardato, a rallentatore. A una prima parte lenta e poco ispirata, infatti, se ne contrappone una seconda che, anche se solo negli ultimi capitoli, sa regalare bei colpi di scena e forti emozioni: l'essenziale; gli elementi più importanti e imprescindibili quando si parla di letteratura per ragazzi, a mio avviso. 
L'autrice, all'inizio, bombarda di dettagli e di nuovi vocaboli, di gerarchie difficili da cogliere e di immagini dense di cose. Delinea un'amicizia che si scopre amore sin dalla prima pagina e parla di un mondo in cui può risultare, a volte, ostico accedere. Ho visto scenari splendidi, parate raffinate di pellicce, mantelli e vestiti, palazzi monumentali e aristici intagliati tra rami ricurvi, foreste nere e soffici fiocchi di neve. Ho visto una protagonista che scopre tardi il suo potere e un'autrice che, sempre tardi, scopre le potenzialità della sua trama, imparando a padroneggiare le attenzioni dei suoi lettori con coinvolgenti trovate lontane dai meri trucchi del mestiere. Ho visto tardi la luce della giovane Alina risplendere come mille soli. Per il tempo restante, sono stato sulle soglie del crepuscolo: dove niente è nero e niente è bianco; dove niente è bello e niente è brutto. In una Distesa delle Tenebre dai toni grigiastri, abitata da creature splendide e mostruose e animata da un leggendario apparato mitologico di tutto rispetto. La trama è bella, semplicissima, ma senza il suo particolare sfondo e senza una cortina di nomi impronunciabili a gettare, nei momenti opportuni, abbondanti sbuffi di fumo negli occhi, avrebbe immediatamente rivelato il suo essere piuttosto simile a tante altre. Ai suoi personaggi è facile volere bene e leggere del consueto triangolo amoroso non infastidisce nemmeno per un istante, quasi come se la Russia rendesse anche quello più bello e la rete tagliente di intrighi, potere, lotte e tradimenti rendesse anche i legami più veri.Se la semplicità dello svolgimento non è stata un problema, lo è stata – almeno per i miei gusti – quella dello stile e del lessico. La scrittura della Bardugo è così pulita, così priva di orpelli, da risultare poco incisiva; poco memorabile. Lei ha personalità, ma il suo buon gusto non trapela da uno stile che non osa metafore, accostamenti, nuove strade. Sarebbe stato sorprendente e bello, invece, scorgere echi della cultura russa anche nelle righe stesse, oltre che nell'apparato scenografico. Se, con più audacia, l'autrice avesse fatto proprio uno stile più ricco ed elaborato, evocativo e barocco, strizzando, con la consapevolezza dei più grandi, l'occhio alle opere autenticamente intramontabili della letteratura russa, avrebbe avuto tutta la mia stima e molti più lettori al suo seguito. Invece, il suo romanzo è ambientato nella grande Russia, ma parla l'americano immediato e veloce dei licei. Leigh Bardugo non è Laini Taylor, che nella sua fumosa e spettacola Praga mi aveva fatto mettere le tende, regalandomi generosamente un viaggio al prezzo di un libro. Tenebre & Ghiaccio è un fantasy buono, ma non eccelso. Un romanzo con tanti elementi positivi e tanti elementi negativi, proprio come tanti appartenenti al genere. Lo consiglierei agli amanti del fantasy tradizionale, dei quali io – evidentemente – non faccio parte. Speravo che Tenebre & Ghiaccio sapesse portarmi lontano, invece nemmeno la Bardugo è riuscita nell'impresa impossibile di farmi cambiare idea, conquistandomi con un genere che non ho mai amato e che, forse, mai amerò. Aspetto un'altra avventura, un altro autore. Proprio per la sua essenzialità Tenebre & Ghiaccio, tuttavia, potrebbe essere considerato una boccata d'aria fresca. Un ritorno alle origini. Paradossalmente, è una delle novità più tradizionali che ci siano.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Bastille – Things We Lost in Fire

mercoledì 16 ottobre 2013

Recensione: Per una volta nella vita, di Rainbow Rowell

Buongiorno a tutti, amici. La prima recensione che mi ritrovo a scrivere qui, nella mia stanzetta al campus, è di un romanzo che ho divorato in una manciata di giorni, nonostante lo stress e gli impegni. Che l'avrei adorato a prescindere lo sapevate voi, e lo sapevo io. Trovate tutto nella recensione: leggetelo e parlatene a chi volete bene. La Piemme – che ringrazio tantissimo per avermi dato modo di recensirlo – stranamente non l'ha pubblicato all'interno della nota collana Freeway e a molti la sua uscita è sfuggita completamente. Io vi auguro buone letture e scappo via: sono incazzato nero perché, per l'ennesima volta, un prof in particolare non si è presentato a lezione. Eravamo io, l'aula vuota e la desolazione più totale. Un abbraccio a tutti, M.
Sei la mia persona preferita in assoluto.

Titolo: Per una volta nella vita
Autrice: Raibow Rowell
Editore: Piemme “Open”
Numero di pagine: 350
Prezzo: € 15,00
Sinossi: La loro storia inizia così, una mattina, sul bus che li porta a scuola. Park è immerso nella lettura dei suoi fumetti e perso tra le note degli Smiths, quando Eleanor si siede accanto a lui. Nessun altro le ha fatto posto, perché lei è nuova e parecchio strana, con quel cespuglio di capelli rossi e quell'abbigliamento improbabile. Il loro amore nasce dai silenzi, dagli sguardi lanciati appena l'altro è distratto. E li coglie alla sprovvista, perché nessuno dei due è abituato a essere il centro della vita di qualcuno. Tra insicurezze e paure, Eleanor e Park si scambiano il regalo più grande: amare quello che l'altro odia di sé, perché è esattamente ciò che lo rende speciale. Sarà la loro forza, perché, anche se Eleanor non sopporta quegli sfigati di Romeo e Giulietta, anche il suo legame deve fare i conti con un bel po' di ostacoli, primo fra tutti la famiglia di lei, dove il patrigno tiranneggia incontrastato. Riusciranno i due ragazzi, per una volta nella vita, ad avere ciò che desiderano?
                                                    La recensione
Aveva il classico sorriso da pubblicità di dentifricio, con tutti i denti in mostra. 'Dovrebbe sorridere così tutto il tempo' pensò Park. Da strana che era, la sua faccia diventava uno splendore con quel sorriso. Fosse stato per lui, l'avrebbe fatta sorridere così per sempre.” Capita di innamorarsi di un libro al primo tocco. Capita di innamorarsi di una persona al primo sguardo. Non è stato così tra me e Per una volta nella vita, non è stato così tra Eleanor e Park. I colpi di fulmine sono un lusso per pochi eletti e noi tre, figli di un Dio minore, - io di carne e ossa, loro di carta e non solo - non eravamo evidentemente tra i fortunati. Forse perché tutti noi ci siamo sentiti, a volte o sempre, strani, incompleti, fuori posto: persone a metà. Io, ragazzo un po' di carta, come in una versione al maschile del dolce libro di Guillaume Musso; loro, adolescenti con cuori veri che pompavano sangue rosso, vivo. Non d'inchiostro. Sangue pazzo all'interno di vene, braccia, arterie e organi disegnati a penna da un'autrice con un dono portentoso: dare vita a chi non ne ha una. 
Non parlo di magia nera, ovviamente; solo di purissimo e lampante talento. Ho scoperto questo romanzo per caso, quando mancava pochissimo alla sua pubblicazione. I lettori americani lo lodavano, quelli italiani lo bramavano come il pane in una carestia senza inizio e senza fine, io tardi l'avevo scoperto e tardi avermo cominciato a nutrire il desiderio forte di averlo tutto per me. Sembravano conoscerlo tutti tranne il sottoscritto, che eppure ero uno dei pochi ad averlo intercettato tra tante, invitanti e irrestistibili nuove uscite. Eleanor & Park lì... Eleanor & Park qui... E poi c'ero io, fuori dal mondo, fuori posto come il cavolo a merenda, che non sapevo bene dove collocarlo. Devo ringraziare Dio, la mia naturale ritrosia verso Goodreads e quella santissima pigrizia che, solo in casi assai rari, mi porta a studiare le trame di qualche romanzo straniero: l'attesa di leggerlo, altrimenti, sarebbe stata spasmodica. Lo so bene. La visione di me in attesa, tipo sfigatissima vedova di guerra, o ottantenne in coda alle poste, puntualmente, alla fine di ogni mese, è chiara e lampanta come il sole. Accecante. Avrei aspettato Per una volta nella vita praticamente una vita; magari tutta quanta. Invece, come Park, ho compreso di amare quando il danno già era fatto e quando, innamorato come la proverbiale prima volta di un romanzo che non si scorda mai, ero ormai alle prese con un sentimento scoperto, per fortuna e sfortuna, quando c'era già di suo. Park, una mattina come tante, sul solito pullman sgangherato e polveroso, non era in cerca dell'anima gemella: se ne stava sulle sue, a leggere fumetti e ad ascoltare vecchie, intramontabili canzoni rock. Non voleva essere amico di Elenor, la strana e appariscente ragazza nuova che, schernita come da copione dai più popolari dello scuolabus, quel primo giorno di scuola, si era seduta accanto a lui, con la voglia di sprofondare sul sedile, e sparire, e morire. Lui era stato strano e appariscente ogni giorno dei suoi tormentati e noiosi sedici anni, con le sue T-Shirt nerissime, i suoi occhi vagamente a mandorla, i suoi tratti delicati come quelli di un'antica bambola giapponese. 
Ma faceva di tutto per confondersi nella folla, per integrarsi. Quella Eleanor accanto a lui era un caso a parte: i capelli rossi e spettinati, i chili di troppo, i vestiti sformati e spaiati, i ciondolini, i braccialetti, gli orecchini da gitana. Era come un gigantesco semaforo che urlava al mondo "guardatemi" e che poi aveva paura degli sguardi altrui. Strana, anche più di lui. Consolante, imbarazzante, triste... e tutto insieme. Passeranno settimane prima che i due, vicini di posto ogni giorno nel solito tragitto verso casa, si scambino qualche parolina di convenienza. Il primo giorno lui la insulta apertamente, il secondo lascia che lei sbirci le sue letture, il terzo le presta antiquate cassette e fumetti già letti. In seguito, le accarezzerà timidamente la mano, le regalerà belle canzoni, farà a botte per lei, la amerà come un pazzo. Per una volta nella vita racconta la loro assurda, tenera, curiosa e crudele storiella d'amore adolescenziale, sussurrata nella cornetta del telefono, scritta in breve su una cartolina, alimentata da mille silenzi e mille malinconie. Le loro riflessioni sull'esperienza dell'amore sono imbarazzantissime e imbarazzatissime, surreali e comuni, sognanti e strazianti. Mi hanno riempito, dai piedi alla punta dei capelli, dal cuore al cervello, di una vorace fame d'amore e di una tenerezza che non saprei spiegare a parole, solo per emoticons, forse. Mi piacerebbe parlarvi di questa storia per messaggio, su Facebook o Whatsapp, invenzioni che Eleanor e Park – vissuti negli anni '80 degli U2 e degli Smiths – scopriranno solo da adulti, in un futuro che nel libro di Rainbow Rowell non c'è scritto. Sarebbe, allora, un tripudio di faccine sorridenti, cuoricini o, volendo, di faccine sorridenti con gli occhi a cuore, per non farci mancare niente; un'invasione barbarica di emozioni colorate senza parole aggiunte. 
Sarebbe, allora, tutto semplicissimo ed immediato, come da bambini. Come presso un asilo gestito dal Dottor Stranamore di turno in cui, se interrogati sul significato e l'importanza del desiderio e dell'affetto, i piccoli alunni darebbero risposte secche, spiazzanti e oneste che, più o meno, farebbero eco a quelle di questi due sedicenni che si sono riempiti il cuore tra loro e che mi hanno riempito il cuore di loro. Mi hanno emozionato così, senza bisogno di parole ad effetto e senza ricorrere a dialoghi pieni di miele. Senza parole, basta. Leggendo di loro, sorridevo al libro che avevo tra le mani e tutti coloro che mi circondavano. Sorridevo a Eleanor e Park con l'aria fintamente vissuta di chi, più grande, guarda chi è più piccolo di lui cadere familiarmente negli stessi errori, negli stessi atti di rivalsa, nella stessa rete leggera tessuta da angeli dalle ali pesanti. Cadere, come dicono gli anglofoni con un'espressione che adoro particolarmente, in amore: una voragine senza fondo a forma di cuore. Vengono da mondi diversi, hanno due famiglie disastrose a modo loro e bruscamente, senza grazia e tatto, si dicono cose stranissime, inaudite; cose che i normali essere umani non percepirebbero, forse, come complimenti galanti, ma che fanno sciogliere i lettori come ghiaccioli al limone che, in mano a Paolo e Francesca, attraversano invano l'inferno. Non è forse una delle esperienze più poetiche e belle del mondo leggere di Park che a una Eleanor schiva e pungente dà dell'antipatica cronica, per poi aggiungere che ha bisogno necessariamente di lei perché profuma come le torte alla vaniglia fatte in casa dalla nonna? La dichiarazione d'amore più stupida e fantastica del mondo, secondo me. Sono il più grande spettacolo dopo il Big Bang, insieme. Sempre loro, solo con il volume al massimo. Uniti, quando tutto il mondo li vuole separati, da un fumetto di fantasia e dalle cuffie del preistorico mangianastri di Park: stretti, tra le pagine, dalle pagine stesse e da un cordoncino nero targato Sony attraverso cui passa una musica che sembra cantare il suono dei loro addii. Ad aver parlato con voce piena di entusiasmo e di emozione di questo secondo romanzo dell'autrice, negli Stati Uniti, è stato il nostro amato John Green. Di lui vi fiderete, probabilmente più di me. Lui è il verde, Rainbow Rowell è un arcobaleno vivente: spiriti affini che si completano. C'è solo un prerequisito per leggere e trovare sè stessi in Per una volta nella vita: avere un cuore. Il resto verrà da sé. "Infilò la penna in tasca, le prese la mano e se la tenne sul petto per qualche istante. Era la cosa più carina che potesse farle. Eleanor provò il desiderio di avere dei figli da lui e di donargli entrambi i reni."
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Taylor Swift feat. Ed Sheeran – Everything has changed

martedì 15 ottobre 2013

Mr Ciak #20: Shadowhunters, Stuck in Love, Starbuck, Plush

Ciao a tutti, amici. Nuova settimana di università, per me. Dopo essere andato in facoltà a vuoto, questa mattina alle nove, e aver saputo che la lezione di storia del teatro inglese è stata spostata di un'ora, mi sono rifugiato nella mia stanza e ho deciso di fare quattro chiacchiere con voi, in attesa di una nuova recensione. Mr Ciak vi torna a parlare di film: dell'atteso e deludente Shadowhunters, del simpatico e dolce Starbuck, del controverso ritorno della regista di Twilight, di una commedia romantica – sfortunatamente inedita da noi – che consiglio a tutti di vedere, magari con i sottotitoli. Un bacione e a presto, Mik.

Era stato presentato come il film dell'estate 2013. C'erano stati conti alla rovescia estenuanti, post su post, recensioni e iniziative. Euforia generale. Io, dalla mia parte, mi ero tenuto alla larga, come sempre. Eppure, spinto dalla curiosità, su consiglio di un'amica, avevo letto il primo romanzo della serie: dark, simpatico, misterioso, fantasiosamente divertente. A prima vista avevo capito il mondo della Clare e, per nulla dubbioso, avevo colto il segreto del suo inarrestabile successo. Ho visto il film solo adesso, a mesi dall'uscita: i cinema della mia città, chiusi per ferie, avevano deciso di non proiettarlo e io non ero poi così infervorato all'idea di vederlo. Tutto a tempo debito, tutto a tempo debito... Si gridava al successo assicurato, al capolavoro dell'urban fantasy, eppure Shadowhunters – Città di ossa, al botteghino, era stato un mezzo disastro. Il perché lo attribuivano ai danni apportati dallo streaming agli incassi cinematografici, allo sfortunato e pigro periodo in cui la Eagle Pictures l'aveva distribuito, al cast poco convincente. La verità è che, anche se a molti critici cinematografici, a modo suo, il film è piaciuto, la trasposizione di Shadowhunters è deludente su molti fronti; tutti. I personaggi sono gli stessi del romanzo, come le stesse sono le situazioni e le atmosfere, ma è ciò che li lega a venire meno. Non c'è, in nessuna delle scene proposte, lo spirito della creatrice della serie, Cassandra Clare; mancano del tutto quel brio, quella sgraziata grazia, quell'autoironia irresistibile che fa piegare in due dalle risate il lettore. Il film è serioso, troppo. Si apre, di tanto in tanto, a qualche battutina sarcastica, ma non fa minimamente sorridere. Manca totalmente la voglia, manca l'intenzione. Manca, insieme al resto, un tassello importante di una saga che, altrimenti, non avrebbe niente di particolare. Quello che rendeva le 500 pagine del primo romanzo immensamente leggere e scorrevoli erano i litigi tra i protagisti, l'acidità di Isabel, le manie di protagonismo di Alec e Jace, i comprimari indimenticabili. Qui, come su una rivista per adolescenti, tutto viene fatto ruotare intorno alla coppia Collins-Campbell Bower: si baceranno o non si baceranno? E che dire delle sopracciglia cespugliose di Lily? E dei capelli troppo biondi di Jamie? Sono una calamita per ragazzine innamorate, ma – per quanto sia a conoscenza della loro bravura, grazie ad altri film più meritevoli a cui hanno preso parte – questa loro prova è poco più che discreta. Le frasi suonano troppo stucchevoli e la chiacchierata scena della serra, accompagnata dalla canzone di Demi “Camp Rock” Lovato, sembra rubata a un cartone per bambini della Disney. Loro sono bravini, anche se meno belli di quanto immaginassi, ma è la situazione a non essere credibile, anche se tutti sanno che si tratti di pura invenzione. Si potrebbe ripiegare sui comprimari, ma, pur essendo interessantissimi, sono stati sfruttati poco, pigramente, male. Le discutibili scelte degli sceneggiatori fanno sì che si sveli troppo, e subito: l'omosessualità di Alec, viste le sue movenze eccessive alla Cristiano Malgioglio, più che vissuta con sofferenza, mi è parsa ostentata; Isabel – chiamata, dai doppiatori italiani, Isabél, alla napoletana maniera – è poco più che una bella stronza dagli occhi blu; Magnus è un cameo con troppo trucco e le mani troppo lunghe; il tenebroso Valentine sembra sfuggito a un concerto rock, in cui manipoli di ragazzine eccitate gli hanno disegnato strani marchi con l'uniposca nero sul petto glabro. Si salva giusto Simon: perché ricorda tremendamente il sottoscritto e perché Robert Sheehan, il simpatico protagonista di Misfits, è naturalmente adorabile. Odiosa la scelta di rivelare alcune cose sin dalle prime scene. Gli spoiler, scusatemi, vengono da sé: la paternità di Valentine, il potere segreto di Luke, il rapporto-non rapporto tra Jace e Clary, il regalino che i vampiri hanno fatto al povero Simon … Grazie tante, eh: mi avete rivelato gratuitamente e inutilmente cosa accade nei volumi successivi! E poi manca la parte che più ho adorato: l'esilarante trasformazione di Simon in un topolino spaventato. Di essere esilarante al film importa poco. Vuole essere figo, modaiolo, innovativo, spassoso, ma non riesce in niente di tutto ciò, purtroppo. Shadowhunters è un'occasione persa, il che è altamente imperdonabile: avevano “la pappa” di mamma Cassandra già pronta. Dovevano solo agitare bene prima dell'uso, ma sono riusciti a fare un disastro anche con del cibo preocotto. Non è inguardabile, chiaro, ma, come la trasposizione cinematografica di Rubinrot, perde per strada tutto il suo affascinante perché. Pensavo fosse soltanto imputabile alle aspettative troppo alte di fan dalle lamentele sempre pronte, ma CoB è piuttosto bruttino. Ammetterlo mi dispiace a morte. I paragoni con Twilight erano risultati un affronto per gli estimatori più infervorati della saga targata Chrysalide. Intanto, che piaccia o meno, di Twilight siamo ancora qui a parlare; scometto, invece, che del film Shadowhunters, a breve, non farà più parola nessuno. 
 
Un film che dura un'ora e mezza e un anno intero. Una grande commedia umana dalla potenza rarissima. Uno dei film di genere più belli dell'anno. Questo è quello che penso di Stuck in Love, titolo banalissimo per una commedia banale e imprevedibile allo stesso tempo, proprio come, a volte, sa esserlo la vita di tutti i giorni e di tutti noi. Un film sbucato dal nulla, mentre curiosavo nella biografia del giovane e inesperto regista che avrebbe diretto la versione cinematografica dell'acclamato e atteso Colpa delle stelle. Questo è il primo film vero e proprio di Josh Boone e ha un cast vero, di seria A. E Stuck in love – al diavolo la ripetitività - è un film vero: non mi vengono in mente altri aggettivi per parlarne. Ho capito che mi sarebbe piaciuto dalla prima scena, quando i pensieri di uno dei protagonisti si concretizzavano sullo schermo insieme alle immagini della pellicola. Come in un romanzo. Come in una vecchia foto con una dedica sbiadita sopra. Mi è piaciuto tutto, mi è piaciuto a lungo, mi è piaciuto tanto. E' una storia come tante e nessuna, di seconde possibilità e primi amori. La storia disastrosa e splendida della famiglia Borgens. Dell'ex famiglia Borgens, anzi. Perché Erica e William, dopo vent'anni, si sono lasciati: lei – la sempre affascinante Jennifer Connelly – convive con un uomo molto più giovane e atletico di lei; lui – un bravissimo Greg Kinnear, visto in un ruolo piuttosto simile nel decisamente meno bello The Last Song – ha ancora la fede al dito, si svaga facendo sesso occasionale con la sua bella vicina di casa, vive di ricordi malinconici. Una volta, prima della rottura, era un grande scrittore, ma non ha il coraggio di toccare una penna da allora: il dolore per il suo matrimonio fallito è ancora bruciante e vivo. Del loro amore perduto restano due figli diversissimi tra loro. Samantha – che ha una paura matta di innamorarsi – e Rusty – che, invece, ha una voglia matta di farlo. A unirli è qualche canna fumata di nascosto, sul tetto, e l'eredità paterna: il dono della scrittura e l'amore smisurato per i romanzi. Questo è un film fatto di tanti personaggi maschili e di tanti personaggi femminili. Di persone di carne e ossa, difetti e pregi. E io mi sono identificato con tutti gli uomini di Stuck in love: forti fuori e fragili dentro, incalliti sognatori e autori di romanzi desiderati, ma mai scritti. Ho ritrovato me stesso in Rusty (Nat Wolff), con la sua passione smisurata per un signore di nome Stephen King, e in Lou (il bravissimo Logan Lerman di Noi siamo infinito), con la convinzione che l'amore e la compassione possano sempre rendere le persone più buone. Le donne, invece, sono quelle forti: una madre e una figlia che non si rivolgono più la parola da anni e che, nelle loro mani, reggono il mondo di tanti uomini dalle spalle larghe e dai cuori di vetro; un'adolescente piena di vizi e paure che, apparentemente uscita dall'intensa A-Team di Ed Sheeran, deve essere forte per sé stessa e per il suo ragazzo insicuro. I dialoghi sono tanti, la colonna sonora è appena un bisbiglio di sottofondo, i momenti da brivido abbondano. Il cast è portentoso. E una scena particolare, in cui Stephen King in persona chiama il suo fan numero uno, be', mi ha fatto un certo effeto. Quella scena e Lily Collins, sempre più bella e sempre più matura. Se avete amato Crazy Stupid Love, I ragazzi stanno bene e Noi siamo infinito dovete guardarlo. Dovete farlo se le parole – scritte o semplicemente lette – sono, per voi, tutto quanto. 

Scoprire, da un momento all'altro, che avrai un figlio dalla tua “quasi” ex è uno shock. Scoprire, lo stesso giorno, di essere padre di altri 533 figli desiderosi di conoscerti è un altro paio di maniche davvero! Questo è quello che capita a David, il protagonista di questa originale commedia franco-canadese, interamente recitata in lingua francese e diretta da Ken Scott. Il titolo: Starbuck – 533 Figli e non saperlo. Per una volta, il sottotitolo italiano – nonostante sembri preannunciare un demenziale e volgarotto film comico – mi ha fatto scoprire questo film, che altrimenti avrei snobbato facilmente, pensando, magari, alla storia della nascita della catena di caffè Starbucks! Il protagonista non è né un cameriere, né il padre del franchising: niente di tutto questo. E' sulla quarantina, lavora nella macelleria a gestione familiare dei suoi, è immaturo e non sa vivere senza mettersi nei guai. Si è indebitato con dei tipi loschi e nel suo appartamente coltiva piantine di marijuana, con la speranza di fare abbastanza soldi per pagare i suoi creditori. Poi scopre che diventerà papà, e sa che sarà un pessimo padre in tutto e per tutto. Finché, in casa, non si ritrova un avvocato che gli rivela che i suoi scheletri nell'armadio hanno cominciato a scricchiolare: sul finire degli anni '80 – sempre in cerca di soldi facili – ha donato il suo sperma alla banca del seme e, vent'anni dopo, scopre che le sue donazione hanno avuto i suoi frutti: è il padre biologico di cinquecento e passa adolescenti che vogliono conoscerlo. La notizia si diffonde e i media cercano di rintracciarlo. La domanda è sulla bocca di tutti: chi è, in realtà, il donatore anonimo che si firmava come Starbuck? Ero convinto di passare la serata a guardare una stupidata totale, come faccio tutte le sere o quasi. Invece, vedere questo film è stata una di quelle sorprese belle, belle che non ti aspetti. Si tratta, infatti, di una commedia originale, intensa, profonda e molto realistica. La trama suona come un'assurdità, ma, credetemi, potrebbe essere benissimo una storia vera. Sarà per la leggerezza e la lucidità del tutto, sarà per la mano sicura del regista, sarà per lo spirito così poco americano del film, capace di mescolare risate e dramma, senza mai cadere in nessuno eccesso. E' una storia di crescita, di un bambinone sui quaranta che, grazie al miracolo della paternità, rivaluta il suo mondo, i suoi affetti e sé stesso. Diventa una persona migliore, seguendo da lontano i suoi tanti figli senza che loro lo sappiano. Ragazzi bianchi e neri, etero e gay, ambiziosi o demoralizzati, sani o affetti da handicap. Vedi il mondo nell'arco di un solo film, e, per di più, tanto piccino. Per questo, a tratti, mi ha ricordato il romanzo Ogni giorno, di David Levithan o il magnifico Quasi amici. Toccante e umano il personaggio del protagonista e ottima la prova del bravissimo Patrick Huard, che lo impersona. Il film è arrivato tardi da noi: due anni dopo l'uscita in patria. E indovinate? Giusto per accogliere il remake americano, in uscita a Novembre: Delivery Man, con quella sagoma di Vince Vaughn e con lo stesso Ken Scott che – come Haneke e tanti altri – ritorna per la seconda volta dietro la macchina da presa per dirigere lo stesso film. Dal trailer, sembra identico, solo con facce nuove: stesse scene, stesse battute. Inquietante... Guardatelo, prima che sia troppo tardi, e con tutta la famiglia: magari avrete voglia di un grande abbraccio di gruppo. Non ve ne pentirete. 
 
Catherine Hardwicke è una regista il cui nome, nel bene e nel male, è costantemente collegato alla saga di Twilight. Lei, regista di film audaci, indipendenti e dal sapore sperimentale, nel 2008, infatti, aveva diretto, con grande successo almeno di pubblico, l'adattamento cinematografico del primo capitolo della storia d'amore tra l'immortale Edward e l'umana ed inerme Bella. A quello, era seguito il più che discreto Cappuccetto Rosso Sangue, versione in chiave dark della celebre e inquietante fiaba con protagonista lupi cattivi, cacciatori e impulsive donzelle dai capelli biondi e dalle mantelline vermiglie. In America, quest'anno, dopo qualche anno di assenza, la Hardwicke ha portato al cinema questo Plush, un thriller vagamente erotico ambientato nel mondo della musica. La trama mescola sesso, amore, ossessione e rivalità e, sulla scia continuamente ricalcata di Attrazione Fatale, propone il pericoloso e noto triangolo “lui, lei, l'altro”. Tuttavia, anche se la storia non promette e non dà effettivamente nulla di realmente nuovo, risulta nuovo – almeno in parte – il modo di raccontarla. A livello registico, ho trovato Plush molto interessante. Un incrocio tra un videoclip e uno snuff movie, con riprese violente e nervose, atmosfere cupe e riprese velocissime, poco precise, a tratti nevrotiche. C'è un alone di malato e proibito che domina il tutto, una voglia di trasgressione latente e condivisa con l'esterno in maniera sobria e saggia. Le celebrazioni e le critiche alla venerata triade sesso, droga e rock 'n roll hanno un innegabile fascino. Fascino che, di pari passo, va con l'originale e ben diretto cast. Tre attori giovani e promettenti ai vertici di un triangolo di baci e latex. Tre protagonisti i cui nomi, in un modo o nell'altro, sono legati al Twilight che tanto ha causato successi e tormenti alla regista. La protagonista, che ha il nome e il look della leader dei Paramore, è una giovane cantante dalla vita sregolata che, dopo la tragica morte dell'amato fratello, cerca di rimettere insieme i pezzi della sua band e della sua famiglia. Lei – ninfetta bionda e sensuale dalla voce d'angelo – è la venticinquenne Emily Browning che, insieme alla Stewart, era in lizza per la parte di Bella Swan, qualche anno fa. Emily, che molti ricorderanno per Una serie di sfortunati eventi e che, nel frattempo, ha recitato in The Uninvited e Sucker Punch, presta la sua bella voce e i suoi dolci lineamenti a un personaggio curioso, che in copertina – con un paio di occhiali da sole colorati – ammicca come una tentatrice Lolita. Suo marito, un giornalista e un critico musicale, nonché padre dei suoi figli, è Cam Gigandet che, più maturo e adulto del solito, abbandonati i consueti panni di villain, risulta convincente e migliorato. Ottimo e sorprendente, invece, Xavier Samuel che, visto tra l'altro in Eclipse, interpreta la nemesi di Emily e l'angolo più pericolo e acuminato di questo triangolo amoroso. Ambiguo, languido, provocatorio, letale, è una Glenn Close al maschile, solo con più smalto nero e eyeliner. La colonna sonora è buona, le prove attoriali sono complessivamente convincenti, la semplicità della sceneggiatura viene compensata da una resa alquanto efficace e molto vintage. Ricorda il rock degli anni '70-'80 e, vagamente, i thriller più celebri ed imitati di quegli anni. I capelli lunghi e ossigenati di Lord of Dogtown, i piercing e le droghe di Thirteen, i volti belli e pallidi di Twilight...

sabato 12 ottobre 2013

Recensione: Dark Heaven - L'abbraccio dell'angelo, di Bianca Leoni Capello

Ciao a tutti, amici miei. Ma come state? Ogni tanto, rimanendo fedele alla promessa che vi ho fatto, riesco a postare qualcosina. Un'altra settimana di università è andata via e, come la settimana scorsa, oggi, vi propongo la recensione di un romanzo che ha viaggiato con me: il sequel di Dark Heaven (la mia recensione qui), l'urban fantasy scritto a quattro mani da Flavia Pecorari e Lorenza Stroppa. Ringraziando la Sperling per avermi dato modo di leggerlo, vi abbraccio, vi consiglio di recuperare il primo – se siete fan del genere – e di aspettare con curiosità il terzo. La recensione non contiene spoiler di nessun tipo. Un bacione a tutti, M.
Il tempo non è una freccia scagliata verso il futuro, ma una spirale che continua a svolgersi e ad avvolgersi. Senza mai trovare il suo centro.


Titolo: Dark Heaven – L'abbraccio dell'angelo
Autrice: Bianca Leoni Capello
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 350
Prezzo: € 16,90
Sinossi: Dopo essersi rincorsi per molti secoli e per molte vite, Virginia e Damien si sono finalmente ritrovati. Ora però lui è un angelo caduto e, in quanto tale, l'amore gli è negato. Per ottenere il perdono delle più alte sfere celesti e vivere accanto alla ragazza che ama, Damien è costretto ad affrontare una prova difficilissima: resistere a una tentazione squisitamente umana. Ma, nel lungo cammino verso la felicità, gli ostacoli sono sempre in agguato. Le forze del male infatti minacciano tutto ciò che Damien e Virginia hanno di più caro. Soprattutto Penny e Francesco, gli amici di sempre...
                                                    La recensione
Voglio continuare a combattere per lei e a litigare, sentendo ogni volta uno strappo al cuore. Voglio continuare ad amarla con quell'intensità selvaggia e disperata che solo lei mi suscita. Lei che è sempre stata mia, lei che è destinata a me, profondamente ed eternamente.” L'anno scorso, Dark Heaven – romanzo d'esordio di due amiche per la pelle, riunite in incognito sotto un aristocratico e raffinato pseudonimo – aveva rubato, inaspettato e coinvolgente, i miei ultimi giorni d'estate. Appiccicato allo schermo del computer, avevo rinunciato all'ultima giornata di sole di Settembre per salpare, anche se perfettamente seduto sulla mia sedia girevole, verso mete lontane e allettanti. Flavia e Lorenza – le allegre e romantiche personalità celate dietro il nome di Bianca Leoni Capello – mi avevano regalato una storia di cui, ormai, non ricordo più i singoli dettagli, ma che, all'epoca, mi aveva sorpreso in positivo, grazie a una scrittura avvolgente e sinuosa e a un intreccio semplice e ammaliante come un bell'incantesimo; grazie a una trama sospesa tra passato e presente, salvezza e dannazione, sensualità e innocenza perduta. Dietro una copertina dall'aria dark e suadente, bella al pari delle tante che vediamo tra gli scaffali consacrati all'urban fantasy nelle nostre librerie di fiducia, brillava chiara una scintilla, alimentata dalla luce riflessa di astri forse più grandi e, altresì, da una benzina incendiaria propria solo e soltanto di quell'esordio in particolare. Il tricolore sventolava in silenzio, tra le righe, e l'essere così patriotticamente legato alla nostra Italia, allo splendore malinconico di Venezia e ai ricchi sfarzi della Monreale antica si era rivelato un pregio introvabile. Ricordo di aver detto che, se fosse stato un film, Dark Heaven sarebbe stato un successo garantito, con i suoi scenari mozzafiato, i suoi bruschi rovesciamenti, i variegati costumi di scena - che andavano dai comuni jeans a vita bassa ai corsetti ornati di pizzo di un passato splendente -, le angeliche apparizioni supportate da effetti speciali d'inchiostro, e gli amori adolescenziali e non... Le autrici, in particolari la simpatica Lorenza, inviandomi il pdf del loro primo libro, mi avevano detto, con un sorriso che avevo scorto nelle loro email, di essere spietatamente sincero: la sincerità c'era stata, non la spietatezza temuta e cercata al tempo stesso. La carezza dell'angelo mi era piaciuto immediatamente, e non c'era stata una sola sbavatura nel quadro generale a farmi pronunciare la benché minima nota di biasimo: era carinissimo, ben scritto, veloce, intrigante. Una perfetta lettura di svago; leggera, ma tutt'altro che impalpabile. Dati questi presupposti, nonostante il finale appagante e quasi autoconclusivo, la lettura del seguito non poteva mancarmi. Una copertina sempre bella, personaggi sempre noti, una struttura sempre collaudata. 
Le sensazioni che L'abbraccio dell'angelo mi ha suscitato sono diverse, strane. Non negative, ma positive solo in parte. Rispetto al primo volume, la gestione dei personaggi è migliore, la prosa è più pulita, i capitoli sono più numerosi, ma – nonostante le tante e innegabili migliorie apportate, con grande impegno e umiltà – questo sequel ha una marcia in meno, se paragonato al suo diretto predecessore. L'ho finito senza neanche accorgermente, per nulla annoiato o amareggiato, ma, qualora in maniera analitica e precisa fossi chiamato a soppesare la solidità dell'intreccio, delle 350 pagine totali prenderei in considerazione soltanto pochi elementi, concentrati soprattutto nel riuscito e "crudele" epilogo. La maturità e l'esperienza delle autrici ha permesso loro di creare personaggi incredibilmente vicini ai lettori in carne ed ossa, realistici e completi, e sono proprio loro, con mano ferma e animo traballante tra cielo e abisso, a guidare una storia meno ispirata ed accativante, a mio parere. Cosa non da poco. Cosa imprescindibile, quando la sottilissima ed evanescente trama si regge solo su di loro, che hanno spalle abbastanza larghe e gambe abbastanza forti per sollevarla un po' più dal suolo. Lorenza e Flavia, in questo nuovo romanzo, ci parlano di come vivono ora le loro esistenze mortali ed immortali. Descrivono la loro normalità presumibilmente ritrovata, i problemi superabili e quelli insuperabili, le loro vite comuni. C'è realismo e maturità in ciò, un certo talento nel mantenere viva e costante l'attenzione con una trama che regala poche, pochissime novità, ma, purtroppo, anziché raggiungere nuove mete, L'abbraccio dell'angelo fa piccoli passi indietro. Più ancorato alla terra che a un mondo di fantasia, getta acqua sui suoi tratti tanto ben definiti, un tempo, e il risultato appare più incerto, insicuro, opaco. Anche se non la curiosità, pagina dopo pagina, è proprio la componente fantastica a venire meno. A ricordarci che si tratta di un urban fantasy ci pensano quella magica cover e qualche elemento sporadico sparso qui e lì: sentimenti umani, quali la gelosia, l'amore, il desiderio e la delusione, abbondano; sono quelli che io chiamo effetti speciali, invece, a non esserci. 
L'apparato mitologico è scarso, l'elemento gotico sembra confondersi involontariamente con i cieli uggiosi e cupi della piovosa Venezia, le finestre aperte sul passato di uno in particolare dei personaggi scricchiolano e sono dischiuse con una certa monotonia. I pericolosi intrighi di corte presso la famiglia Gonzaga, insieme a una storia di seduzione e proibito che potrebbe ricordare vagamente Boccaccio, non hanno lo stesso fascino e la stessa attrattiva dei flashback che, appena l'anno prima, vedevano al centro le vite passate e tormentate di Damien e Virginia. Ragionando sempre per metafore cinematografiche, mentre La carezza dell'angelo era un piccolo e promettente kolossal, questo nuovo Dark Heaven, con scenari più ristretti e strutture che lasciano tanto spazio ai dialoghi e poco all'azione, ha le caratteristiche di un telefilm: un taglio diverso, visuali limitate, una trama che aspetta un nuovo episodio ancora per evolversi in meglio. Questo sequel soffre dei complessi di inferiorità e delle incertezze proprie di tutti i capitoli intermedi delle trilogie contemporanee: sintomi noti, non incurabili. Per fortuna ci pensano i personaggi che già conosciamo a guidarci. Dal liceo all'università, li ritroviamo ancora. Ci ritroviamo ancora. Sono tutti sui vent'anni, più maturi dei loro “colleghi” d'oltreoceano. Per Virginia e Damien ha inizio la convivenza tanto desiderata: devono spostare i mobili, fare il bucato, cucinare con risultati disastrosamente comici. Dopo un'eternità giocata a rincorrersi e a ritrovarsi – anche al buio, anche senza luce – i nostri due protagonisti si costruiscono con calma e confidenze reciproche un nuovo presente. Insieme. Sembrano Sandra e Raimondo, mentre, a letto, battibeccano o mentre, con il lume che li avvolge in una calda bolla di luce, parlano della loro giornata, delle loro letture, delle loro fatiche umane e sovrumane. A riposo, come in una luna di miele mai officializzata, e quasi cullati, nella mia immaginazione, dal brano La costruzione di un amore - capolavoro musicale di Fossati -, scavano a fondo in nome di ricordi comuni, lottano contro i demoni della normalità, salvano il loro amore da gelosie, bugie e altre catastrofi. E Francesco e Penny, loro migliori amici, seguono le loro orme, incuranti dei pericoli futuri: perché, si sa, chi va con l'innamorato impara ad innamorarsi. Al primo avevo dato tre stelline, anche se, ripensandoci adesso, alzerei leggermente il voto; questo seguito ne merita mezza in meno. E' il mio strano incentivo; un invito al miglioramento che, sono sicuro, ci sarà. Flavia e Lorenza lo capiranno.
Il mio voto: ★★ ½
Il mio consiglio musicale: Modà – La notte 

venerdì 11 ottobre 2013

I ♥ Glee: 5x03 - The Quarterback

"Tutti vogliono parlare di come è morto, poi, ma a chi importa? Un solo istante in tutta la sua vita. A me interessa più come ha vissuto."
Io odio tante cose. Odio le ostentazioni e le scenate. Odio quando il dolore viene urlato e le lacrime, come fiumi di falsità, scorrono dagli occhi. Odio dover star male. Odio le cose fuori programma. Odio questo post, che racchiude tutto quello che mi fa paura: il dolore, il disordine, la fatalità. Non era programmato, ma nemmeno la morte di un ragazzo di trent'anni lo era. Sovverte ogni piano, ogni regola, ogni ordine. Ogni certezza. Avevo tante cose da fare, oggi. Avevo evitato accuratamente di ricordare che, come ogni venerdì pomeriggio, c'era Glee ad aspettarmi. Poi il mouse è corso naturalmente a play, la musica è partita e, insieme a lei, il terzo episodio della quinta stagione di uno dei miei telefilm preferiti: quel Glee che è gioia pura. Un cielo senza nuvole, una giornata senza la tristezza. Ma qualcosa era cambiato sin dall'inizio. Sin dal primo episodio della nuova serie, debuttata tre settimane fa in America, c'era una sedia vuota in mezzo a quei personaggi che, ormai, chiamo familiarmente per nome. Una voce in meno in un coro che non canta più come una volta. Il 13 Luglio 2013 – quasi tre mesi fa – la realtà è piombata a peso morto sul cast intero, creando una frattura ampia un metro e novantuno che ha messo ogni cuore a soqquadro. Cory Monteith, il gigante buono che aveva dato la sua voce, i suoi occhi scuri e il suo sorriso cordiale al personaggio dell'onesto Finn Hudson, è morto. La sua vita riassunta in un trattino come un altro: 1982 – 2013. Trentun'anni, miliardi di sogni, una vita intera riassunti così. Un'esistenza, come spesso accade in questo mondo, spenta bruscamente da un'insana e drammatica dipendenza.
Non vi dirò che è sbagliato, perché lo sapete già. Non vi dirò che ci sono persone che muiono ogni giorno e che hanno sorti decisamente peggiori, perché lo scopro istante dopo istante, proprio intorno a me. E voi, facciamo questo patto sacrosanto, promettetemi che non direte che, come Amy Winehouse e altri prima di lui, Cory se l'è cercata; promettetemi che non lo accuserete di aver raggiunto il fondo volontariamente, a forza di bracciate, e di aver lasciato che il suo talento morisse egoisticamente insieme a lui. Lo diceva Tolstoj, non lo dico io: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Ci sono storie, e dolori, e stati d'animo che noi, dall'esterno, non conosceremo mai per davvero. Noi non conosceremo mai per davvero Cory Monteith. Io non lo conosco abbastanza per giudicarlo, ma lo conosco abbastanza per celebrarlo a modo mio. Glee, oggi, mi ha giocato un brutto – bruttissimo – scherzo. Ho spento la TV, mi sono alzato dal divano in fretta e furia e mi sono asciugato gli occhi con la maglietta, ripetendomi che quel plaid un po' umido, in un angolino, non era colpa mia. Un plaid, sì, anche se non avevo freddo, all'inizio. Poi, dalla prima scena, il mio cuore ha perso qualche battito e la temperatura è scesa, disegnando sulle mie braccia una pelle d'oca che ancora non va via. The quarterback è un addio. L'episodio che Ryan Murphy ha scritto in memoria di una persona a cui tutti quanti abbiamo voluto istintivamente bene. I personaggi del cast erano in una fila ordinata, sul palcoscenico illuminato – per una volta – senza sfarzo. I vestiti neri, gli occhi fissi. Meravigliosi e impeccabili come sempre cantavano l'intro del musical Rent, Season of Love, e rivolgevano i loro acuti e le loro armonizzazioni a un posto tristemente vuoto, giù in platea. La foto di Cory è comparsa alle loro spalle e la puntata vera e propria è iniziata. Una puntata strana, in cui la finzione e la realtà si sono confuse per quaranta minuti. O forse ero io ad essere confuso, per via delle lacrime, necessarie ed immancabili. Puntuali. Gli attori hanno svestito i panni dei loro personaggi e, quasi in borghese, hanno interpretato loro stessi, non dovendo fingere – per una volta – una spensieratezza che non c'è. Tre mesi fa, il mio pensiero è corso a loro: una famiglia con un membro in meno. La mia famiglia, senza più un fratello maggiore. La puntata mostra le loro reazioni, in un episodio dalla trama inesistente in cui solo il rimpianto e la commozione restano. Le coreografie non ci sono, le canzoni sono bisbigli, i personaggi improvvisano il dolore che hanno conosciuto da vicino. Io ero con loro; sono stato con loro dal primo minuto all'ultimo. Faithfully. Li ho abbracciati da lontano e, come una spugna, ho assorbito un po' del veleno che aveva corrotto la loro linfa colorata: io, che non sono mai stato un tipo empatico. Glee è l'orlo argenteo delle nuvole. Mi ha dato tanto e, in un solo episodio, mi ha tolto tanto. Ha rubato la trave portante di una facciata, che ormai è crollata in un ammasso di sassi brutti e grigi. Me lo aspettavo, ma non me lo aspettavo. Invece, in quella fiaba canterina un po' inverisimile e ingenua - ma taaanto adorabile - in cui due ragazzi gay possono sposarsi, un adolescente sulla sedia a rotelle più conquistare la più sexy della cheerleader, un ragazzo trans può camminare senza maschere per i corridoi del suo liceo, per una volta, c'è stato spazio per il dolore autentico. L'ho sentito, assordante e violento, scostare il tendone rosso e salire sul palcoscenico. Senza invito, indesiderato. Era nello sgomento senza voce del professor Schuester, nella rabbia di Puck, nelle battute acide di Sue, nel coraggio che Santana trova dentro di sé per imparare a liberarsi da quel groppo che le impediva anche di cantare. Era in Rachel, la straordinaria Lea Michele, che ha perso il suo fidanzato dentro e fuori dal grande schermo. Non solo per finzione. Lei è Glee. Un'anima senza un pezzo importante, un corpicino da stringere incredibilmente forte a sé, la voce di un angelo e la forza di un leone. Ha finto finché ha potuto: anche nella prima puntata di questa nuova serie, quando cantava malinconica Yesterday, tutti noi sapevamo che aveva parole, occhi, orecchie e battiti solo per il suo “Finn”. Se avessi saputo cantare, io avrei cantato insieme a loro. Sul divano, invece, mi sono limitato a tirare su con il naso e a muovere la bocca in silenzio, modellandola su canzoni che risentirò fino a farmi sanguinare le orecchie; come un pesce rosso sbalzato via dalla sua bolla di vetro. Scrivere queste righe è stato il mio atto catartico. E forse starò meglio, tra un po'. Glee fa venire voglia di cantare a chi è stonato come me; fa venire voglia di ballare a chi, impacciatissimo, ha due piedi sinistri; fa venire voglia di piangere anche a chi non sa farlo più. Fa venire voglia di vivere anche a chi, dal fondo del suo lutto, si ripete che non potrà sopravviere. La 5x03 di Glee è una puntata che non cancellerò mai dal mio Pc e dalla mia mente: toccante, liberatoria, delicata, schietta, memorabile. Mi ci voleva – oppure no. Forse no! – ma finalmente tutti hanno potuto dire il loro ultimo addio, insieme a me, al ragazzone che, con la sua giacca rossa da football e il suo ricciolo ribelle, era un po' il nostro Superman. Quand'è stato il nostro turno - anche se non è stata colpa di nessuno, lo so - non siamo riusciti a salvarlo. Si è tenuto, fino alla fine, il suo dolore per sé, fino a scoppiare in mille pezzi confusi: potete vederla come viltà, la sua, o come la stupida, eccessiva, folle bontà di chi – con i suoi drammi – non voleva essere un peso per gli altri. Sapete già cosa penso io, per quel che vale. E, sempre per quel che vale, anche se forse lui non mi sentirà, dove si trova adesso, io glielo dico lo stesso: grazie. Per la musica, le risate, la tolleranza, il sorriso sempre pronto. Ti abbiamo voluto tutti bene, e te ne vorremo sempre. 
Senza rancore.